Rivista Anarchica Online


G8

Gli imprevisti di Genova
di Carlo Oliva

Lo straordinario successo della mobilitazione anti-G8 e, al contempo, i suoi limiti..

Forse, per discutere seriamente sui fatti di Genova, bisognerebbe cominciare con il togliere di mezzo quello su cui non si può che essere d'accordo. Come a dire, la sacrosanta denuncia della brutalità poliziesca, delle cariche inutili, dell'incursione alla Diaz, dei pestaggi a Bolzaneto e altrove, dei comportamenti violenti cui, senza apparente necessità, si sono abbandonati molti, troppi esponenti delle "forze dell'ordine" e della loro manifesta incapacità (ma forse sarebbe più esatto dire disinteresse) di far distinzione tra i manifestanti pacifici e le eventuali presenze violente. Che tutto ciò sia potuto accadere in Italia all'inizio del XXI secolo è indubbiamente una vergogna, ma non può essere una sorpresa per nessuno. Che un governo di destra insediato da poco e notoriamente ossessionato dal problema della propria immagine non potesse che impostare una gestione della piazza di quel tipo era quanto tutti avevano il diritto (e il dovere) di attendersi. Che all'interno dei molti corpi di polizia che allignano nel paese fosse largamente diffusa una cultura a basso contenuto di democrazia, lo sapevamo tutti, con la possibile eccezione di quei sostenitori dell'Ulivo che credevano che in cinque anni di governo della sinistra (diciamo così) le malepiante fossero state estirpate e il rapporto tra cittadini e polizie si improntasse ormai ai modelli idilliaci esibiti nelle più note serie televisive in materia. Che in questa situazione finiscano per esserci delle vittime, è un dato tragico, che trova ben più di un tragico e puntuale riscontro nella storia italiana dal dopoguerra in poi.
Insomma, è giusto e doveroso sforzarsi di definire i singoli comportamenti e le singole responsabilità individuali, cercar di capire cosa ci faceva il tal deputato in sala operativa e quale graduato, ufficiale o funzionario abbia o non abbia dato il tal ordine, ma l'analisi politica di quanto è successo, purtroppo, non è difficile. Al potere è solidamente insediata una destra molto meno moderata di quanto ami far credere ed era altamente prevedibile che un siffatto governo avrebbe dato mano libera all'apparato poliziesco che, a sua volta, avrebbe largamente approfittato di quell'avallo. Più imprevedibile, forse, è stata la reazione del "paese civile", la ribellione dell'opinione pubblica, di una consistente parte dei media e persino di qualche elemento della magistratura. Se un certo numero di cronisti si sono ostinati a riferire quanto avevano visto con i propri occhi, in evidente contrasto con i giudizi solennemente espressi dalle "firme" dei loro stessi giornali, se i comportamenti polizieschi più scandalosi non hanno goduto di un'immediata copertura giudiziaria, nonostante le forti pressioni in tal senso, vuol dire che la presa della destra sul paese è meno stretta di quanto i risultati elettorali possano far pensare. Ma questo, come i lettori di "A" sanno benissimo, è un altro discorso.
Tutto ciò premesso, bisogna ammettere che a Genova di imprevisti ce ne sono stati parecchi. E che le problematiche che questi imprevisti ci pongono sono forse maggiori e più complicate di quanto comunemente si creda.
Innanzi tutto, bisognerà ben decidersi a prendere in considerazione un dato che, chissà perché, si tende a dare per scontato, vale a dire lo straordinario successo della mobilitazione contro il G8. Un successo tanto più notevole, in quanto verificatosi in una situazione di generale ripiegamento delle forze di opposizione e in assenza, tutto sommato, di un vero e proprio movimento organizzato. Certo, tra le forze rappresentate nel Genoa Social Forum, di movimenti organizzati non ne mancano certo, e alcuni di essi vantano radici ramificate e un ampio insediamento sociale. Ma non era affatto scontata l'idea di una confluenza, tutto sommato, feconda, tra realtà tanto eterogenee, dai centri sociali al volontariato cattolico, dalle "tute bianche" alla "rete Lilliput". In quella vasta galassia, che, non per niente, ha scelto, per definire il proprio livello di autocorrelazione, un termine non troppo impegnativo e vagamente esoterico come "Forum", c'era e c'è di tutto: gruppi con pretese di rappresentanza politica generale e single purpose mouvements, emanazioni di partiti tradizionali e organizzazioni impegnate nell'intervento sociale diretto, estimatori della Tobin Tax e fautori della consegna di pasti caldi a domicilio agli anziani indigenti, utopisti estremi e profeti dell'uovo oggi, asceti e gaudenti, anarchici e boy scout. E tutti costoro si sono messi insieme, superando le immaginabili difficoltà e complicazioni, in nome di una parola d'ordine tutt'altro che di facile intendimento, quel no a una "globalizzazione" che moltissimi cittadini che seguivano la cronaca di quei giorni in TV si chiedevano cosa cavolo fosse.

