Rivista Anarchica Online


attualità

Ribellarsi è giusto
di Vittorio Giacopini

Sta per uscire nelle librerie un nuovo libro di Vittorio Giacopini sul movimento antiglobalizzazione dopo Genova, dopo New York, dopo… Eccone uno stralcio dell’introduzione.

Dagli attentati dell’11 settembre all’inizio bombardamenti americani e inglesi su Kabul e Kandahar è passato poco meno di un mese ma la guerra era iniziata molti giorni prima. Non si era ancora sparato un colpo, le indagini proseguivano a rilento, non ci si era ancora ripresi dallo spettacolo assurdo di quei due boeing che si infilavano nelle torri gemelle del World Trade Center e già eravamo in guerra. Nei pensieri, almeno, nelle reazioni istintive, nei comportamenti più privati, nell’isteria diffusa. Forse ha ragione il presidente americano George W. Bush jr. Quella contro l’internazionale del terrore è e sarà una guerra di “tipo nuovo”, un’inedita forma di conflitto. Ce ne accorgiamo dal clima permaloso e allarmato che sta maturando, dalla retorica del patriottismo, dai troppi ricatti mentali di politici, politicanti e intellettuali. Questa guerra ad alleanze variabili e con molteplici armi e risorse belliche comincia dalla porta di casa o nel cyberspazio (come ha detto il ministro della difesa Usa Rumsfeld) e riguarda la vita quotidiana e gli spazi ambigui della normalità, le situazioni ordinarie, i delicati equilibri della vita civile. Il nemico è nascosto nell’ombra delle nostre città multiculturali e ha già valicato le mura della cittadella assediata. Il nemico, chiunque diavolo sia, è qui tra noi.
Il primo effetto è un invito all’ordine che suona come un ricatto sottile e un’aperta minaccia. Una cappa pesante di conformismo sta avvelenando il discorso pubblico. Gli spazi di libertà cominciano a chiudersi. L’occidente sotto assedio serra le file e il dissenso e la critica, la protesta, il dubbio, lo spirito critico e il non-conformismo tornano a essere atteggiamenti severamente vietati e pericolosi. Il nemico è alle porte. Chi non canta nel coro fa il suo gioco, come si diceva una volta, “oggettivamente”. Sta tornando il tempo della caccia alle streghe, la paranoia ossessiva della quinta colonna.
Per la politica ufficiale, per la politica con la P maiuscola, il cumulo di macerie delle torri gemelle di Manhattan ha finito per rivelarsi una grottesca manna piombata dal cielo (insieme ai boeing dei dirottatori). Quegli 8 “grandi” che a Genova erano apparsi infinitamente irrilevanti e patetici, smarriti, smaccatamente inutili e decorativi, ora possono nuovamente illudersi di guidare le danze della storia mondiale (anche se per adesso giocano di rimessa, stanno chiusi in difesa). Normale che per il momento vogliano imporre un clima mentale diverso, drammatizzare la situazione, creare un pathos da fine del mondo. Saranno loro a “salvarci” da Osama bin Laden e dai minacciosi deliri del fondamentalismo islamico con una grande coalizione globale e una santa alleanza per la democrazia; avranno pure il diritto di chiederci qualche piccolo sacrificio. La rinuncia al dissenso e alla protesta, il silenzio, una rinnovata obbedienza, gli occhi chiusi.


