Rivista Anarchica Online


(in)giustizia

Giudici professionisti? No grazie
di Rinaldo Boggiani

Appunti a favore dell’istituzione della giuria popolare.

Nuove elezioni nuova decantata riforma della giustizia. Si arrabbia la magistratura, si arrabbiano le forze politiche attaccate alle toghe.
Un potere forte, quello degli ermellini, che si batterà con ogni mezzo per conservare. Userà parole come indipendenza, terzietà, autonomia, equilibrio dei poteri, “la nostra tradizione ci impone…” eccetera eccetera.
La vera riforma sarebbe l’istituzione del giurì, cioè l’aggiunta dei giudici del fatto ai giudici del diritto. L’aggiunta del popolo, ai magistrati togati, obbligati a vestire di diritto la decisione del sovrano, il popolo, sul fatto.
Anche nelle aule giudiziarie italiane si dovrebbe sentire: “I giurati hanno raggiunto un verdetto?” “Certo Vostro onore, l’imputato è ritenuto … ”.
Da lì solo la fase del diritto.
Il giurì è il risultato politico di ogni rivoluzione liberale, quella che in Italia deve ancora esser fatta.
Nel 1215, quando i baroni inglesi strappano la firma del Re sulla Carta costituzionale più famosa della storia, chiamata in seguito Magna Charta, all’artico 39 scrivono: “Nessun uomo libero sia arrestato o imprigionato o multato o messo fuori legge o esiliato o danneggiato in alcun modo, né ci volgeremo o manderemo alcuno contro di lui, eccetto che per legale giudizio di suoi pari e secondo la legge del regno”.
Dopo che il Congresso di Filadelfia del 15 maggio 1776 invitò – a guerra ancora aperta – le tredici colonie originarie a darsi una costituzione, la Virginia aprì la strada del costituzionalismo moderno adottando il progetto di Giorgio Mason il 12 giugno 1776. Il suo esempio fu seguito nella sostanza – e spesso nella forma – dalle altre colonie.
“In tutti i processi capitali o criminali ciascuno ha diritto di chiedere la causa e la natura dell’accusa, di essere messo in confronto con gli accusatori e testimoni, di chiedere prove in suo favore, e un rapido giudizio da parte di una giuria imparziale di dodici uomini della vicinanza, senza il cui consenso unanime egli non può essere dichiarato colpevole; né può egli essere costretto a dare prove contro se stesso. Parimenti nessuno può essere privato della sua libertà, eccetto che secondo la legge del paese o dopo giudizio dei suoi pari”.
Nel Federalista n. 83 (una raccolta di articoli apparsi sulla stampa nordamericana per discutere sulla Costituzione: la possiamo considerare un commentario alla Costituzione degli Stati Uniti d’America) Alexander Hamilton (1757-1804) delegato dello Stato di New York alla Convenzione di Filadelfia, in merito al processo con giuria ha scritto: “I fautori e gli avversari del progetto della Convenzione, anche se non hanno alcun altro punto di accordo, pure concorrono tutti a dare grande valore ai processi con giuria; quando poi esiste una differenza tra loro, essa è la seguente: i primi la considerano una salvaguardia della libertà, gli altri la configurano come il vero baluardo di un governo libero”.
“La giuria” ha scritto Alexis de Tocqueville nell’opera Democrazia in America, “è soprattutto un’istituzione politica. La giuria è la parte della nazione incaricata di presiedere all’esecuzione delle leggi come la camera è quella incaricata di farle; e, perché la società sia governata in modo costante, bisogna che, con quella degli elettori, anche la lista dei giurati si allarghi o si restringa. Questo punto di vista deve soprattutto interessare il legislatore; il resto è un accessorio”.
All’indomani della Rivoluzione francese “l’assemblea nazionale decreta: 1° che ci saranno giurati in materia criminale”.