 

Democrazia diffusa

Già, perché una cosa è protestare contro il G8, perché non è bello che i leader dei paesi più ricchi si arroghino il diritto di governare l'intero pianeta (anche se, naturalmente, le cose sono più complicate, visto che il G8 non rappresenta in toto la potenza economica mondiale, nel senso che ci sono paesi ricchi che non ne fanno parte, con un importante viceversa e c'è chi ne fa parte, come l'Italia, anche se non riesce a governare nemmeno se stesso) e un'altra è abbozzare un'analisi politicamente utilizzabile, sia pure in termini sommari, dei processi di globalizzazione. Che sia in corso una qualche forma di unificazione dell'economia e della gestione delle risorse a livello mondiale, con tutte le ricadute del caso sulla cultura dei popoli e le condizioni di vita delle comunità, è, naturalmente, un dato di fatto. Che questa tendenza sia un male in sé, tuttavia, è ancora tutto da dimostrare. Che vada bloccata o corretta (governata, come si dice più spesso) è argomento di acceso e articolatissimo dibattito. Discussioni del genere, naturalmente, a Genova non ne sono mancate, nelle giornate di convegno che hanno preceduto le manifestazioni del 19, 20 e 21 luglio, ma si è trattato in gran parte di un dibattito interno che non è stato ancora socializzato a livello di massa.
Quel che si è espresso a livello di massa in quei giorni, mi sembra, è un'ampia richiesta di democrazia diffusa, portata avanti a partire dall'analisi di certe contraddizioni caratteristiche della situazione contemporanea. Il che non è poco. È l'atto di nascita di un movimento nuovo, impegnato con il presente e abbastanza indifferente alle contrapposizioni ideologiche del passato, un movimento - quindi - capace di rappresentare un salto di qualità politica quanto mai necessario, non solo rispetto alla sinistra tradizionale, ma anche rispetto agli eredi della contestazione degli anni '70. Un movimento, però, che non ha ancora elaborato obiettivi e strategie comuni (ne ha a livello di singole componenti, ma questo, appunto, è il problema) e che per ora deve limitarsi, nonostante la forza che esprime e le novità che incarna, alla manifestazione simbolica (e, tutto sommato, abbastanza tradizionale) della propria esistenza. La necessità di essere a Genova in quei giorni non era determinata dalla volontà di esprimere un programma, che di fatto manca ancor oggi, e di indicare una strategia, che non è stata ancora elaborata: era la pura e semplice necessità di esserci, di contrapporre la realtà propria a quella istituzionale secondo i modelli già sperimentati con maggiore o minore successo da Seattle in poi. Dopo Seattle, e Davos, e Goteborg, non poteva non esserci Genova. Quel movimento, in definitiva, si è aggregato per imitazione di quelle esperienze, che ha conosciuto in gran parte per via mediatica, e si è posto un obiettivo di autotestimonianza che è stato in gran parte affidato ai media. I suoi gesti avevano, dunque, una fortissima valenza simbolica, nel senso che i suoi messaggi erano affidati ad azioni essenzialmente esemplari, prima tra tutte la dichiarata intenzione di eludere il divieto che voleva escludere i manifestanti da una parte della città. Che questo fine andasse perseguito in termini di sfondamento militare o di infiltrazione concordata è stato incerto fino all'ultimo (anche perché un'altra caratteristica delle aggregazioni di questo tipo consiste in una certa incertezza sulla natura e la collocazione delle istanze decisionali), ma che il clou della manifestazione dovesse individuarsi la penetrazione nella "zona rossa" non mi sembra sia stato messo in discussione da nessuno. E siccome, a questo punto, la "difesa" della zona rossa acquistava per le autorità un valore altrettanto simbolico, ecco che si erano poste tutte le condizioni per uno scontro di quelli tosti.
