Rivista Anarchica Online


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Il mio Afganistan
di Massimo Ortalli

1974, a 27 anni, 27 anni fa. In viaggio per Kabul.

Tre giorni di treno per Istanbul, l’Orient Express, treno di disperati stipato all’inverosimile di famiglie turche di ritorno da Germania e Nord Europa, in condizioni indescrivibili. Nelle prime ore non ci si riesce a muovere. Poi le prime amicizie sul treno, nelle interminabili pianure slave, marcia a cinquanta all’ora. Fermi nella notte nelle stazioni, senza mangiare, senza bere, senza un cesso, la corsa alle fermate per scaricare i bisogni e la noia.
Nella Turchia europea il treno è così lento che si scende in corsa e ci si diverte a cambiare vagone, correndo a piedi a fianco del convoglio. Un ragazzo libanese, in questo gioco, dà una craniata contro una sbarra di ferro che avrebbe steso un mulo: si rialza sorridendo, non è niente, non è niente! Siamo accompagnati dal volo delle cicogne. L’ultimo giorno sul vagone postale, finalmente possiamo stenderci per terra e dormire nei sacchi a pelo. L’arrivo a Istanbul, i parenti degli emigrati fuori dalla vecchia e bellissima stazione, a migliaia ad abbracciarsi, carichi di vettovaglie, di pacchi, valigie, involucri e ogni ben di dio. Ci defiliamo, unici occidentali, e di corsa al Sozyal Oteli, vicino ad Aja Sofia e da Yener, transito degli hippies in viaggio da e per l’India. Si dorme in terrazza per pochissimo, tutti insieme, senza pensieri.
Al mattino, senza concederci tregua, il traghetto per la Turchia asiatica poi, il treno per Teheran. Si viaggia in prima, il costo è irrisorio, vagoni a cuccetta che sembra un sogno, il treno piombato, inaccessibile dall’esterno, per evitare gli assalti dei questuanti. Altri tre giorni di viaggio, vagone ristorante, il gruppo formatosi in Yugo è ancora insieme, alcuni italiani, alcune francesi, un inglese, un australiano, un brasiliano consapevole di assomigliare a Marlon Brando, il libanese ansioso di piacere agli occidentali e di essere “accettato”. Sembriamo dei signori ma per altri tre giorni niente doccia e rimpiangiamo quella non fatta al Sozyal per non pagare l’acqua. Si attraversano lentamente gli altopiani anatolici.


Un altro poveraccio

In una sperduta stazioncina un piccolo paralitico corre come può verso di noi per una elemosina. Cerco di scendere ma il treno sta ripartendo. Butto al volo una cartamoneta, è andata, penso, ma all’improvviso spunta un altro poveraccio, che con un balzo precede il bambino portandogli via quello che credeva già suo. Lo maledico con tutte le mie forze, ma non posso farci niente. Un’amarezza che mi accompagna ancora oggi. A Van lunga sosta. Salgono alcuni ragazzi, curiosi e vocianti. Cercano di fare amicizia, soprattutto con le francesi. In breve, come accade, dalla simpatia alla paura e alle minacce. Sono offesi dai modi impauriti e inutilmente aggressivi degli italiani che pensano di dover difendere le ragazze. Ma da cosa? Dalla curiosità e dalla voglia di parlare inglese? Sono l’unico con un po’ di esperienza, faccio rientrare i viaggiatori nello scompartimento che viene chiuso a chiave e resto nel corridoio con i turchi, che hanno già i coltelli in mano. Offro una sigaretta, un sorriso, due parole di scuse. Rispuntano i sorrisi, le strette di mano, la cordialità innata. Scendono, il treno riparte.
Si arriva in Iran, nell’Iran dello Scià. A Teheran subito alla stazione dei bus per la corriera per Mashad, la città santa vicino al confine afgano. La corriera è di “lusso” come tutto quello che deve apparire per lo straniero, le strade, gli ostelli, le birre ghiacciate e il cesso sull’autobus. Peccato che il contorno rimandi a una miseria senza fine, che fa presagire la prossima rivoluzione komeinista. La Teheran dello Scià, americanizzata e occidentalizzata non ci attrae, scappiamo a gambe levate. Mashad ci prende con la sua bellezza fra le tribù dei nomadi del deserto che si incontrano in una delle moschee più sacre del mondo sciita. La moschea è interdetta ai non credenti, ma la curiosità è grande. Con la faccia che passa il convento e con un turbante riesco ad affacciarmi sul cortile: uno spettacolo straordinario, un enorme affollatissimo bivacco di famiglie, di tribù dai mille costumi e dalle mille fogge. Sono sbalordito, accecato da questo incontro improvviso con un mondo così antico. Mi riprendo e capisco che restare è pericoloso, qualcuno comincia a guardarmi male.
Mi allontano ma non posso dimenticare. Fuori per cena una tazza di brodo venduta da una donna per strada. Me la porge con gentilezza ma quando, vuotatala, gliela rendo, la scaglia per terra con disprezzo. Mi ha dato da mangiare per dovere ma preferisce perder la tazza piuttosto che riutilizzarla. Il giorno dopo il visto per l’Afganistan. Cinque dollari, un furto. Ma tant’è. Cinque dollari e niente storie, neanche per la faccia sulla foto tessera. Di notte sulla terrazza del Kharoun Hotel, sulla testa volteggiano, silenziosi e magici, i gufi reali numerosi nella città. Finalmente, dopo otto giorni di viaggio, si parte per Herat, la prima città afgana.