I gesuiti e la Chiesa

Il giurì in Italia apparve con la Repubblica Cisalpina nel 1797 (legge del 15 luglio); e con essa scomparve nel 1799. I giurati popolari riapparvero -formalmente- nella Costituzione della Repubblica italiana presieduta da Napoleone, approvata il 26 gennaio 1802, ma l’adozione fu differita di dieci anni.
In Italia il giurì è sempre stato osteggiato. Da Cavour, il quale nella seduta parlamentare del 5 febbraio 1852, in tema di riforma della giuria popolare istituita per i reati di stampa, interviene da ministro per dire che “i giudici popolari, potevano risultare persone di pochissima cultura, molto poco adatte per apprezzare le conseguenze che un reato di stampa, rispetto ai governi esteri, può avere sopra le cose del paese”.
Sempre contro la Chiesa Cattolica lasciando il compito di definire il problema ai gesuiti di Civiltà Cattolica che, fin dal 1851 (la rivista nasce nel 1850), scrivono: “come si può sperare che la sentenza di un giudice di circondario o d’un giurì composto di calzolai e di bettolieri medicherà tutte le piaghe della maldicenza, della satira, della calunnia, del sofisma?”.
“E il famoso Giury” scriveranno ancora i gesuiti nell’elenco dei mali derivanti dalle idee liberali, “non è ora considerato da ognuno come una istituzione pazza che assolve e condanna a caso, facendo perdere la testa ai giudici ed agli avvocati più spesso che non ai rei?”.
Stesso clima un secolo dopo, alla Costituente repubblicana, quando il 6 marzo 1947 il rappresentante del Partito Liberale, on. Alfonso Rubilli, vantando la personale esperienza d’aula giudiziaria, in merito ai giurati, dirà: “I giurati erano in gran parte Consiglieri comunali, perché i professionisti, ed in genere quelli delle categorie più elevate, trovavano sempre il modo di farsi ricusare. (Commenti - Interruzioni). Ora sapete che notavamo, e non di rado, perché la votazione avveniva in udienza, di fronte a noi? Che un giurato guardava il suo vicino, e se questi sulla scheda scriveva egli pure scriveva , se poi vedeva scrivere no si regolava egualmente. E questi consiglieri comunali, ex giurati e presso a poco analfabeti, possono giungere al Senato! Ma dove siamo arrivati? (Commenti - Si ride).
Una voce. “Alla sovranità del popolo!”
Risponde l’on. Rubilli: “La sovranità del popolo va rispettata più di ogni altra cosa ma dobbiamo evitare gl’inconvenienti dei capricci elettorali”.
La vera riforma della giustizia, è quindi, da un punto di vista logico, storico, istituzionale, comparato, l’istituzione della giuria, l’introduzione nell’aula giudiziaria come giudice del fatto, del sovrano, il Popolo. Tutto il resto, sono chiacchiere elettorali.
Prima che qualcuno si alzi a dire dell’indipendenza dei magistrati togati, della loro professionalità, della loro storia, proponiamo anche noi la Loro storia, la storia dei giudici in un non lontano passato.
Partendo dal fatto che il giudice è un uomo anche quando è in toga e come uomo ha le proprie idee, la propria cultura, educazione, convinzioni, guardiamo alcune decisioni di quella magistratura contraria, ieri come oggi, all’istituzione del giurì
L’a. 3 del D. P. 22 giugno 1946, n. 4, nel tentativo di chiudere con amnistia la parentesi fascista, disponeva che il perdono non era applicabile ai delitti politici commessi con sevizie efferate. Cosa intendere per sevizie efferate?
Ecco come risposero i magistrati togati, obbligati ad ammettere il fatto ma vogliosi di redimere l’atto.
“È da escludere che le sevizie abbiano avuto la particolare efferatezza, che è di ostacolo all’amnistia, se, secondo le stesse dichiarazioni della vittima, consistettero soltanto in percosse ai genitali ed in ferite con un coltello, sotto le unghie, alle mani ed al viso. Tali ferite sono da ritenersi ben lievi se i brigatisti, lo stesso giorno in cui furono inferte, potettero condurre il ferito da Padova ad Abano” (Cass. 2^ sez. ud. 25 luglio 1946. Pres. Serena Monghini; rel. Badia). “Annulla senza rinvio per amnistia”.
“È applicabile l’amnistia ad un capitano di brigate nere, che, dopo avere interrogato una partigiana, l’abbandona in segno di sfregio morale al ludibrio dei brigatisti che la possedettero, bendata e con le mani legate, uno dopo l’altro e poi la lasciarono in libertà” (Cass. 2^ sez., ud. 12 marzo 1947 Pres. Giuliano; rel. Violanti). “Annulla senza rinvio per amnistia”.
“Nel caso di chi ha partecipato alla tortura di un partigiano, il quale con le mani e piedi legati, fu sospeso al soffitto facendogli fare il pendolo e venne colpito con pugni e calci per costringerlo ad accusare i propri compagni, non sussiste la particolare efferatezza” (Cass. 2^ sez. ud. 17 sett. 1946. Pres. Giuliano; rel. Guidi). “Annulla senza rinvio per amnistia”.
Fu amnistiato colui che colpì “violentemente al capo un partigiano tanto da tramortirlo” (Cass. 2^ sez. 8 gennaio 1947. Pres. Mangini; rel. Colucci).
E anche colui che uccise con preterintenzione, dato che il “decreto di amnistia” motiva la Corte “usa il termine puro e semplice di omicidio; ed omicidio, senza alcuna aggiunta, è il nomen iuris dell’omicidio doloso”. “Annulla per amnistia”. (Cass. 2^ sez. ud. 30 ottobre del 1946. Pres. Jannitti Piromallo; rel. Giannantonio).
Si potrebbe continuare. I repertori e i massimari sono pieni di sentenze come quelle appena viste. Si sceglie di andare oltre, e guardare all’operato dei giudici professionisti in altri settori.
1° gennaio 1948: entra in vigore la Costituzione della Repubblica. Da questo momento tutti hanno il dovere di voltare pagina, di dare inizio a qualcosa di nuovo. Un dovere che sentivano in pochi.
7 febbraio 1948: la Corte di Cassazione a sezioni unite deve decidere il destino di tutte le norme prodotte dal fascismo ormai incompatibili con il nuovo ordine democratico. I ricorrenti, condannati per collaborazionismo per reati commessi prima che la legge 27 luglio 1944 li creasse invocano l’a. 25 della Costituzione (“Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”), cioè il principio dell’irretroattività della norma penale: nessun delitto senza legge.
La Cassazione, con un salto mortale interpretativo, stabilisce che l’a. 25 “impegna soltanto il futuro legislatore, e non abroga le leggi penali preesistenti”. La sentenza fa una distinzione fra norme precettive, cioè di immediata applicazione e norme programmatiche. Sarà il futuro legislatore ad abrogare, con norme ispirate ai nuovi principi, le disposizioni divenute incompatibili col nuovo ordinamento.
Con tale decisione la Corte congela il vecchio sistema. Sopravvive così anche l’a. 113 delle leggi di Pubblica Sicurezza (R.D. 18 giugno 1931, n. 773, tuttora vigente) che prevedeva la licenza del questore per “affiggere scritti o disegni, o fare uso di mezzi luminosi o acustici per comunicazioni al pubblico”, o “per affiggere giornali, ovvero estratti o sommari di essi”. La polizia poteva negare la licenza “alle persone che ritenga capaci di abusare”.
Un permesso preventivo della polizia in materia di stampa: la peggiore delle censure disposte dal fascismo per “imperiose ragioni politiche” per volere della Corte di Cassazione resta legge della neonata repubblica.
E i giudici di merito, quelli che devono dare giustizia ai casi concreti, come si comportarono? come combinarono l’a. 113 delle leggi di pubblica sicurezza con l’a. 21 della Costituzione per cui “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta da autorizzazioni o censure”?


