Rivista Anarchica Online


 

Quando la Cia a(r)mava Bin Laden

Sabato 20 ottobre 2001, il Centro Studi Libertari e il Laboratorio Libertario, con la collaborazione del Comune di Venezia, hanno promosso un incontro con John Cooley presso il Municipio di Mestre. Questa è la presentazione di Piero Brunello.

1. John Cooley è un giornalista americano e lavora per la ABC News. Questo libro (Una guerra empia. La Cia e l’estremismo islamico, Elèuthera, Milano 2000, pp. 399, L. 35.000) è stato pubblicato a Londra nel 1999 con il titolo Guerre empie. Afganistan, America e terrorismo internazionale: le “guerre empie” sono le “guerre sante” condotte – così viene dichiarato – in nome dell’Islam (1).
Il libro si apre con una citazione da Il Principe di Machiavelli, dove si dice che “l’arme mercenarie sono inutile e periculose”. Così si entra nell’argomento del libro: quando nel 1979 l’Unione Sovietica invase l’Afganistan, gli Stati Uniti promossero una “guerra santa”, e reclutarono a tale scopo nel mondo islamico 250mila mercenari, i quali, dopo avere respinto l’invasione sovietica, diedero vita a un terrorismo su scala mondiale, in primo luogo contro gli Stati Uniti.
L’alleanza promossa dagli Stati Uniti era formata da “alcuni tra i più reazionari e fanatici esponenti dell’Islam” (p. 13), e cioè la dittatura militare pakistana e il governo dell’Arabia Saudita. Alla coalizione aderirono la Cina (p. 111) e il governo inglese della Thatcher (p. 152). Inoltre sarebbe stato “fondamentale” il ruolo di Israele, ma non ci sono prove (p. 64).
Funzionari della Cia e ufficiali pakistani addestrarono i mercenari che l’A. chiama “islamisti” e non “fondamentalisti”, termine che giudica “logoro e impreciso” (p. 14). Il reclutamento fu delegato a enti religiosi o filantropici musulmani (p. 138). Furono aperte a tale scopo scuole religiose islamiche (p. 139). In un primo tempo la consegna delle armi era fatta in segreto (p. 94), ma nel 1984-85 c’è una autorizzazione del Congresso statunitense per la consegna ai combattenti afgani “dei micidiali missili Stinger” (p. 180). La Cia trasportava con aerei americani armi egiziane in Pakistan, affidandole all’esercito locale, che le distribuiva “con bella percentuale di sprechi e di corruzione” (p. 67). Per scampare alla guerra, da due terzi a metà degli abitanti afgani si rifugiarono in Pakistan o in altri paesi; Kabul fu ridotta ad ammassi di rovine.
I mercenari erano pagati bene, da 100 a 300 dollari al mese: “somme enormi” per gli standard dei loro paesi (p. 177). I fondi destinati agli islamisti passavano attraverso società di comodo con sede in Svizzera, Francia, Stati Uniti (p. 203). Nel primo anno di occupazione sovietica il giornalista americano Bob Woodward parla di cento milioni di dollari destinati ai guerriglieri antisovietici (p. 179); altrettanto denaro era fornito dal regno saudita; infine “si aggiungevano i milioni di dollari provenienti dai patrimoni arabi privati” (p. 182). Bin Laden, apparve ai sauditi e alla Cia il leader ideale (p. 194), e aprì un ufficio a Londra (p. 201).
La guerra in Afganistan diede “un impulso decisivo” al “mostruoso e redditizio business internazionale” del traffico di droga (p. 209). La droga sequestrata negli Stati Uniti – eroina, cocaina – veniva venduta ai soldati russi, e di lì nella società russa. Da allora la tossicodipendenza si è diffusa fino a raggiungere “proporzioni gigantesche” nella società postsovietica (pp. 210-211). I mujahedin afgani aumentarono la produzione di droga per comprare armi (pp. 215, 226). Inoltre missili Stinger americani finirono nelle mani dei “contrabbandieri di droga che intendevano così eliminare gli elicotteri che ostacolavano i loro traffici” (p. 281). Nel 1999 l’Afganistan risulta il primo paese produttore d’oppio (p. 225).