Un paese vicino al cielo

L’Afganistan è una conquista, deve essere una conquista, arrivarci via terra con disagi e fatica, poco per volta, un avvicinamento fisico e intellettuale graduale, come sono graduali le diversità che offre una cultura che la nostra presuntuosa ignoranza altrimenti non potrebbe comprendere. Ora per ora, chilometro per chilometro, le sfumature del viaggio si sommano per farsi consapevolezza della distanza che ci separa da una realtà così diversa, e diventa chiara la particolarità di questa terra meravigliosa, di questo popolo così semplice ma anche così “altro” rispetto a tutto ciò che lo circonda. A quei paesaggi, a quella gente, penso che niente gli assomigli. Nessun angolo della terra può somigliare a questo. Un mio amico lo ha definito un paese vicino al cielo, ed è così.
Si parte in tanti, in quegli anni, quando si cerca un’alternativa a un sogno di rivoluzione che vediamo sfaldarsi. Si parte anche per cercare qualcosa di proibito, sapendo che lì è facile, ma nel viaggio, nella dimensione del viaggio, nella emozione che ti comunica il paesaggio senza tempo che ti scorre davanti agli occhi, tutto cambia, l’avvicinamento al cielo è reale, il passaggio dall’occidente all’oriente non è la distanza fisica dalla tua terra, ma diventa un momento di riflessione e di apertura mentale che non potevi prevedere. Questo è l’Afganistan, questo è percorrere quel paese seduto sullo scalcinato trapuntino di una corriera da cartone animato.