Non chiamate il 113

L’articolo 113 delle leggi di pubblica sicurezza fu un nodo giuridico attorno al quale furono consumate lotte a tutti i livelli istituzionali. La polizia lo applicava; i neo cittadini ne impugnavano i mandati; parte dei giudici lo consideravano vigente, altri abrogato.
“Commette la contravvenzione di cui all’art. 113 della Legge di P.S. chi deposita volantini nella sede d’un partito, senza aver avuto le prescritte autorizzazioni” (Cass. 3^ sez., 13 dicembre 1949, sent. n. 2273. Pres. Mangini; est. Del Guercio).
Qualcuno non era d’accordo quindi intervenne la Cassazione con un’altra sentenza da ricordare: “L’art. 21 della Costituzione della Repubblica Italiana afferma principi direttivi e programmatici che abbisognano, per la pratica attuazione, di una elaborazione legislativa. Conseguentemente, non può riconoscersi al precitato articolo carattere di valore attuale, né efficacia abrogativa rispetto alle norme dell’articolo 113 T.U. delle leggi di P.S. (Cass. Sez. Un. pen. ud. 15 aprile 1950. Pres. Mangini; rel. Consalvo).
Ormai è fatta. Questa volta la sentenza riguarda proprio l’art. 21 della Costituzione, forse il più importante. E così viene legittimata la censura di polizia, per cui servirà la licenza del questore per qualsiasi scritto.
“Bene è ritenuta la contravvenzione di cui all’art. 113 del T.U. delle leggi di pubblica sicurezza a carico di chi, senza la prescritta licenza, abbia affisso all’esterno della porta della propria abitazione un cartellino con la scritta ‘questa famiglia è per la pace contro il patto atlantico’” (Cass. sez. 3^ ud. 21 aprile 1951, sent. n. 1979. Pres. Berardi; rel. Rossi).
Nel nome dei vecchi principi non si teme nemmeno il ridicolo. “È configurabile la contravvenzione prevista dall’art. 113 del T.U. della legge di P.S. a carico di chi faccia, con calce, iscrizioni contro il governo sul piano stradale, senza essere munito della prescritta autorizzazione” (Cass. sez. 3^ ud. 11 novembre 1950, sent. n. 2194. Pres. Fornari; rel. Donzellini).
L’a. 21 della Costituzione è, dunque, per la Cassazione una norma programmatica; il suo valore precettivo, infatti, “porterebbe disordini irreparabili, giacché le più nocive e maligne espressioni del pensiero, dall’ingiuria all’oltraggio, dal vilipendio all’istigazione a delinquere, acquisterebbero impulsi tali da infirmare lo stesso principio di sovranità dello Stato” (Cass. 12 ottobre 1950).
E tutto questo fino al 1956, quando la Corte costituzionale nella sentenza n. 1 della sua storia “dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme contenute nei commi primo, secondo, terzo, quarto, sesto e settimo dell’art. 113 del testo unico del testo di pubblica sicurezza”. Tutto questo e altro ancora grazie alle toghe di professione.
Giudici professionisti? No grazie.

Rinaldo Boggiani