Un ritornello usurato

Bush, Berlusconi, Blair & compagnia cantante vivono il loro momento di gloria sfruttando una grande paura immaginaria. Sembrano tutti piccoli Churchill improvvisati. Recitano la loro litania con zelo e puntiglio, sono commoventi. Stiamo vivendo un’altra volta le nostre “finest hours”, siamo arrivati – non se ne può dubitare – a una grande svolta. Eccoci qua a difendere la civiltà moderna e l’Occidente, i grandi valori della democrazia. Sta diventando un ritornello usurato e uno stucchevole rumore di fondo. Chi non ha voglia di allinearsi deve fare i conti con questo clima asfissiante da giorni di guerra. Subito dopo l’11 settembre, con una gaffe emblematica e significativa, la Casa Bianca aveva messo in guardia gli americani: adesso, disse il suo impagabile portavoce Fleischer, gli “americani devono stare attenti a quello che dicono”. Più che un invito era un avvertimento mafioso, un autoritario richiamo all’ordine. Proibito dissentire o scherzare, proibito cantare fuori dal coro, proibito in ultima analisi criticare il presidente crociato e la sua ghenga. Dal “Washington Post” al “New York Times” persino i grandi giornali borghesi hanno semplicemente risposto picche. Non c’è allarme, non c’è ansia, che tenga. La libertà di parola e di espressione restano almeno in linea di principio fondamentali. Almeno in America (e almeno in teoria). La censura di guerra non può passare.
Ma ogni Paese, evidentemente, ha i maledetti politici e i maledetti giornali che si merita. Dall’altra parte dell’Atlantico, qui da noi, alla periferia dell’impero, ci siamo ritrovati come capita sempre più realisti del re (e decisamente molto più imbecilli). Parecchio prima che un ispirato Berlusconi enunciasse la sua filosofia della storia tascabile celebrando la “superiorità” dell’Occidente sul medioevo islamico ed equiparasse senza troppe perifrasi il popolo di Seattle e la protesta “no-global” ai kamikaze e ai terroristi di Osama bin Laden, quell’equazione reazionaria era già stata ampiamente messa a punto nei lugubri ma sempre fervidi pensatoi della sinistra locale.
Su “Repubblica” (il tempio della resistenza militante al berlusconismo imperante e alla nuova destra) Lucio Caracciolo aveva immediatamente scomunicato preventivamente i “pacifisti” e Mario Pirani aveva già elaborato il suo ameno teorema: tra i no-global e bin Laden non c’è di fatto nessuna differenza. Chi critica lo stile di vita dell’Occidente e i dogmi religiosi del mercato è fuori dal gioco: “dopo la catastrofe terroristica dell’11 settembre, quei no-global che manifestarono a Genova... dovrebbero riflettere”. I loro slogan, le loro proteste, hanno un segno perverso e inaccettabile. Il movimento rischia di diventare “un supporter ideale, per quanto involontario e incosciente del fondamentalismo islamico”. Entusiasmante. Gli avrebbe fatto eco pochi giorni dopo il pontefice massimo degli opinionisti italici, l’austero, saccentissimo, Angelo Panebianco sul “Corriere della sera”: “Nei giorni di Genova, teppisti a parte, tante brave e miti persone erano là riunite a manifestare contro il G8 parlando di quella riunione dei capi di governo di alcuni dei Paesi più liberi del mondo più o meno negli stessi termini in cui ne parla bin Laden”.
Gli ayatollah si sono pronunciati. Il verbo è stato emesso. Gli editti sono stampati e divulgati. Anche gli italiani – si capisce – farebbero bene a “stare attenti a quello che dicono”. Si lanciano scomuniche e anatemi per preparare una guerra che tutto sommato non ci coinvolgerà più di tanto e certo non vedrà le truppe da sbarco del battaglione San Marco impegnate tra le sbreccate montagne dell’Afghanistan. Ma che conta? Bisogna serrare i ranghi, dire le preghierine, recitare il credo. Ricatti, censure preventive, equiparazioni astratte e spensierate sono le supposte intellettuali necessarie in questo uggioso clima di guerra incipiente. Niente di straordinariamente nuovo, niente di veramente impensabile o inedito. È il solito clima da ultima spiaggia, sono i consueti inviti al patriottismo mentale, alla lobotomia autoimposta, all’autocensura.
