Rivista Anarchica Online


poesia

L’agguato del poeta cheyenne
di Mauro Macario

L’opera poetica di Lance Henson, tra i Mc Donald’s e le Montagne Sacre.

Cari bambini, futuri dirigenti ariani di un qualche laboratorio di marketing, allattati fin dalla nascita con un biberon alla candeggina per sbiancare ogni memoria storica che vi ha preceduto, bambini OGM dell’era liberista forse virtuali e telepilotati nel domani su carrozzelle cingolate da sbarco, bambini istruiti da pedagogisti top gun alla velocità fotonica senza scalo in stazioni intermedie dove attendere la vecchia e sbuffante locomotiva umanistica, quel cavallo d’acciaio che, al suo esordio, attraversava la pianura del Grande Paese poco più di cent’anni fa impaurendo altri bambini, i bambini rossi crocifissi sulle traversine della civiltà bulimica con la complicità dei missionari in appoggio agli sterminatori bianchi, cari bambini dall’encefalogramma piallato da Geppetto-Bill Gates, noi siamo qui per raccontarvi la favola dell’orco cattivo. Povero stormo di fanciulli incolpevoli e plasmabili sui saltim-banchi di scuola dove la Storia, quella scritta dai vincitori, viene opportunamente dissossata per porgervi solo il filetto borghese ripulito d’ogni scoria sgradevole, quando e quali didatti vi negheranno l’esistenza dell’Olocausto nei lager nazisti se già più nessuno vi parla di un altro genocidio, quello del secolo del melodramma etnico, quello degli indiani d’America? La cultura della cancellazione vi ha irregimentato davanti a videogames, playstation e altre alchimie elettroniche dove i cattivi non sono più i vecchi indiani in pensione con archi e frecce ma mostri stellari, alieni bavosi, demoni galattici.Ve li ricordate gli indiani? No, non sapete nemmeno più chi erano e, soprattutto, chi sono oggi i superstiti di quella etnia fiera e orgogliosa. Li ricordiamo noi che oltre al libero andare dei beatnik nel mondo, oltre le barricate di maggio, dobbiamo ascrivere a luogo emblematico di conflitto formativo anche il cinema parrocchiale di memoria preadolescente. Luogo di attentato alla nostra tenera e acerba coscienza. Quel cinema che noi bambini frequentavamo al sabato pomeriggio per vedere un film sugli indiani selvaggi e sui nordisti salvatori, quei famigerati “arrivano i mostri” che applaudivamo con patetica inconsapevolezza sfuggendo magari alla palpata di una mano tremante – tipo Jurassic Parkinson – del prete pedofilo. Una mistificazione storica criminale che tendeva subdolamente a renderci tutti figli illegittimi del generale Custer, abituandoci ad accettare i codici educativi del colonialismo occidentale al fine di trasformarci in futuri fedeli educatori del profitto.
Solamente più avanti, molto più avanti, leggendo il libro antidoto “Seppellite il mio cuore a Wounded Knee” di Dee Brown, capimmo che i veri “scalpati” eravamo stati noi. Una lettura che contribuì fortemente all’implosione libertaria che ci spogliò di quella placenta informativa spalmata addosso come un catechismo colloso sull’innocenza dell’età.
Voi, cari bambini, non avete neanche l’esempio distorto al quale contrapporre una sdegnosa ribellione o la scoperta tardiva di una verità celata. I vecchi indiani, al massimo, possono apparirvi come personaggi di pura fantasia, relegati in soffitta, sostituiti da altri “cattivi”, o, peggio, mai esistiti. Eppure sono esistiti ed esistono, ultimi tra gli ultimi nel sottoproletariato d’America.
Tra il 1860 e il 1880 gli uomini del potere governativo pianificarono la “soluzione finale”, simile a un’altra “soluzione finale”, quella contro gli ebrei, sessant’anni dopo, in Europa. Da noi rimangono oggi i rom, sorta di indiani europei, in grave rischio di genocidio culturale da chi li vuole “stanziali” anziché “migratori” come da loro struttura esistenziale.