Sorridono, calmi

Alla frontiera un gruppo di afgani, intere famiglie che attendono di rientrare, seduti per terra, in attesa di un visto, di un lasciapassare, non so di cosa. Sono rassegnati, rassegnati ad essere gli ultimi anche rispetto a quegli iraniani che solo un occhio ormai abituato ci permette di distinguere. La loro attesa potrebbe essere indifferentemente di un’ora o di una vita. Ma sorridono, calmi. Nessuno li potrà mai cancellare. Come possessori di dollari, anche se pochi, siamo privilegiati, abbiamo la precedenza e passiamo Ci sono dieci chilometri di terra di nessuno, una strada diritta sull’altopiano, bellissima, c’è fretta di proseguire e in assenza di un mezzo immediato che ci carichi, decidiamo di farcela a piedi.
È l’Afganistan. Non so come sarà ma lo immagino bellissimo. È il tramonto e dobbiamo andare. Dopo alcuni chilometri siamo raggiunti da un pullmino già stracolmo di afgani. Dodici posti a sedere e in tutto siamo una trentina. Saliamo sul tetto in compagnia di vecchi e pecore e raggiungiamo la frontiera. Bambinetti nascosti dietro le siepi contrattano velocemente quello che vorrebbero venderci le guardie, scegliamo i bimbi e sappiamo di far bene, non solo per il prezzo. Un altro pullmino e nella notte si parte per Herat. Code di turbanti al vento sul tetto, immagine che ci accompagnerà per tutto il paese, si ride, semplicemente guardandoci in faccia, noi e gli afgani, ce l’abbiamo fatta, ci siamo.
Herat. Hotel Kharoun, sulla terrazza sotto un cielo di stelle che non si può immaginare. Siamo una decina, cominciamo ad arrotolare e arriva l’albergatore con un tizio: questo è il capo della polizia di Herat, ci dice, trasecoliamo, adesso fumate ancora mezz’ora e poi a letto! Ubbidiamo. Per le strade della città uomini a cavallo col fucile a tracolla, donne senza burka anche se col velo, un viavai frenetico, davanti al forno, scavato per terra con il pane schiacciato che cuoce sulle pareti, gente in fila acquista quel poco che sarà il suo pasto. Il paese è povero, ho sempre mangiato come loro e mai più di un po’ di riso, la frutta non si sa cosa sia, ma yogurt, qualche formaggio, pollo o montone, misere ossa con attaccata un po’ di carne grassa e saporita. Un “impiegato del comune” raccoglie per strada lo sterco in un secchio, anch’egli ha una sua dignitosa professionalità.


Pecore sul tetto

Sulla strada per Kandhar. Un piccolo autobus per metà fatto di legno trasporta una folla di persone e animali. Sotto i piedi guardo l’asfalto da un buco nel pavimento in cui passerebbe un gatto. Ogni tanto ci si ferma, qualcuno scende a pregare o per incamminarsi verso l’orizzonte deserto, non c’è una abitazione a perdita d’occhio. Ma lui sa di essere arrivato. Altri salgono, spuntati come per incanto, siamo beati. Quando una pecora deve salire sul tetto è un happening. Specialmente se recalcitra. Lo zombie, l’aiutante dell’autista, entra ed esce dai finestrini in corsa per salire sul tetto a controllare i biglietti, accomoda la gente, la fa salire e scendere freneticamente, non è mai fermo, già guardarlo è un viaggio. Di notte sosta a Zabul, si mangia un piatto di riso e ci si accovaccia per terra in una nuda stanza. Al mattino il bagno è dato da una grande botte piena d’acqua nella quale ci laviamo tutti insieme. Ci sembra la cosa più naturale del mondo. Kandhar, la gente dorme per strada in meravigliosi letti di legno e corda per sottrarsi al caldo dell’altopiano, le siepi sono piante di canapa, alte tre metri, si fa raccolta, tutto gratis.
Si riparte per Kabul su quest’unica strada asfaltata del paese, costruita in condominio da russi e americani, nell’ammirevole sforzo cooperativo di spartirsi il paese. Villaggi di terra e fango confusi col paesaggio, pochissime coltivazioni, nessuna fabbrica per migliaia di chilometri. Pascolo brado e rapaci nel cielo. Traffico inesistente, poca vegetazione, le montagne da una parte, il deserto dall’altra. Carovane di nomadi, tribù kuci, le donne con meravigliosi abiti colorati, i mitici vestiti afgani che vestiranno le compagne di mezza Europa, cammelli, asini, cavalli, pecore, uomini, bambini e vecchi, in una teoria lunga chilometri, gli uomini alla guida poi gli altri, una migrazione nell’altopiano. È lo spettacolo più straordinario che abbia mai visto. Li accompagno con lo sguardo e forse vorrei essere con loro. Mille, duemila anni fa, probabilmente tutto identico, poche cose sono cambiate, non certo le gerarchie e le regole sociali che fanno dei nomadi delle steppe e degli altopiani un’entità a sé. Non sono censibili, nessuno può sapere quanti siano. Nella grandiosità del loro passaggio c’è una storia dell’umanità che stiamo perdendo. Arriviamo a Kabul.


