Rivista Anarchica Online


liberismo

La Enron per esempio
di Antonio Cardella

Adesso che il caso è esploso e l'edificio del liberismo senza lacci e lacciuoli è scosso nel profondo della sua gaudente euforia, tutti si stracciano le vesti. Quanta ipocrisia, anche a Porto Alegre!

Come è vero! Nulla in questo mondo è perfetto, anzi, più si pensa che un sistema sia perfetto, che non esistano falle nella concezione e nella prassi della struttura creata, ecco che, col tempo, si verificano crepe, si evidenziano pericolosi segni di cedimento. A volte sono gli uomini a sovvertire il virtuoso svolgersi degli eventi; a volte è la logica stessa imposta alla costruzione che mostra il fiato corto, l'incapacità di fondo di gestire le dinamiche, tutte le dinamiche che regolano o dovrebbero regolare il sistema.
La stampa nazionale – per non parlare dell'informazione televisiva – è stata prudente, quasi omertosa, nel trattare la losca vicenda della Enron. Non diciamo che non ne abbia parlato, questo no, ma ne ha accennato come se si trattasse di un incidente di percorso, di una devianza tutto sommato recuperabile con qualche accorgimento in più. Insomma, di un evento che non intacca il tessuto sostanzialmente sano del capitalismo americano, che è poi il capitalismo che regola i fatti economici del mondo intero.
E, invece, si tratta di un cedimento del sistema, di un coperchio sollevato su una pentola nella quale bollono, sollevando vapori mefitici, tutti gli ingredienti di una pietanza indigeribile e, alla fine, venefica.


Il capitalismo globale

Perché la vicenda della Enron è esemplare per individuare le logiche interne di processi che il capitalismo oggi innesca e i guasti che procura nei tesuti sociali direttamente o indirettamente investiti dalle sue dinamiche. Prima il sistema si reggeva sull'equilibrio tra la macchina che produceva la ricchezza e lo Stato, nella sua versione di democrazia rappresentativa, che presiedeva alla più o meno equa ripartizione delle risorse e fissava, sulla base di questo rapporto, le norme della convivenza sociale. La distinzione tra il potere economico e quello politico era regolata e ci si sforzava di contemperare, almeno in via teorica. le esigenze del mercato e quelle dei cittadini amministrati.
Si trattava naturalmente di equilibri instabili; l'essere conservatori o socialdemocratici predisponeva a privilegiare le ragioni del mercato rispetto a quelle del lavoro e viceversa, senza però che tra il politico e l'economico vi fosse coincidenza organica di interessi e, se qualche volta si tentava di stabilirla (col voto di scambio, per esempio), si trattava di casi sporadici universalmente deprecati. Certo i politici di tutti i tempi non sono mai stati indifferenti alle pressioni dei potentati economici, ma avevano ritegno ad appiattirsi pedissequamente sui modelli di sviluppo del capitale. Anche se questi modelli, dalla rivoluzione industriale sino alle soglie del secondo conflitto mondiale, non pretendevano di esprimere una compiuta e complessiva visione del mondo, ma a razionalizzare la produzione, a moltiplicare, e, quindi, in un certo modo, a socializzare la produzione e la distribuzione di beni e servizi.
Probabilmente – ma questa è una questione che va approfondita in sede storiografica – è con la progettazione e l'attuazione del Piano Marshall, concepito certo per dare una mano consistente alla ricostruzione dell'Europa del dopoguerra, ma anche per fronteggiare il pericolo sovietico, che il capitalismo percepisce la possibilità di globalizzare le sue strategie. La forza militare derivante dalle potenzialità di un'economia forte assurta così a insostituibile baluardo del Bene – l'occidente industrializzato – contro il Male – personificato nella contingenza, dall'Unione Sovietica e dai suoi satelliti – porta ad un mutamento qualitativo della funzione economica rispetto a quella politico-sociale. Da qui a concepire un mondo nel quale le ragioni del profitto fossero prevalenti rispetto a tutte le altre, il passo è breve. È così che noi, oggi, ci troviamo immersi in un contesto che precarizza sempre di più la sorte degli uomini a vantaggio di processi di accumulazione della ricchezza che non servono ad altro che a supportare logiche di dominio assurde e distruttive. In via conseguenziale, così, sbaglierebbe chi giudicasse atto di pura arroganza individuale l'esordio di Bush che, senza mezzi termini, identificava lui e l'America con la Verità e il Bene, e tutto il resto – cioè uomini e sistemi che non condividono il modello capitalistico – con l'Apocalisse. Ciò che di insopportabile e di patologico ha questo immenso regime, che tenta di inglobare l'intero universo, è l'autoreferenzialità, nel senso, soprattutto, che produce o tenta di produrre legislazione, normative (e, quindi, Stato) per legittimare se stesso.