2. Sconfitta l’Unione Sovietica nel 1989, i reduci dalla guerra in Afganistan portarono le “guerre empie” in altre parti del mondo.
In Algeria furono veterani dell’Afganistan “armati e ben addestrati, a istigare, scatenare e guidare le prime azioni terroristiche e di guerriglia delle milizie islamiche” (p. 21): tra il 1992 e il 1998 furono uccise 100.000 persone.
Il terrorismo, compiuto da mercenari afgani, cominciò a colpire la provincia dello Xinijang, in Cina, abitata da popolazioni musulmane (p. 111).
Nella regione indiana del Kashmir, guerriglieri che avevano combattuto nella guerra afgana, appoggiati dai servizi segreti pakistani, diedero il via a un piano terroristico volto alla secessione dall’India (p. 22). Crebbero i conflitti sanguinosi tra indù e musulmani. Nel marzo 1993 le bombe a Bombay, capitale finanziaria dell’India (“un parallelo interessante con l’obiettivo del World Trade Center, nel centro finanziario di New York”, osserva Cooley) fecero in India oltre 300 morti e circa 1.200 feriti (pp. 373-374).
Nel 1994 fallì un piano dei terroristi islamisti che agivano nelle Filippine, per impadronirsi nello stesso giorno di 11 aerei americani nel Pacifico (p. 377).
Fu un terrorista egiziano, addestrato nella guerra afgana, a dirigere l’uccisione di 58 turisti stranieri a Luxor, in Egitto, nel 1997 (p. 299)
Infine, il terrorismo “si muove ora all’attacco degli Stati Uniti” (p. 22). Le bombe al World Trade Center del 26 febbraio 1993, fecero sei vittime e migliaia di feriti. Molti responsabili erano stati addestrati dalla Cia (p. 356); la bomba, che aprì un cratere di 65 metri, “risultò composta di nitrato di ammonio e nafta, come da manuali della Cia”, di cui alcune copie “furono trovate in possesso dei cospiratori” (p. 381). Dopo questo inizio, un piano “prevedeva di distruggere almeno undici aerei di linea americano in un sol giorno” (pp. 22-23).
Nell’estate del 1998, bombe scoppiarono nelle zone vicino alle ambasciate americane di Nairobi e di Dar-es-Salaam. Ci furono più di 200 morti e oltre 4.500 feriti (p. 351). Gli Usa bombardarono i campi di Usama bin Laden in Afganistan, progettati dalla Cia e dai servizi segreti pakistani, e una fabbrica in Sudan, accusata di produrre materiale bellico: dopo molte proteste nei paesi arabi, giornali come il “New York Times” e il “Washington Post” ammisero che si trattava di una fabbrica di medicinali (pp. 353-354).
Alla fine del secolo, scrive Cooley, “i responsabili di gran parte del terrorismo politico postbellico in Occidente non sono tanto governi criminali quanto magnati privati”; questa “privatizzazione strisciante” della guerra “fu il frutto dell’alleanza tra Arabia Saudita e Stati Uniti” (p. 183). Tra questi “magnati” spicca la figura di Usama bin Laden, a cui Cooley sembra attribuire un ruolo di primo piano, a differenza di altri osservatori. Prima dell’attacco alle Twin Towers, alcuni ritenevano infatti che bin Laden fosse diventato “al di là delle azioni che gli vengono attribuite, la star di fiction hollywoodiana planetaria, dove recita nel ruolo del bad guy, garantendo il successo dei programmi televisivi, riviste, libri e siti web a lui dedicati, e servendo da giustificazione ad alcune scene politiche americane” (2).

3. Le fonti di informazione di Cooley sono uomini politici, studiosi, giornalisti, funzionari di ambasciata. Non sempre, come spiega nei Ringraziamenti, l’autore può riportare i nomi.
La parte del volume che si basa su documentazione di prima mano, riguarda il coinvolgimento statunitense nella guerra in Afganistan, che tutti gli osservatori sottovalutano. Altre parti del libro utilizzano invece inchieste e studi esistenti, verso cui l’A. dimostra gratitudine e ammirazione. La storia del traffico di droga per esempio, scrive Cooley, è “quasi sconosciuta salvo a due tre intraprendenti scrittori europei che hanno letteralmente rischiato la vita per conoscerla” (p. 226).