I soliti interessi

È assurdo arrivare in questo paese in aereo, al mattino sei a Roma e tac! dopo poche ore sei nei bazar di Kabul. Una follia, l’impossibilità di capire. È nell’ordine delle cose, il viaggio non è solo un trasferimento fisico, ma anche un trasferimento mentale fra diverse dimensioni. Esisteva allora, in tutta la capitale, un unico posto esclusivo per gli occidentali, la Chicken House, ristorante americanizzato per americani ed europei, non arroganti ma certamente ignoranti. Ne ho sentito tessere le lodi perché finalmente “si mangiava bene”. Spendendo quel che c’era da spendere. Non ho mai neanche capito da che parte della città fosse.
C’è modo e modo, penso, di avvicinarsi a un paese comunemente ritenuto arretrato, quello da colonizzatori e quello da visitatori, quello “predatorio” e quello “mutualistico”. Nel primo caso, che si parta per diporto, o in divisa mimetica e al comando di un cacciabombardiere, l’approccio è lo stesso. A fianco di tutti i soliti interessi militari, economici, politici, c’è anche, sempre, un malriposto senso di superiorità che giustifica e determina ogni possibile infamia. I morti, i dolori, i lutti, non sono mai uguali. Come si potrebbe paragonare il tormento di un analfabeta afgano che perde una misera casupola di fango sotto le bombe umanitarie, con quello di un occidentale allorché viene privato anche solo di una parte delle sue tante luccicanti proprietà?


Donne nomadi

Kabul, Mongol Hotel, sul cortile di un caravanserraglio. Servizi igienici da trincea, camere visitate da enormi scorpioni del deserto, ma non ci si fa caso. Sigarette indiane, quaderni russi, fiammiferi pakistani, biciclette cinesi, nulla che sia prodotto nel paese. Solo l’artigianato, un artigianato meraviglioso, di stoffe, gioielli, pelli e tappeti, quasi tutto prodotto dalle donne nomadi numerosissime in città. Sono a capo scoperto, belle e libere, consapevoli della loro diversità. Per strada altre donne, alcune col burka, altre, poche, occidentalizzate. Le studentesse, quelle che oggi non ci sono più, in divisa all’inglese. L’edificio più alto della città è di cinque piani, moderno e bruttissimo, ma del resto tutta l’architettura di Kabul non è granché. Vent’anni di bombardamenti, russi, afgani, americani, il patrimonio artistico non ne avrà risentito.
In un asfittico giardino pubblico due anziani, col berretto di astrakan, si esercitano in una pantomima guerresca armati di lunghi bastoni. Piccoli levrieri randagi attendono un boccone. In una çaikana a bere un tè. Un gruppo di musicisti tradizionali esegue melodie popolari, suonano per se stessi, siamo solo due avventori. L’afgano è su una seggiola, ma non seduto, vi è appollaiato come se fosse all’aperto. La teiera deve essersi rotta in tempi immemorabili, ma è stata aggiustata con punti metallici. Sembrerebbe incredibile ovunque, ma non in Afganistan. Non si ha idea di cosa possa fare un meccanico da queste parti. Offro una caramella, l’afgano prende il pacchetto e si mette in bocca il contenuto tutto in una volta. Sembra in difficoltà ma sorride fiero e amichevole, siamo fratelli. È consapevole del dono, fa capire che lo apprezza, è il suo modo, un modo primordiale e profondo, per stabilire un rapporto di reciprocità. Un antropologo ci andrebbe a nozze.
Al bazar i baratti. Con un vecchio mercante, dopo due ore di serafica contrattazione intercalata da lunghi silenzi, scambio una sterlina oro, il mio nascosto tesoro, con alcune stoffe antiche, meravigliosi ricami sicuramente nomadi. Grande soddisfazione di entrambi. Quello che gli ho dato, per lui vale dieci volte tanto, ma lui ha fatto lo stesso con me. Da un venditore di pietre e argenti ci passo un pomeriggio. Gli cedo la camicia e le scarpe che indosso, in cambio ricevo tre camiciotti afgani e due cinture d’argento e lapislazzuli. Vorrebbe appoggiarmi anche un cucciolo di lupo che tiene sulla strada, ma non saprei come portarlo a casa.
All’ufficio postale lunga coda di viaggiatori. Si contratta sul prezzo dei francobolli per le cartoline. Sì, il valore è stampato sul francobollo, ma la contrattazione deve solo garantire che una volta consegnate le cartoline affrancate, il tizio non stacchi i francobolli per rivenderli. Niente di più normale. La corriera del ritorno, siamo cinque occidentali, tutti con la stessa destinazione. Cinque biglietti, cinque prezzi differenti, tutti sicuramente almeno il doppio di quanto pagato dai locali. Cosa c’è mai di strano? Oggi, a quanto pare, Kabul non è più la stessa. Vent’anni di guerra, di ogni tipo di guerra, ne hanno distrutta la fisionomia. Non credo che ne abbiano distrutto lo spirito.