Il quale scontro, si sa, è stato complicato dalla (inattesa?) presenza dei vilains, i "cattivi", meglio noti come i Black Bloc, le temibili "tute nere", che, abbandonandosi a inconsulti atti di violenza contro le cose avrebbero, se non innescato, almeno giustificato la reazione poliziesca e i successivi eccessi repressori. L'opinione prevalente, ben attestata anche in alcuni interventi su questo numero di "A", è che costoro vadano considerati soprattutto dei terribili guastafeste e che il fatto che le fonti governative e poliziesche, ricorrendo a un repertorio di definizioni politiche fermo, più o meno, a un secolo fa, li abbiano prontamente identificati per "l'ala anarchica" del movimento rappresenti, in ultima analisi, un onore immeritato. Il fatto, innegabile, che le loro imprese siano state ben poco ostacolate dalle forze dell'ordine, dando adito al sospetto che tra loro non mancassero infiltrati e provocatori, ha contribuito alla diffusione di un giudizio severo. Alla polizia, in effetti, i portavoce del Forum hanno rimproverato soprattutto la dimostrata incapacità di fermarli.
Ora, non sarò io, a mettere in discussione questi giudizi, anche perché a Genova non c'ero e della dinamica degli eventi non ho esperienza diretta. Personalmente credo alla nonviolenza e ho già avuto occasione di scrivere, su queste pagine, cosa penso della disinvolta tendenza ad attribuire agli "anarchici" in quanto tali attentati poco chiari e azioni violente di incerta paternità e dubbia rivendicazione (qualche anarchico, ricordo, se n'era persino adontato, come se gli avessi dato dell'imbelle). Ma mi permetterò di far notare, senza alcun intento giustificatorio, che, almeno da un certo punto di vista la logica di questi casseurs, che hanno incendiato cassonetti, infranto vetrine, devastato agenzie bancarie e acciaccato automobili, non è poi così irriducibile alla logica generale cui il movimento si è attenuto a Genova. Anche quella di distruggere certi oggetti e devastare certi luoghi è un'azione eminentemente simbolica. Se il problema è quello di affermare, e segnalare per via mediatica, la propria esistenza, be', qualcuno convinto che un cassonetto in fiamme serva allo scopo meglio di cento cortei lo si troverà sempre. Il ragionamento può sembrare di corto respiro, nonché abbastanza controproducente, ma non a tutti gli dei hanno concesso il dono della perspicacia.
Naturalmente, per evitare in futuro esiti di questo tipo, non basta pretendere che tutti, d'ora in poi, si impegnino a fare i bravi ed è assai dubbio, come insegna l'esperienza degli anni '70, che ci si possa affidare con successo ai servizi d'ordine. La via non può essere che quella dell'approfondimento sempre più puntuale delle analisi, della definizione di obiettivi e strategie che non si esauriscano nella contrapposizione pura e semplice. I gesti esemplari sono importanti, ma da soli servono a poco. Far coincidere il proprio scadenzario con la successione delle manifestazioni istituzionali cui esprimere la propria ostilità non porta da nessuna parte. Il rischio è quello di trovarsi impegolati in un dibattito di natura desolatamente ideologica (com'è, in definitiva, quello sulla violenza). Il che, per un movimento che è cresciuto sul rifiuto degli steccati ideologici tradizionali, non sarebbe l'ultimo degli imprevisti.

Carlo Oliva