4. Il senso di questo libro si capisce meglio pensando al teatro. La politica, così come ci viene presentata dai media, si svolge sulla scena. Cooley invece indaga nel retroscena. Faccio un solo esempio, riferendomi al mondo occidentale. Nel 1982 la Cia fu esonerata – in segreto – dall’obbligo di denunciare il contrabbando di droga da parte dei suoi funzionari (p. 218). La Cia copriva il traffico di droga da parte dei contras in Nicaragua e cominciava a fare la stessa cosa in Afganistan. Sempre in quell’anno il compito di promuovere le campagne antidroga negli Usa venne sottratto alla Dea (l’agenzia americana contro la droga), divenuta un intralcio, e affidato all’FBI. Tutto questo si svolge nel retroscena. Invece sulla scena vediamo comparire la moglie del presidente Reagan e annunciare “una sua personale crociata, rivolgendosi soprattutto ai giovani americani con lo slogan «Diciamo no alla droga» (p. 219). Sul palcoscenico può andare in scena una farsa, come in questo caso; oppure una tragedia, se pensiamo all’enorme incremento delle tossicodipendenze in Pakistan (pp. 245-246), in Unione Sovietica, negli Stati Uniti.
Sulla scena i protagonisti sono due, contrapposti: un maschio adulto occidentale e un maschio adulto musulmano. Nel retroscena – considerando solo i maschi adulti – le parti sono mescolate. Anche qui, un solo esempio. Chi dirigeva la Bank of Credit and Commerce International, una delle banche che ha finanziato la guerra afgana, era uno sceicco, era amico di Carter e aveva stretti rapporti con la Thatcher; la banca aveva conti segreti in Svizzera, Londra, Miami (p. 187).
La politica che si svolge sulla scena fa appello a valori che nel retroscena vengono calpestati. Non è argomento del libro spiegare in che modo “guerre empie” – guidate da uomini d’affari, narcotrafficanti e dittatori appoggiati fino a ieri dagli Stati Uniti – possano essere vissute nei paesi musulmani o nelle comunità immigrate in Occidente come “guerre sante”. Per quanto riguarda i paesi occidentali, i governi ignorano i principi di democrazia e di libertà sui quali chiedono il consenso. Le scelte politiche decisive sono prese in segreto da apparati militari e finanziari.

5. Come tutti i discorsi che si ispirano a Machiavelli, e che analizzano le azioni politiche sulla base della loro efficacia rispetto alla conservazione o alla perdita del potere, le pagine di Cooley possono svelare i crimini su cui si fondano i governi, oppure possono essere consigli al Principe. Nell’Introduzione all’edizione italiana, scritta nel marzo del 2000, Cooley scrive infatti che “il mondo dovrà subire tragedie ancora peggiori se gli Stati Uniti e il resto del mondo occidentale, nel ventunesimo secolo, non saranno più cauti nella scelta degli alleati”. Soprattutto – aggiunge – , non si dovrà sostituire l’Islam al comunismo quale “avversario diabolico che deve essere sconfitto” (p. 24).
L’autore non si chiede come la “guerra santa”, cresciuta dopo la scomparsa del messianismo socialista e del nazionalismo arabo, possa esprimere e mobilitare la rivolta contro l’imperialismo americano e occidentale, né come possa dare risposte al vuoto culturale provocato dai modelli occidentali di modernizzazione, e neppure come possa rientrare nelle strategie di Stati “non occidentali”. L’argomento del libro restano le alleanze militari degli Stati Uniti.
Ma da che punto di vista queste alleanze possono essere considerate un errore? Su che base si dà per scontato che “il resto del mondo occidentale” debba appoggiare la politica americana? E basterà nel futuro una maggiore cautela nella scelta degli alleati “non occidentali”? La “guerra santa” in Afganistan appare essere stata un aspetto di una politica più generale: dai bombardamenti e dall’embargo sull’Irak, al sostegno ai regimi reazionari arabi, al veto nei confronti delle risoluzioni dell’Onu sulla questione palestinese, per arrivare al controllo economico e militare delle aree petrolifere.
Il libro di Cooley dimostra che la retorica messa in scena nei paesi occidentali nel corso della “guerra santa” contro i sovietici in Afghanistan ha poco a che vedere con gli obiettivi perseguiti realmente. Leggendo il libro dopo l’attacco alle Torri di New York, e mentre continuano i bombardamenti sull’Afganistan, ci si chiede quali sono gli obiettivi che contano nel retroscena della nuova “guerra giusta”.