Meccanismi perversi

Ecco perché il caso Enron non è il cancro che colpisce un organismo sostanzialmente sano, ma "il manifesto" delle logiche che presiedono al sistema di produzione capitalistica
I fatti sono sufficientemente noti ed io qui li sintetizzo al massimo.
La Enron nasce nel 1985 dalla fusione della Huston Gas con la Inter Nort e si avvia a diventare, in pochi anni, la settima azienda del settore nel mondo, risultato raggiunto anche con operazioni poco chiare per non dire di rapina (basti ricordare il black out elettrico dello scorso anno in California, che molti ritengono provocato dalla stessa Enron per speculare sulle tariffe ed esercitare pressioni sui promotori di leggi antinquinamento). Ma il successo ottenuto non soddisfa il management dell'azienda, il quale decide di diversificare gli investimenti, soprattutto nella direzione dell'intermediazione finanziaria dei prodotti energetici (elettricità e gas) e, nel 1999, dei servizi informatici (accordo con la Blackbuster, destinato a durare poco).
Inutile disperderci nel seguire nei dettagli tutte le operazioni progettate e portate a compimento dalla Enron, con l'appoggio sostanziale degli ambienti politici e finanziari degli Stati Uniti.
Ciò che conta in questa sede è spiegare i meccanismi perversi – ma perfettamente legali – messi in moto per creare un colosso dai piedi d'argilla, che sarebbe clamorosamente crollato sulla testa di migliaia di dipendenti e di risparmiatori che, sull'onda dell'euforia di un decollo di borsa pilotato e degli entusiastici servizi di pubblicazioni specializzate, avevano investito i propri risparmi sulle azioni della società.
Il meccanismo della truffa era assai complicato nelle modalità di attuazione, ma semplicissimo e quasi del tutto legale nella impostazione concettuale. Il percorso, nelle grandi linee, è il seguente. La Enron crea "a latere" una moltitudine ("Il Sole 24 Ore" ne ha contate oltre tremila, una ogni sette dipendenti) di partnership (aziende collegate ma autonome) alle quali commissiona lavori e servizi che vengono fatturati a prezzi stratosferici. La Enron paga le fatture con i proventi delle proprie attività e con la liquidità che le banche le accordano, allettate dai faraonici progetti di espansione dell'azienda e garantite dagli appoggi politici di cui mostra di godere.
A questo punto il flusso monetario che si trasferisce alle aziende collaterali a fronte di adempimenti mai o solo in minima parte compiuti, finisce nei paradisi fiscali delle Mauritius, delle Bermude o delle Cayman oppure costituiscono fondi neri. Questo, molto semplificato, il meccanismo che consentiva di distrarre somme ingenti dal bilancio della Enron. Ma perché questo meccanismo continuasse a funzionare, occorreva naturalmente che le cifre da distrarre ci fossero ed ecco allora che si mise in moto un gigantesco sistema di corruzione politica che consentì di superare agevolmente inghippi burocratici, di ottenere contratti di forniture privilegiati (come il contratto di 200 milioni di dollari per la fornitura di energia elettrica alle città del Texas e della California), sgravi fiscali e addirittura una borsa mondiale dell'energia e delle materie prime interamente controllata dalla Enron che, nel 1999, raggiunse le seimila transazioni giornaliere, per un valore di circa due miliardi e mezzo di dollari.
Alla testa di questo colossale giro di denaro c'era Kenneth Lay, ma, soprattutto, Joffrey Skilling, il quale capì in fretta che mai si sarebbero potuti raggiungere i risultati sperati senza l'appoggio, direi meglio, la complicità dei politici e di quei politici in particolare che, per interessi concreti, erano schierati dalla parte della "liberalizzazione dell'economia senza lacci e lacciuoli": i repubblicani, insomma, ma non soltanto loro. Certo, si partiva da una certezza incontrovertibile costituita dall'amicizia personale di Lay con la famiglia Bush, ma questo non bastava. Dal 1992 Skilling mette in atto un piano organico di elargizioni – in gran parte perfettamente legali – di cui godono prevalentemente i repubblicani che contano. Dei Bush abbiamo già detto, che ricevono, dal 1993 sino alle ultime elezioni presidenziali, ben due milioni di dollari; ci sono poi le sovvenzioni al partito, mentre il senatore Phil Gramm, il vice presidente Dick Cheney, il vice segretario al tesoro Mark Weinberger, il sottosegretario all'economia Kathleen Cooper e tanti altri politici di rilievo ricevono somme diverse in soldi o in azioni, senza considerare un folto stuolo di giornalisti televisivi e della carta stampata, che vengono chiamati a magnificare le sorti della Enron con seminari e conferenze. Per di più Dick Cheney sedeva nel consiglio di amministrazione dell'azienda texana: quanto dire che l'azienda privata Enron aveva il governo federale nel salotto buono del grattacielo di Houston. Chiedo scusa delle omissioni, ma la lista dei politici, degli operatori finanziari, degli opinionisti o di semplici galoppini è talmente lunga che, da sola, occuperebbe lo spazio di questo articolo.