Né leggi né codici formali

L’Afganistan è un paese dove non cerchi mai l’aria di casa, non ne hai bisogno. È normale che anche il viaggiatore più navigato prima o poi cerchi in un volto, un ambiente, un’insegna, un cibo, una persona incontrata per strada, quel flash che gli ricordi la sua abituale e rassicurante quotidianità. Insomma, la voglia di casa. È un bisogno che sorge naturale, che si fa vivo ogni volta che pesa la lontananza dalle proprie radici. In Afganistan non succede perché non c’è nulla che ti faccia pensare di non essere a posto in un posto congeniale.
Nel tempo che vi ho passato non ho mai assistito a una scena di violenza, a un alterco, a un momento di tensione o di pericolo. E questo può sembrare incredibile in un paese dove la gente gira ancora armata di coltelli e armi da fuoco. E dove mai avverti il senso dello Stato. O invece proprio per questo. I rapporti sociali non sembrano regolati da leggi e codici formali che facciamo riferimento a un’entità astratta e distante, ma si sviluppano sulla base di norme che poggiano su un sistema di valori individuali percepiti con forza. Indubbiamente, e soprattutto negli ultimi tempi, il rigore imposto dai talebani ha modificato in peggio aspetti fondamentali della vita quotidiana di questo popolo, ma sono convinto comunque che ogni afgano continui a rispondere delle proprie azioni, prima di tutto, a se stesso. La fierezza del portamento che colpisce fin dal primo momento l’occhio del viaggiatore, non è altro che lo specchio di una fierezza interiore che nessuna forza al mondo potrà scalfire. L’afgano può essere affittato, ma mai comprato, recita un proverbio pakistano divenuto famoso. Ne sono perfettamente convinto.
Anche oggi, come ormai succede da ventidue anni, ben altra gente si mette in strada per l’Afganistan. Non più i giovani e trasgressivi ribelli on the road, ma altri giovani lobotomizzati su carri armati, aerei e altri mezzi militari. Alcuni ci hanno già lasciato le penne anni orsono, altri si stanno apprestando ad affrontare questo “popolo di straccioni”, come lo ha appellato George Washington Bush, con lo stesso orgoglio e la stessa criminale incoscienza. Certo, a vedere come sono armati ed equipaggiati gli afgani, come sono incapaci di marciare o di sottostare alla disciplina, verrebbe da pensare che la spedizione americana, una volta finiti i bombardamenti, occuperà militarmente il paese con la facilità con cui un coltello affonda nel burro. Però viene da pensare che non sia un caso che intanto devono scendere in campo i più potenti eserciti del mondo, con “forze di cielo, di terra, di mare”, per mettere in riga questa indomabile genia di montanari e pastori analfabeti.

Massimo Ortalli