Le ultime radiografie del presente denunciano una situazione pesante e intollerabile. La posta celere della storia mondiale ci recapita telegrammi, lettere e cartoline da un mondo amputato. Improvvisamente, siamo ripiombati in un clima da caccia alle streghe senza neanche capire bene chi siano i cacciatori e chi le streghe. Il dissenso non è tollerato, la voglia di rivolta equivale a un crimine, la protesta è un delitto di lesa democrazia o di leso Occidente. L’atmosfera tirannica del presente è venata di un perbenismo diffuso e che pretende di ridurre tutti al silenzio e all’obbedienza. Spiazzata, la politica sembra capace di ripensarsi solo rimettendo a nuovo il vecchio schema tradizionale della contrapposizione tra “amico e nemico”. Non è una novità e non sorprende. Più diventa vuota e marginale più cerca di salvarsi l’anima con questi modelli scolastici da manuale di filosofia politica, con questi paradigmi sfocati e desueti. Non sorprende, d’accordo, ma resta irritante. Alti valori, proclami, solenni, intimidatorie esortazioni, ormai ci ronzano nella testa come i gracchianti bollettini della Grande Guerra. Sembra un film in bianco e nero ma è questo nostro sbilenco presente da operetta. Livore, risentimento, supponenza arrogante, ricatti meschini continuano ad alternarsi in un balletto stonato. Politici, opinionisti, intellettuali pensosi credono di recitare un dramma. È avanspettacolo, non dategli retta.
Inutile farla tanto lunga, inutile stracciarsi le vesti. Non bisogna lasciarsi condizionare da queste emergenze immaginarie. Mai come oggi ribellarsi è giusto. Pensare con la propria testa, rivendicare autonomia e indipendenza, parlare liberamente, dissentire. La linfa vitale della nostra vita civile (quel poco che ne resta), l’anima (tramortita) della democrazia, stanno tutte qui. Non sembra proprio il caso di sacrificarle agli idoli del momento, alla grande paura del nemico islamico o anticapitalista o all’apprensione venata di lievi e cialtroni egoismi di piccolo borghesi da quattro soldi (o da quarantamila miliardi, tanto è lo stesso). Se Berlusconi e i suoi numi tutelari (di sinistra) recitano questo patetico libera nos domine dalla minaccia fondamentalista o dalla sovversione “no-global” non è davvero il caso di affrettarsi a prenderli sul serio. La vita, e la storia, sono cose un po’ più impegnative e più complesse.
Viviamo in un tempo strozzato, sopravviviamo incerti – in modo più o meno agevole o stentato – in una fase stupida di facili censure, ricatti mediocri, conformismi d’accatto e ipocrisia. Mai come oggi ribellarsi è giusto e indispensabile. Non ci sono altre vie d’uscita o scappatoie di comodo, non ci sono scale antincendio per svignarsela. Una vita indipendente e autonoma, l’intransigenza, il desiderio di dire di no, il gusto e la voglia della protesta non sono opzioni da scegliere ma imperativi obbligati.
Bisogna soltanto aggiungere che questo è vero sempre ed è vero comunque. Dovunque stiamo. Ovunque ci collochiamo. Sempre, praticamente. In ogni caso. Non è accettabile nessuna doppia morale, nessuno doppio standard. Non c’è emergenza, non esiste grande Nemico (neppure i carabinieri o Berlusconi) e non c’è circostanza che possano rivendicare il diritto di mettere il silenziatore al dissenso e alla spirito critico, all’irriverente rigore del giudizio autonomo.
Va detto per onestà e per decenza mentale, per coerenza. Anche dall’altra parte della barricata, anche tra chi vive o teorizza la rivolta “no-global” e la rivoluzione, stanno affermandosi i vecchi meccanismi politicisti di una volta, i soliti riflessi condizionati da scontro all’ultimo sangue o all’ultima spiaggia. La morale è chiara (ma non è “morale”). Siamo sotto assedio anche “noi” che aspiriamo a un mondo diverso e liberato: guai a chi rompe i ranghi (e le scatole), guai a chi denuncia ritardi o sbagli, illusioni da poco, involuzioni. Non è possibile fingere di non vederlo o lasciar stare. Anche nel Movimento affiora lentamente questa meschina tendenza autoritaria (o più semplicemente “politicamente corretta”, perbenista). Per cause di forza maggiore, sembra di capire, oggi conviene misurare le parole, stare dannatamente attenti a “quel che si dice” (come direbbe la Casa Bianca), fare i bravi. (...)