Piero Brunello

Note

1. Non userò il termine “jihad”, che a detta degli studiosi non può essere tradotto con “guerra santa”.
2. Gilles Kepel, Jihad, ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, Carocci, Roma 2001, p. 359. Secondo Kepel l’islamismo, in declino alla fine del secolo, è destinato a sfaldarsi rapidamente perché non riesce a tenere insieme le diverse classi e i diversi settori della società che aveva coagulato (pp. 11-19).

 

Politica di parola

Parole non consumate – libro di recente pubblicazione (Liguori editore, pp. 157, £ 24.000) – apporta l’intrigante sottotitolo donne e uomini nel linguaggio. Ne è autrice Chiara Zamboni che, insieme ad altre ha dato vita, presso l’Università di Verona dove insegna Filosofia del linguaggio, alla Comunità filosofica “Diotima”. Attiva fin dal 1984 nella ricerca di quello che viene nominato pensiero della differenza sessuale, la comunità anima il dibattito anche attraverso seminari pubblici dove la politica delle donne trova luogo di espressione e punto di riferimento per l’elaborazione simbolica. Chiara Zamboni ha collaborato infatti ai saggi collettanei di “Diotima” (il nome della donna straniera a cui Socrate, nel Simposio di Platone, riconosce autorità in tema d’amore) e ha scritto opere di pregevole spessore filosofico e letterario: Favole e immagini nella matematica; Interrogando la cosa - Riflessioni a partire da Martin Heidegger e Simone Weil; L’azione perfetta; La filosofia donna - percorsi di pensiero femminile.
Pur affrontando un tema desueto e di non facile approccio, “Parole non consumate” costituisce un gioiello di chiarezza ed un contributo di raffinato valore per il senso di orientamento offerto – con scrittura pura ed illuminante – dal pensiero della differenza sessuale alla storia della filosofia e al suo impianto metafisico. Non è comunque un testo classico teso a ripercorrere per tappe quanto i filosofi antichi hanno teorizzato sul linguaggio. Rappresenta invece un testo storico perché evento di portata simbolica per l’ontologia sulla e della parola in esso rintracciabile. E per la creazione – ipso tempore – di un logos metafisico prossimo alle realtà quotidiane.
Testo dunque di filosofia del linguaggio e non di storia del linguaggio, in esso l’essere e la sua dicibilità, felicemente, non coincidono. Sulla loro distanza si gioca la vita simbolica delle esistenze di donne e di uomini.
Certo non mancano diretti riferimenti a filosofi-maestri come Ludwig Wittgenstein, a psicanaliste dell’infanzia come Françoise Dolto, ad outsider come Walter Benjamin, a pensatrici del tutto particolari come Simone Weil e la teologa Mary Daly, o a politici addirittura spirituali come Gandhi. Essi fungono però da punti qualificanti su cui e da cui il discorso dell’autrice si fa parola viva. Il libro è anche – e a mio avviso essenzialmente per ciò – un testo di politica prima; quella dove lo spazio di parola mette al mondo altro essere e l’essere-altro crea parole di verità. Parole non consumate appunto, di cui, tuttavia consumabili, ci si può nutrire vicendevolmente.
Ma quali sono allora le parole logore, vuote, morte al senso del nostro più profondo sentire, quelle intorno alle quali si sono andate ad allestire le guerre, come lucidamente scrive Simone Weil (Sulla guerra - scritti 1933-1943, Pratiche editrice, Milano, 1998)?
‘Nazione’, ‘Patria’, ‘Capitale’, ‘Classe sociale’ hanno (avuto) il loro carico di responsabilità bellica. Sono le astrazioni preconfezionate rispetto alle verità dei fatti, irriflettuti e subito colmati da parole d’ordine imperativo a senso unico. Ecco come insorgono i fideismi che prescindono dal vivo dei rapporti diretti tra esseri umani. Su di essi gli eserciti ideologici e fondamentalisti si compattano sul comune denominatore di una dimenticanza: la sintassi dei contingenti bisogni vitali viene obliata per instaurare la grammatica dell’omologazione a tutti i costi.
Sono i termini del già detto, dell’ancora insistentemente ripetuto, all’intero dei quali, spesso, più donne che uomini si sentono ingabbiate e ne patiscono il disagio. Perché le non-parole hanno perso il contatto con il mondo delle esperienze quotidiane e con il flusso delle emozioni abbandonate a sensazioni tanto mute quanto deprivate dalla ricchezza che il lavoro del pensiero e lo scambio di parola – con altre e con altri – comportano.
Si sbaglierebbe d’altra parte se il libro di Zamboni fosse ritenuto, per malinteso femminismo di principio egualitario, un incitamento alla proliferazione tecnica di un lessico sessuato da immettere nella lingua in forza del genere grammaticale. Per intendersi, ridurre a convenzione linguistica gli effetti di presa simbolica che l’opera del pensiero ricava dalle pratiche agite in contesto. Senza il tempo della riflessione e senza lo spazio di parola per significarlo, l’agire umano perde il vivo senso della realtà a cui non viene restituito ciò che ha dato. Predominano facilmente e fatalmente il linguaggio-etichetta, lo slogan, il dogma congelato in certezza anche se travestiti da pomposi linguaggi specialistici. Il codice della lingua si sovrappone alle parole dei desideri, le sole mediazioni necessarie a non perdere il radicamento vitale delle singole esistenze. Adeguato al mantenimento dei dispositivi di potere che lo applicano (in alcune storiche circostanze addirittura lo impongono o lo hanno imposto), il freddo codice della lingua segnala, rispetto ai ruoli sociali, una gerarchia a dir poco bizzarra, per cui sono quest’ultimi a dar valore agli individui in carne ed ossa e non viceversa.