Banche e revisori dei conti

Ma vi sono due ulteriori aspetti della vicenda Enron che vanno sottolineati, perché ambedue concorrenti al colossale crack.
Il primo riguarda il ruolo delle banche. La dimensione del disastro sarebbe stata probabilmente assai più contenuta se l'erogazione del credito fosse stata correlata alla concreta struttura produttiva e commerciale e alla corretta valutazione dei bilanci di gestione dell'azienda piuttosto che alla sua dimensione azionaria. Mi spiego. Le banche, in America come nella maggior parte dei paesi industrializzati, fungono contemporaneamente da erogatori del credito e da intermediatori finanziari. Questo che cosa significa? Significa che l'andamento delle azioni in borsa (condizionato da fattori psicologici, da manovre speculative o anche soltanto da aspettative fideistiche) influenza direttamente le decisioni che un istituto di credito compie nel decidere se e in quale misura concedere fiducia all'azienda che chiede di essere finanziata. Può così verificarsi – come si è in effetti verificato nel caso della Enron – che, per difendere i propri crediti, per aumentare le speranze di rientro delle esposizioni, le banche creditrici sostengano oltre il lecito il corso azionario dell'azienda debitrice. Le banche non potevano non sapere che, dal 2000, i dirigenti della Enron andavano liberandosi delle azioni dell'azienda, realizzando colossali guadagni a spese dei propri dipendenti (ai quali era impedito di commercializzare le azioni) e dei piccoli risparmiatori. Lay realizza 40 milioni di dollari, Lau Pai suo collega 65, Skilling 15 e via dicendo. Per di più, si era volatilizzato il fondo pensioni dei dipendenti, i quali rimangono senza lavoro e senza futuro. Sul mercato finanziario, nel giro di pochi mesi, un'azione della Enron precipita da 93 dollari a 27 centesimi di dollari.
Il secondo aspetto della vicenda Enron che volevamo sottolineare è il ruolo dei revisori dei conti che, nel caso specifico, era affidato alla Arthur Andersen, per importanza la seconda compagnia del settore in America, che candidamente confessa di non avere avuto sentore di nulla sino agli ultimi mesi del 2001, quando, per tentare di occultare le sue inadempienze, distrusse migliaia di documenti contabili della società revisionata. Voi direte: tutto questo a titolo gratuito? Neppure per idea. I dirigenti della compagnia di revisori erano anche loro chiamati a svolgere consulenze assai ben remunerate e quando qualcuno all'interno della Andersen o della Enron stessa, non compromesso, tentava di vederci un poco più chiaro, veniva scoraggiato con pressioni che arrivavano all'intimidazione. Non vi è così chi non veda, oltre all'aspetto inquietante della commistione dei ruoli, quanto sia incredibile il fatto che la Andersen, sino alla fine del 2001, non abbia avuto alcun sentore dell'implosione imminente.
Per concludere queste note, vorrei riprendere il concetto espresso nell'esordio: il caso Enron non è la patologia di un sistema sostanzialmente virtuoso, ma il naturale sviluppo di una prassi consueta, sia pure portato alle sue estreme conseguenze. Significativo, a tale proposito, è che le pratiche attuate dalla Enron erano tutte legali o al limite della legalità, se si eccettuano quelle di rilevanza penale (l'aggiotaggio, la frode nei riguardi dei dipendenti, l'utilizzo fraudolento del fondo pensioni). Legale è in America il finanziamento di partiti e di protagonisti della vita politica. Per intenderci, in Italia, se vigesse il modello americano, Tangentopoli non ci sarebbe mai stata e l'operato dei politici non sarebbe mai stato messo in discussione.
Legale, per il sistema capitalistico non soltanto americano, è la costituzione di società collaterali (partnerships) sulle quali equilibrare gli scompensi di attività speculative azzardate o addirittura incoffessabili.
Assolutamente normale è la schizofrenia delle banche, chiamate a gestire contemporaneamente il flusso del credito e, direttamente o indirettamente, ad influenzare l'andamento azionario dei propri clienti. Il caso Enron dimostra che le banche non hanno finanziato un'impresa, ma un gruppo dirigente che ha attivato un gigantesco giro di operazioni speculative, azzardate e fuori mercato, e un altrettanto gigantesco meccanismo di corruzione politica, in gran parte, lo ripetiamo, consentito dalla legislazione americana.