Bisogna spezzare questa situazione e dare aria alla casa. Dopo Manhattan è più chiaro di prima e forse più urgente. Non possiamo sacrificare il presente a schemi ideologici pretenziosi, allarmi bellici, goffe e leziose diatribe dialettiche sul futuro. Se vogliamo capire in che mondo viviamo e dove vogliamo andare siamo costretti a pensare da soli. Quasi da soli. Senza patria, identità collettive, appartenenze dubbie, fedeltà posticce e approssimative. Anche per raccontare la Storia che ci sta più a cuore, anche per parlare di questo desiderio diffuso di rivolta che sembra nato due anni fa tra le strade e le piazze di Seattle, dovremo fare un radicale sforzo di indipendenza mentale e di onestà. Poco male se non ne verrà fuori un ritratto carino o edificante. Sono cose che capitano, è la vita. Pasolini diceva che è meglio essere amici “della verità che amici del popolo”. Aveva ragione.


Da Seattle a Genova

I luoghi e le date, le circostanze. Seattle e Genova. La fine del 1999, il luglio del 2001. Quasi due anni, e forse, purtroppo, un breve ma già troppo lungo viaggio a vuoto. I luoghi, quindi, le date, le circostanze e il senso politico di un percorso che, fuori dall’ottimismo consolatorio di chi deve salvare la faccia o la poltrona, è cominciato a Seattle e sembra essersi esaurito tra le strade e i vicoli di Genova, sull’asfalto di Piazza Alimonda. Questo libro non è un “bilancio” ma il tentativo di capire un fatto “nuovo” nel mondo – l’affermarsi di una sensibilità diversa, la rinascita di un “linguaggio della protesta”, di una sorprendente esigenza di ribellione – che rischia di essersi già bruciato nei cerimoniali della politica tradizionale, negli automatismi di un gergo vuoto o nei riti spenti e invecchiati della “piazza”.
A Seattle è cominciato qualcosa di nuovo. Gli scontri di piazza che hanno accompagnato il vertice del Wto a fine novembre 1999 hanno introdotto parole e situazioni inedite nel codice politico del presente. A cominciare dall’improvvisa valenza polemica di questa parola monstre: “globalizzazione”. Per anni è stato un tema per specialisti, un termine esoterico, un algoritmo o una formula per cercare di spiegare la Storia e il corso del mondo dopo la fine di ideologie e grandi narrazioni, dopo l’avvento obbligato del postmoderno. Il mondo stava cambiando, non si sapeva perché (non si sa mai perché); non si capiva come. Alla fine ci siamo ritrovati tutti a parlare e discutere di globalizzazione, a ragionare di un “pianeta unico”. A Seattle, la teoria è diventata sensibilità diffusa e voglia di schierarsi, esigenza di ribellione e di rivalsa, protesta contro i “padroni” del mondo e i loro giochi economici, i loro abracadabra finanziari. Dalle ceneri della lotta di classe era, o sembrava, rinato un altro antagonismo. Un movimento, una sensibilità comune si sono affermati contro politici e corporations, multinazionali, brand, icone del neoconsumismo, oggetti di culto di un mondo “in vendita”. Per la prima volta dalla caduta del Muro di Berlino, l’idolatria del mercato è stata messa in discussione non dai soliti tre o quattro intellettuali biliosi, o dal rancore nostalgico di ex-comunisti più o meno onesti, più o meno mascherati, ma da un movimento articolato e composito, plurale, contraddittorio, diversificato e fantasioso.
Una cosa è certa, almeno una. In questi due anni, il lessico, il vocabolario politico con cui giudichiamo il presente si è trasformato in modo radicale. Le categorie tradizionali facevano acqua da tutte le parti. Adesso sono state relegate in cantina, giustamente. Destra e sinistra. Socialismo, liberismo, “terza via”. Tutte queste parole sono diventate reperti di modernariato ideologico, anticaglie. Anche i più ostinati e i più pigri hanno dovuto riconoscere che la situazione attuale risponde a una polarità diversa, anche se probabilmente altrettanto inadeguata e incerta, egualmente rigida e insoddisfacente. Oggi a dividersi il campo da gioco, a fare le squadre, sono gli amici e i nemici della globalizzazione. I poteri costituiti, più o meno davanti agli occhi di tutti, in parlamento, o nel riserbo ovattato delle stanzette dove di riuniscono comitati d’affari e consigli d’amministrazione. E il “popolo di Seattle”: questa galassia di sensibilità, istinti politici, associazioni e movimenti schierati in battaglia contro la globalizzazione e i suoi sacerdoti.
Quello che ha fatto di Seattle un simbolo e una pietra di paragone sta proprio in questo: la velocità con cui una situazione anomala – un vertice internazionale turbato a forza di slogan e vetrine infrante da misteriosi, spiazzanti revenants giunti apparentemente del passato – è riuscita immediatamente a trasformarsi in un paradigma, in un problema di filosofia politica e nel principale dilemma del presente. Ma sono passati solo due anni e già sembra trascorsa un’eternità. A Seattle, per la prima volta dopo decenni, si è risentita una voce che sembrava spenta. Il linguaggio e i gesti della protesta, la voglia di ribellarsi, la spensierata, irriverente, esigenza di dire di no e di rifiutare una situazione che in troppi avevano sancito come un quadro obbligato e inevitabile. (...).

Vittorio Giacopini