Il discorso di “Parole non consumate” si congeda dall’impasse del soggetto unico, cogitante e identico a se stesso, chiuso nella sua propria autosufficienza, a cui ha condotto l’impianto metafisico e gnoseologico della tradizione filosofica occidentale. La soggettività in Parole non consumate si decentra invece verso una posizione ‘ a latere’, da dove lo scarto esistente tra atto di pensiero e atto di parola risulta fertile alla trasformazione di sé e del mondo dall’interno del linguaggio-visto, quest’ultimo, quale abito dell’essere al mondo e nel mondo peculiare dell’essere umano.

Il movimento simbolico mette in moto qualcosa di meno e qualcosa di più che resiste al linguaggio assodato del codice. Non tutto ciò che è del cuore viene alle labbra. L’ampia parte riservata dallo studio di Zamboni sul linguaggio delle creature, elaborato da Walter Benjamin, chiarisce i contorni di tale spostamento. Ma ancor più illuminanti sono i passaggi di Chiara Zamboni che precisano il discorso sulla Lingua materna. Intesa non nell’accezione nazionalistica di madrelingua, bensì nella dimensione originaria in cui essere e Parola fanno la spola creaturale tra l’essere infante e la madre parlante.

Il congedo da un universo linguistico chiuso in se stesso apre ad altre modalità di pensiero e di parola. Partire da sé, sapere esperenziale, pensiero come movimento trasformativo fanno tessuto di filosofia. Essi indicano significanti non categorici cui dare libera significazione, differente per virtù dell’agire in fedeltà a sé e in relazione ad altre e ad altri. Essi lasciano agire la differenza sessuale sul piano politico-simbolico secondo una duplice onda: di resistenza all’inquadramento sistematico di cui la parola patisce l’oggettivazione e di singolare riscatto relazionale oltre la genericità del codice assoluto. Giacchè del linguaggio si parla dal suo interno – ossia con il linguaggio – e i suoi segni sono colti nell’esteriorità del corpo e dell’espressione verbale.
Senza dover travisare la sostanza di questo bel libro per un elogio del linguaggio del corpo, se di elogio si sottointende esso è piuttosto rilanciato alla vita della mente e alla materialità esperenziale che alimenta ed è, a sua volta, alimentata. Movimento simbolico-reale c’è quando una parola ci tocca; quando la parola – oggetto di sé – ci parla.
Ben al di là di una critica accademica alla pretesa universalistica implicita nei linguaggi dominanti e dello ‘specialismo’ che, non di rado, specificando forme di dominio millenario, il testo di Zamboni si articola in positivo, rivelando nell’asimmetria tra essere e linguaggio la condizione di possibilità offerta al corso per il libero senso di ogni esistenza.
“Come donne e uomini siano in gioco nel mondo” – si legge – “non è dunque oggetto di discorso, bensì è in primo luogo una interpretazione su di noi data dal linguaggio dominante e in secondo luogo- in conflitto con tale interpretazione – un senso che scopriamo e produciamo in un tessuto vivente del quale siamo parte”.
È un dire che ha a cuore ciò che sta fuori la definizione assertoria del logos oggettivante. Ha a cuore l’agire dei soggetti di discorso. E Chiara Zamboni ricorda che di donne e di uomini si tratta. Da loro e da lì il mondo della parola lascia baluginare ciò che non si consuma, giacché l’essere uno, unico e stabilmente identico cede al brillio dell’essere in divenire.