La programmazione dello sterminio dei nativi americani fu affidata principalmente all’esercito che ebbe però nei coloni, affamati di oro e delle terre sacre agli indiani, dei complici efferati. Ancora una volta “la maggioranza sta come una malattia”(Smisurata Preghiera, F. De André), sta lì sul trespolo ad avallare le decisioni verticistiche e a sciacallare tra le rovine banchettando sulle salme del Capitale. Soffermandomi un attimo su Fabrizio, autore di quel bellissimo brano “Sand Creek” e appassionato di storia indiana, mi ricordo come egli auspicasse la: frantumazione delle comunità popolose in tante “microcomunità anarcotribali” proprio come negli accampamenti dei nativi dove l’autorità e la gerarchia erano ridotte al minimo nel rispetto prioritario della volontà e del gesto individuali. Quel Fabrizio “etico” che, invitato a un congresso indiano in Italia per cantare il “Sand Creek” rispose: “Ma io mi vergogno, non ci vado, cosa posso raccontare io della loro storia?”
Cari bambini, quello era un popolo libero che viveva nel rispetto reverenziale della natura e dell’universalità cosmica. Credeva che in ogni foglia, in ogni pietra e anche nel vento palpitasse un’anima, l’anima di tutte le cose. Non uccidevano le bestie se non lo stretto necessario per la sopravvivenza, non provocavano come noi l’estinzione di intere specie. E sono stati massacrati: donne, vecchi, bambini, guerrieri. E sono stati massacrati da quei soldati che noi applaudivamo. Ricordare il Sand Creek è ricordare solo una delle innumerevoli stragi in cui i militari, con spade e coltelli, infilzavano gli infanti, asportavano le vagine alle donne, tagliavano i testicoli agli uomini, scalpavano tutti per rivendere ai coloni quei trofei da salotto.
D’altra parte, c’erano tariffe precise per lo scalpo di un bimbo, di una squaw, di un guerriero. Quella orribile usanza dello scotennamento venne introdotta dagli spagnoli cattolici al tempo dei conquistadores. Ma erano gli altri i selvaggi. E i bianchi erano buoni, anche loro dopo i massacri offrivano gli aiuti umanitari magari sotto forma di coperte per l'inverno, magari intrise del virus del vaiolo per decimarli con sistemi batteriologici. E che dire, sul piano della diplomazia truffaldina, degli innumerevoli trattati tra Stati Uniti d'America e il popolo rosso, sistematicamente traditi con una progressiva restrizione delle terre fino alla deportazione in massa verso riserve paludose e malsane dove gli indiani morirono a causa dell'ambiente scelto dal Grande Padre di Washington? Proprio loro che con la natura avevano stabilito un rapporto profondo di fede animista. Ecco uno stralcio del discorso di Capo Giuseppe della tribù dei Nasi Forati tenuto a Washington il 14 gennaio 1879. “Ho sentito parlare molto, ma niente è stato fatto. Le buone parole non durano a lungo se non portano qualcosa. Le parole non ripagano delle morti. Non pagano il mio Paese, ora invaso dagli uomini bianchi. Non proteggono la tomba di mio padre. Non pagano tutti i miei cavalli e il bestiame. Le buone parole non mi daranno indietro i miei bambini. Le buone parole non manterranno la promessa del vostro Capo Guerriero, il Generale Miles. Le buone parole non daranno buona salute alla mia gente e non la faranno smettere di morire. Le buone parole non porteranno la mia gente in una dimora dove possa vivere in pace e prendersi cura di se stessa. Sono stanco di parole che non portano a niente. (...) Potete aspettarvi che i fiumi scorrano all’indietro piuttosto che un uomo nato libero sia contento di essere rinchiuso e privato del diritto di andare dove gli pare. Se legate un cavallo ad un palo, vi aspettate che ingrassi? Se relegate un Indiano in un piccolo pezzo di terra, egli non sarà contento, non crescerà né prospererà. Ho chiesto ad alcuni grandi capi dove avessero preso l’autorità per dire a un Indiano dove deve stare, mentre egli vede gli uomini bianchi andare dove piace loro. Non hanno saputo rispondermi.”
