Rivista Anarchica Online


teatro

Parola e libertà
di Fernanda Hrelia

Creazione letteraria nelle carceri della dittatura argentina: la proposta di Carlos Liscano.

Quando Carlos Liscano mi ha mandato da Montevideo alcune sue opere teatrali, ho cominciato a leggere questi testi vedendo immediatamente i personaggi muoversi ed agire. Non succede spesso che una scrittura proponga delle figure così vive che riescano ad uscire subito dalla pagina e a stimolare una loro interpretazione. Così mi sono messa a lavorare alla traduzione di tre monologhi, El escopetero, Cambio de estilo e El informante, che presentano situazioni diverse, con l’idea di riunirli in uno spettacolo. Realtà immaginarie è il titolo scelto per il lavoro, giacché nella dimensione dell’ossimoro si trova parte della produzione di questo autore e stranamente ha marcato anche le sue vicende personali.
Carlos Liscano a ventitré anni è recluso nel “Cárcel de Libertad” (perché Libertad è il nome della città vicina alla prigione!); qui vi è rimasto come detenuto politico per tredici anni durante la dittatura militare uruguayana. Inizia a scrivere in carcere e anche se la sua creazione letteraria può essere inquadrata nel genere conosciuto come literatura carcelaria, che raggruppa diversi autori latino americani e uruguayani in particolare, segnati dall’esperienza della prigionia, della tortura e dell’esilio, la sua scrittura presenta comunque molti tratti originali, e crea un discorso autonomo e peculiare che si muove all’interno di formule tradizionali ma che è anche portato alla sperimentazione.
Carlos Liscano scrive senza dubbio per cercare di sopravvivere alla sua condizione e alle vessazioni a cui è continuamente sottoposto; si è impegnato a far diventare motivo di letteratura la prigionia e questa necessità narrativa significa trovare nella parola l’atto liberatorio di cui aveva bisogno. E’ un modo per rompere l’isolamento e lottare contro la disintegrazione.

 

Parlare con se stesso

Nel 1981 scrive il suo primo romanzo, La mansión del tirano; questa prima versione è sequestrata dalle autorità. La seconda è del 1985, quando può uscire dal carcere grazie all’ultima amnistia che libera gli ultimi prigionieri politici nel suo paese. In carcere scriverà ancora un romanzo, molti racconti e poesia, opere che saranno pubblicate successivamente in Svezia, dove Liscano vivrà poi da esule per dieci anni.
Eppure lo scrivere non è solo per lui un’elaborazione letteraria del proprio vissuto, neanche solo un tentativo di fuga o un atto di resistenza. Senza trascurare, naturalmente la denuncia come dato implicito della sua letteratura, bisogna considerare lo scrivere soprattutto come volontà di dare una svolta creativa al dolore e vincere la repressione opponendo ad essa la propria fertile esistenza.
In carcere le parole acquistano un valore diverso da quello che hanno nel loro uso normale; il tentativo di impedire la parola tra i prigionieri e negare ogni forma di comunicazione, è un altro aspetto della tortura, significa reprimere uno dei fondamentali atti dell’essere umano. Reprimere la parola risponde al tentativo di ridurre le persone ad una condizione animale. Nella quotidianità del carcere ogni parola, anche la più banale, diventa prezioso simbolo humanizador.
Nella traduzione bisogna tener conto di questo; lavorando su questa drammaturgia, si capisce che qui la scelta di ogni parola non è mai casuale, sottende a volte l’urlo, a volte un sussurro, una smorfia, un’esitazione piena di pudore, riassume uno stato fisico, supplisce anche alla negazione e all’umiliazione del corpo. Elementi questi che devono essere poi indicati e riconsiderati da chi interpreta queste parole, costruendo una situazione scenica spoglia di elementi scenografici e tutta invece, concentrata sul personaggio, in equilibrio fra il dramma e la beffa.
Sì, perché c’è un altro elemento, forse il più importante che caratterizza questa scrittura: l’umorismo vissuto come salvezza, come disposizione per superare emotivamente uno stato drammatico. L’autore, prigioniero, ride di se stesso, rivede la sua vita in chiave comica e con questo stesso strumento ride dei suoi carcerieri, del loro agire, del loro linguaggio, della loro sinistra retorica. Liscano sa creare così situazioni drammaticamente divertenti con tono dissacrante e assurdo.
E’ stato detto che Liscano come autore non si è liberato dalla prigione (Oscar Brando, Carlos Liscano: la poética de la soledad, ed. Deslindes), e certamente è un autore che si confronta continuamente con la sua solitudine. Per chi da troppo tempo è stato abituato a parlare solo con se stesso, è quasi inevitabile. Anche il ritorno alla libertà comporta un processo di sofferta integrazione, che si compie attraverso un percorso solitario:
Uscendo dal carcere mi sono reso conto di alcune cose, alle quali non avevo mai pensato. Ho capito che la società rispetta lo spazio che uno ha saputo guadagnarsi. Il lavoro che siamo riusciti ad ottenere, la famiglia che ci siamo creati, le amicizie che coltiviamo, la casa e i vicini che abbiamo. E io non avevo niente. (…) Non c’era niente che avessi creato io. Ero ad un livello zero. Ero come un bambino ma non lo ero. Avevo 36 anni compiuti, e inoltre ero considerato una persona che aveva una certa posizione politica. Ma io sentivo che non era così. Sentivo che non potevo avere opinioni politiche senza avere una vita. (…) Io mi sentivo debole, molto fragile. Per attraversare la strada, mia sorella doveva prendermi per mano. Non sapevo usare i soldi. Una volta per pagare l’autobus ho tirato fuori ventimila pesos. Non sapevo usare il telefono pubblico. Non avevo documenti, non avevo casa, non avevo un lavoro. (Dall’intervista Quizas yo mismo llegue a ser mi casa di M.E.Gilio in Brecha, 18.08.1989, traduzione di Fernanda Hrelia.)