Monica Cerutti Giorgi

 

Stirner e l’individualismo

Potrebbe apparire improprio affermare che Enrico Ferri dedichi La città degli unici. Individualismo, nichilismo, anomia (Giappichelli, Torino 2001, pp. 460) esclusivamente a Max Stirner. Egli ci offre una più generale riflessione sul fenomeno giuridico-politico dell’individualismo.
Il volume parla del pensatore di Bayreuth; sia nella prima che nella seconda parte del libro Ferri propone una propria lettura stirneriana, che non si limita al solo celeberrimo L’unico; egli, infatti, si addentra in un’analisi di alcuni dei cosiddetti scritti minori, indicandone l’importanza per una più complessiva comprensione della speculazione di Stirner. Nel volume vengono qui riprodotti, oltre al una breve nota autobiografica di Stirner, Sulle leggi scolastiche, L’ingannevole principio della nostra educazione ovvero l’umanesimo e il realismo e A proposito de «La tromba del giudizio universale», tutti scritti sorti in seno al circolo berlinese dei Liberi.
Stirner va infatti collocato all’interno del dibattito della sinistra hegeliana; Ferri si occupa di tale movimento di pensiero filosofico-politico iniziando da Feuerbach e ci propone delle illuminanti testimonianze epistolari su Stirner: le lettere di Edgar Bauer e di Engels a Hildebrandt.
Di Stirner si parla, e in proposito Ferri si sofferma sulle interpretazioni che del pensatore tedesco sono state offerte: lo Stirner anticipatore/ispiratore di Nietzsche, lo Stirner visitato dalla destra (Mussolini, Evola, Schmitt e Jünger), nonché lo Stirner di Marx ed Engels.
Il San Max che domina L’ideologia tedesca, e senza la cui critica a Feuerbach, che, come sottolinea Ferri, venne ripresa e fagocita dai due socialisti scientifici, probabilmente non avremmo avuto quella rottura epistemologica che diede vita la materialismo storico.
Nel volume di Ferri si intrecciano almeno tre itinerari di ricerca. A questi non si poteva non aggiungere la questione relativa all’appartenenza o meno di Stirner al variegato mondo dell’anarchismo. Ferri, da prima, ricostruisce il pensiero dei teorici dell’anarchismo classico (in particolare Godwin, Proudhon, Bakunin e Kropotkin), riconoscendo come comuni denominatori dei loro itinerari speculativi l’idea dell’uomo non malvagio per natura, quindi un ottimismo antropologico che li contrappone alle costruzioni politico-filosofiche hobbesiane; il fermo richiamo all’autonomia, come capacità di autoregolazione insita nell’uomo a cui fa corollario la socialità, il rapporto con gli altri e non la solitudine è l’ambito della libertà. L’anarchismo classico si coagula altresì intorno al principio universalistico di eguaglianza. Questi principi sfociano nel più generale rifiuto di ogni principio di autorità eteronoma.
Per Ferri molti sono i punti in comune fra l’anarchismo classico ed il pensiero di Stirner (il rifiuto dell’eteronomia, la prospettiva dell’autoliberazione, il rifiuto della divinizzazione dei e nei rapporti sociali e così via). La critica alla società vigente è per così dire affrontata con le stesse armi. Diverso è invece il discorso riguardante la progettualità. “Mentre nell’anarchismo classico una società non organica, costituita sulla base del libero accordo e con caratteri solidaristici è vista come un’alternativa allo Stato, Stirner equipara la società e lo Stato e muove alla prima obiezioni assai simili a quelle portate al secondo”. In tal senso “l’individualismo stirneriano, a differenza di quello dei teorici dell’anarchismo classico, non mostra avere attitudini sociali, non ritiene come i secondi che l’individuo, sebbene avvia un valore in sé in quanto tale, possa pienamente dispiegarsi solo nella e attraverso la società, che quest’ultima sia l’ambiente e la forma di relazione che l’individuo si dà naturalmente”.
Il rifiuto stirneriano dell’idea di autoregolamentazione, sommato alla negazione del principio di autorità eteronomo, introduce nella Verein degli unici il conflitto come elemento endemico, “naturale”, negatore, quindi, del principio di solidarietà, proprio all’anarchismo classico. Ciò determina una frattura, probabilmente incolmabile, fra Stirner propugnatore della Verein ed il pensiero dell’anarchismo classico e lo avvicina, a parere di chi scrive, al cosiddetto anarco-capitalismo che vede per l’appunto nel fantomatico libero mercato (luogo utopico di conflitto) il garante ultimo della libertà.