Di straordinaria poesia e veggenza ecologica sono le parole di un altro capo, Seattle, che nel 1854 si rivolse al presidente Franklin Pierce in questi termini: “Il mormorio dell’acqua è la voce del padre di mio padre. I fiumi sono nostri fratelli, spengono la nostra sete. I fiumi trasportano le nostre canoe e alimentano i nostri figli. Se vi vendiamo la terra dovrete ricordarvi e insegnare ai vostri bambini che i fiumi sono nostri fratelli e vostri e che dovrete d’ora innanzi riservare ai fiumi tutte le gentilezze che riservereste a ogni fratello. (...) Ma se vi vendiamo la nostra terra, dovrete ricordare che l’aria per noi è preziosa, che l’aria divide il suo spirito con tutta la vita che sostiene. Il vento che diede al nostro avo il suo primo respiro, riceve anche il suo ultimo sospiro. E se vi venderemo la nostra terra dovete tenerlo separato e considerarlo come un posto dove persino l’uomo bianco possa andare a sentire il vento addolcito dai fiori di prateria. (...) Dovrete insegnare ai vostri bambini che la terra sotto i loro piedi è la cenere dei nostri avi. Affinché essi rispettino la terra dite ai vostri bambini che la terra è ricca delle vite della nostra razza.
Insegnate ai vostri bambini ciò che noi abbiamo insegnato ai nostri bambini: che la terra è nostra madre”.
Come non pensare all’odierno popolo di Seattle che cerca di salvare il pianeta originandosi da questo seme poetico indiano?
Un altro poeta indiano di razza cheyenne attraversa la nostra contemporaneità con eguale dolore e speranza: Lance Henson.
Lance Henson si configura come un indiano disperso e smarrito in un tempo storico in cui non si riconosce perché slegato dalle radici delle sue remote origini antropologiche e dalla spiritualità tribale che fatica non poco a sopravvivere nell’identità individuale e collettiva in antitesi con la gabbia materialistica e consumistica che riveste il pianeta e di cui muoiono i suoi verdi pascoli. Lo sguardo sull’America è quello di uno cheyenne che immagina sotto i selciati delle autostrade e nelle discariche suburbane, le ossa eroiche dei suoi antenati che lungo quelle pianure cavalcarono contro gli invasori bianchi in una sorta di sacrificio resistenziale di cui conoscevano benissimo il destino finale. Lance si muove in quelle stesse pianure, tra spazi infiniti e infiniti silenzi, in preda a una specie di “trance” lucida che gli restituisce, attraverso visioni sciamaniche, frammenti di battaglie, cerimonie sacre, episodi di fraternità intertribale.
Si muove tra i Mc Donald’s e le Montagne Sacre, tra le riserve aride di Pine Ridge e le centrali nucleari, tra i senzacasa e le case da gioco di Las Vegas. Incontra nei vicoli della miseria fratelli alcolizzati, raccoglie ai piedi di un grattacielo il testamento morale di un suicida come ultimo anatema contro la filosofia del profitto transgenico in contrasto con la filosofia della madre terra, bene insopprimibile da non spartire in lotti privati. Nel suo viaggio perpetuo alla ricerca di un embrione di speranza ridisegna il cerchio sacro delle tribù all’interno del quale danzare la ghost-dance. Il suo livore è calmo ma non rassegnato, la sua rabbia disperata ma vitale e tutte le sue istanze rivendicative si moltiplicano nella eco dei canyon per poi posarsi come lacrime ai bordi del Little Bighorn nella visione finale di risorte figure ancestrali. Torna a percepire i movimenti e i rumori della natura esiliandosi in territori selvaggi in sintonia con quelle congiunzioni animiste che compongono la sua topografia interiore. È un indiano di mezzo con la memoria del passato e la desolante realtà del presente, un indiano di transizione e forse atemporale, testimone furioso dell’oblio mondiale nei confronti della sua gente anche da parte della comunità intellettuale. Qualcuno disse: l’unico indiano buono è quello morto. Forse un giorno saranno ancora loro, gli indiani, che per dimostrare di essere “buoni” dovranno morire per affermare il diritto di esistere in pieno sole. Non so se questi segnali di fumo alzati dalla pagina bianca si dissolveranno nella sordità del vento epocale o se le pittografie scritte (non disegnate) di Lance Henson verranno mai lette in qualche scuola informatica (non informativa) ma se la speranza è una staffetta stremata sul fronte del sogno, che la favola dell’orco cattivo e dell’uomo rosso sia tramandata ai figli del terzo millennio. Figli robotici, forse pragmatici, certamente fottuti.