Senza lacci né lacciuoli

E poi, ancora. È prassi consolidata, in America (ma la si vorrebbe instaurare anche da noi) che il privato imprenditore gestisca i fondi pensione, sia che lo faccia nei confronti dei propri dipendenti, sia che lo faccia come operatore finanziario. Così, poiché le fortune economiche sono alterne, in caso di collasso dell'impresa (fraudolentemente provocato o meno) il lavoratore è depredato delle risorse accantonate per garantirsi un minimo di futuro.
Infine, il ruolo dei revisori. In un mondo affaristico che non esprime alcuna norma etica, nel quale il profitto e la competizione senza esclusione di colpi sono gli unici valori che contano, il ruolo dei revisori (come sanno tutti coloro che hanno svolto tale compito) non è soltanto quello di valutare la congruità dei documenti contabili, ma anche, e direi soprattutto, quello di sindacare il comportamento degli amministratori quando esprimono strategie non compatibili con la dimensione aziendale, alterando il corretto rapporto tra le voci di bilancio. Non entrano certamente nel merito delle strategie dell'impresa, ma sono chiamati a vigilare perché ogni nuova iniziativa risulti compatibile con le possibilità reali dell'azienda. Ciò implica una rigida separazione dei ruoli. La presenza in America di grandi Compagnie di revisori, inserite organicamente in un mercato in cui interagiscono interessi colossali, fa sì che queste strutture di sorveglianza subiscano la suggestione di essere parte attiva delle dinamiche del mercato e, più o meno direttamente, finiscano con l'essere coinvolte nelle dinamiche di crescita delle imprese sui cui bilanci dovrebbero sorvegliare. Il che è perfettamente naturale: tanto più grandi sono le dimensioni delle imprese controllate, tanto maggiore è il prestigio che acquista la Compagnia di revisione. La Arthur Andersen, l'altra grande imputata del caso Enron, non si limitava ad esercitare il controllo che le competeva, ma fungeva anche da consulente per la formulazione delle strategie operative, e per questa sua funzione veniva remunerata a parte. Un esempio emblematico di conflitto d'interesse.
Adesso che il guaio è fatto e l'edificio del liberismo senza lacci e lacciuoli è scosso nel profondo della sua gaudente euforia, tutti si stracciano le vesti. Gli economisti illuminati cercano affannosamente vie d'uscita da una situazione che poche ne offre. Il Congresso lancia dardi di fuoco alla Casa Bianca. Gli opinionisti che contano sembra si accorgano solo adesso che la globalizzazione così come è intesa dal mondo degli affari contemporaneo è all'origine dei grandi scompensi che esistino al mondo, oltre che dei ciclici collassi che investono intere aree geografiche, ieri il Sud Est asiatico, oggi il Giappone e l'Argentina.
Ma il sistema, secondo la nostra ottica, non è emendabile. L'inversione di rotta non può essere di qualche grado, bisogna voltare pagina, compiere svolte epocali difficili.
Per queste ragioni, ci hanno profondamente rattristato gli elaborati conclusivi del raduno di Porto Alegre. La montagna antiglobal ha partorito il topolino di una risoluzione, se mi consentite, risibile. Un enunciato di propositi e di lotte per incitare i popoli a sorvegliare perché i loro governi siano buoni e virtuosi, decisi ma educati nei consessi internazionali, solleciti a garantire l'obiettività dell'informazione e via di questo passo. Tutto ciò dopo aver elencato in sedici paragrafi, con puntualità burocratica, tutti i mali del mondo in cui viviamo.
Cose da far rivoltare nella tomba i liberal-democratici della Prima Internazionale di 130 anni fa.

Antonio Cardella