Marco Cossutta

 

Il n. 4? Un Fest(a)val!

La possibilità, da parte di ogni potere, di controllare i canali mediatici è al centro delle disuguaglianze e delle tragedie che brutalizzano l’umanità.
Capovolgendo quei significati che sostengono un’integrazione nel mercato e che smorzano o negano ogni dubbio e dissenso sociale, abbiamo avviato il progetto ApARTe°. In un agire creativo anticonformista, critico e costruttivo, non astratto, in una creatività liberata pensiamo si possano trovare risposte utili per la riappropriazione di percorsi, anche politici, sempre negati.
Esistono, e sono sempre esistiti, archetipi di realtà anarchiche che si manifestano, anche, attraverso ciò che ci fanno pensare: ApARTe° vorrebbe essere una di queste realtà e questo proposito soffre come limitativo nell’essere delineato solo su carta.
Nei giorni 14, 15 e 16 settembre del 2001 abbiamo editato ApARTe°4. Un numero non stampato e letto, ma totalmente partecipato dal migliaio di persone che hanno decifrato quanto rappresentato e scritto da almeno 150 creativi. Un numero sostenuto dalla solidarietà, dall’intelligenza, dalla poesia, dalla forza muscolare di compagni e artisti che si sono riconosciuti nel progetto ed ai quali non può che andare il nostro affetto e ringraziamento, se ci servivano degli stimoli loro li hanno dati tutti.
Comunque: negli spazi di un parco di Bologna abbiamo montato la Prima Biennale di Arte & Anarchia; un fest(A)val che si componeva di installazioni, mostre di pittura, di arte postale, di fumetti. Dove sono state rappresentate performances, spettacoli teatrali e di cabaret; dove sono stati proiettati films e cortometraggi; declamate poesie ed eseguite musiche e canzoni; dove si sono tenute tavole rotonde e presentazioni.
Nei tre giorni (anzi quattro poiché siamo partiti il 13) si è venuto a creare uno spazio liberato, una insicura ma dinamica zattera di uguali (artisti e non pubblico) che si è saputa staccare da tutto quello che vuol rendere sacrale la creatività. Una zattera sempre più lontana da una cultura dove l’arte viene amata e promossa poiché è merce in un commercio che porta ricchezza e potere per pochi, dove le innovazioni vengono consentite solo se inefficaci a smantellare l’apparente necessità dell’integrazione nel Grande Fratello.
Una zattera non statica come una platea, che ha abbandonato l’usuale con la certezza di navigare e che, questo viaggiare da disertori, costruisce l’organizzazione dell’utopia possibile; che sobilla la creazione di altre migliaia di zattere progettate per migliaia di direzioni... via, contro e lontane dall’ottusità, dalla ferocia di ogni cella, dall’umiliazione delle costrizioni: verso il rispetto e la dignità.

Banda ApARTe


Chi volesse ricevere il pre-catalogo del Fest(A)val 2001 ed il manifesto può richiederlo versando lire 15.000 sul c.c.p. n°12347316 intestato a: Fabio Santin c/o ApARTe° c.p.85 succ.8, 30171 Mestre - Ve.
Allo stesso modo può essere attivato un abbonamento per due numeri di ApARTe° al costo di lire 50.000 ed oltre.