Mauro Macario

senza titolo 1

piove questa sera
sulle pianure aride di wounded knee
sugli hogan della grande montagna
sulle barricate di cornwal island
sulla terra rossa della tomba di geronimo in okIahoma
questa sera piove
sui resti bruciati delle case di oka

piove questa sera
nei sogni dei bambini in salvador e nicaragua
e san carlos
nei sogni delle madri in brasile e in cile
e a pine ridge e wind river
questa sera piove

la pioggia è antica
nel vento luttuoso dell'inverno c'è una preghiera

si vi wo ho oh shi win
si vi wo ho oh shi win

noi non saremo spazzati via

 

senza titolo 2

un'altra canzone per l'america
20 luglio 1985

guidando verso ovest sull'autostrada 76 dell'ohio
appena passata l'uscita per la kent state (1) .

inizia una pioggerella

dio ti maledica america
cos'hai fatto ai tuoi figli

il vento chiama i loro nomi
comunque tu lo respiri



1. Il 5 maggio 1970, durante una dimostrazione contro la guerra del Vietnam, la guardia nazionale aprì il fuocò sugli studenti della Kent State University, uccidendone cinque.

 

giornata di colombo 12 ottobre 1988
per jeanetta

si va a est verso columbus ohio
le nuvole sono grigie e irrequiete come questa statale americana

passiamo vicini ai campi di grano
e alle foglie accese dai colori dell'autunno

poi ci troviamo a un kentucky fried chicken
un camion mayflower sfreccia via

mi ricordo che nel vocabolario webster la parola
genoa sta proprio sopra genocidio

americani è un nome
per evitarlo noi indiani portiamo occhiali scuri

america è una foglia autunnale morta
caduta per terra



* una poesia di protesta in coincidenza con la giornata internazionale di solidarietà con gli indiani americani promosso dagli Indiani Yanonami del Brasile alle Nazioni Unite di Ginevra in Svizzera
nell'agosto del 1988.

 

parlando di blues alla sosta dei camion

tutti i poeti sognano
i veterani si svegliano in un letto di sudore
il tatuaggio di una serpe trema sulla gamba di una
ballerina in topless addorrnentata
e ti svegli nello specchio della vita di qualcun'altro
i quadri di van gogh si fanno umidi di lacrime
e la grigia follia di mezzanotte
e gli adorabili paesaggi di rembrandt si sciolgono
nel palmo della tua mano

nella stanza accanto un sassofono piange
mentre un gatto addormentato tira zampate in aria

la luce blu della stufa a gas sibila,
tu entri nella stanza con il tuo profumo parigino
dietro di te la luna piena è una roulette
che sta insieme grazie a un vino cattivo
e a sogni sottili
un vecchio cane in strada sussulta nell'aria itaIiana
un ragazzino spruzza le parole
pioggia mortale
sulle pareti della cattedrale

io penso a cavallo pazzo e a toro seduto
in qualche sosta notturna per camion in nebraska
sorridono travestiti
parlando dell'america che muore e
del suo sogno che scompare

 

senza titolo 3

altro che rose in fiore

un singolo filo spinato
legato con nastri rossi
circonda il terreno del b i a (1)
a concho okIahoma

uccelli rossi e rondini volano su
aree proibite
nidificano sugli alberi imprigionati

l'eco di bambini cheyenne e arapaho che
cantano nelle sale silenziose dove hanno dormito

già detto

l'uomo bianco ci fece molte promesse
ne mantenne solo una
disse che ci avrebbe preso la terra
e lo fece

1. Bureau of Indian Affairs: ufficio degli affari indiani

 

versi inziati al lago mahopac

pioggia tra le mani del che'
il lamento del cielo colma i suoi occhi vacui
sto seduto al lago turgido di sole invernale
i piccoli boccioli di un cespuglio d' acacia piangono al freddo

una tartaruga striscia via appena fuori dalla finestra
nomi di una lapide per il nam* vergati sulla schiena

è capodanno
i fiori sul tavolo stanno nei vasi fatti
di ricordo

gli alberi cupi si stagliano contro un crepsucolo al napalm
il treno ferma a poughkeepsie
un nido vuoto si riempie di precoce luce stellare

un bimbo in fondo al corridoio si avvolge nel sogno
una foschia radente si raccoglie sull 'hudson
tre giorni dopo wounded knee 1890 i corpi
delle donne e dei bambini lakota gelati e abbandonati
vengono portati al forte
nel luogo dove fu assassinato cavallo pazzo

un legno sul cancello della postazione dice
pace in terra agli uomini di buona volontà



*abbreviazione di Vietnam

Le poesie di Lance Henson sono tratte dai seguenti volumi pubblicati da Selene edizioni: Tra il buio e la luce (1993) e Un moto di improvvisa solitudine (1998). Di Soconas Incomindios è invece il volume Le orme del tasso.
Gli stralci del discorso di Capo Joseph sono tratti da Il discorso di Capo Joseph, edizioni Il punto d’incontro.