 

L’ipocrisia della società

Liscano, dai suoi esordi di narratore e poeta, “scopre” il teatro in Svezia; lavora come assistente alla regia presso il Teatro Reale e Nazionale di Stoccolma. Le sue prime opere teatrali saranno messe in scena in Svezia, prima di essere rappresentate e premiate in Uruguay, Argentina, Francia e Svizzera.
La dimensione teatrale lo porta a creare una situazione fisica e spaziale molto concreta per i suoi personaggi di emarginati, che, come moderni pícaros, dai margini criticano ed evidenziano le incongruenze e le ipocrisie della società che li esclude, e, dal punto di vista personale il teatro gli permette di rapportarsi con gli altri in maniera diretta, con gli interpreti dei suoi testi e con un pubblico presente alla rappresentazione di queste storie. L’autore non è più solo.
Come anche nella sua narrativa, i personaggi del suo teatro hanno un’identità scissa; hanno vissuto la perdita dell’autostima, si misurano con frustrazioni continue, ma non hanno perso la coscienza critica. Il margine è inevitabilmente il loro spazio, uno spazio-discarica dove a volte il personaggio, vittima dell’esclusione, si ripiega ma da dove anche osserva e giudica.
Ne El escopetero (L’uomo col fucile), attraverso la rappresentazione di un uomo alla deriva, si parla di un fallimento che non è solo individuale, ma anche generazionale. Nella delirante sfilata di personaggi evocati dall’Uomo col fucile - una categoria umana senza più nome - troviamo deformata un’esigenza di giustizia. Questo essere che si sente inutile e di troppo sul pianeta, si è costruito un illusorio strumento di rivalsa: il fucile mentale, che gli permette di eliminare col pensiero tutto ciò che non gli va. Ed è nel fragore delle fucilate mentali che si consumano le sue giornate senza possibilità di soluzione.
Un modo non convenzionale per parlare di emarginazione e degradazione è anche quello di Cambio de estilo (Cambiamento di stile), un gioco ironico, in cui il personaggio arriva ad un punto della sua vita in cui è chiamato a fare una scelta decisiva: conviene continuare ad essere un idiota o è meglio diventare un hijo de puta? E il suo racconto ha l’ossessività di un disco rotto e ossessivi sono i suoi gesti da clown stralunato.
El informante (Il confidente) propone una situazione in bilico fra realtà e illusione per un prigioniero, che deve stendere dei rapporti se vuole sopravvivere. Non importa cosa deve scrivere, l’importante è che scriva. Così attraverso le sue “Composizioni” può crearsi un mondo parallelo, in cui anche la masturbazione diviene un motivo comico, e in cui ha la libertà di affermare che questo paese è una merda.
Sono insomma Realtà immaginarie quelle di questi personaggi che si muovono in situazioni paradossali ma verosimili, figure di marginali dai tratti realistici e grotteschi al tempo stesso.
Della sua drammaturgia vorrei ancora ricordare Los idiotas dalle atmosfere beckettiane, Mi familia, in cui una famiglia oppressa dalla miseria è costretta a vendere via via i membri del proprio nucleo famigliare per comprare frigoriferi e televisori, Retrato de pareja sull’incomunicabilità nella coppia, formata da una donna e da un fantoccio.
E’ anche per avere un’idea più completa e reale delle molteplici e diversificate esperienze letterarie, drammaturgiche, teatrali e artistiche del continente sudamericano, che sarebbe auspicabile la traduzione e la diffusione delle opere di Carlos Liscano, originali testimonianze di una personalità ricca di esperienze e fantasia, intelligente interprete delle assurdità e delle atrocità dei nostri tempi.

Fernanda Hrelia


Carlos Liscano
Nato a Montevideo nel 1949, è arrestato nel 1972 e detenuto per reati politici. Esce dal carcere nel 1985 e si trasferisce in Svezia, dove vive fino al 1996. Comincia a pubblicare dal 1987; esce la raccolta di racconti El método y otros juguetes carcelarios, il romanzo La mansión del tirano e il libro di poesie ¿Estará no más cargada de futuro?, opere queste concepite durante la lunga prigionia. Vengono pubblicate successivamente Memorias de la guerra reciente, romanzo del 1988 (Premiato dall’Istituto Italiano di Cultura di Montevideo) e i racconti Agua estancada y otras historias (Premio Nazionale della Critica Uruguayana).
In Svezia lavora come assistente alla regia presso il Teatro Nazionale e il Teatro Reale di Stoccolma; tornato in Uruguay lavora come giornalista a El País Cultural e al Semanario Brecha di Montevideo, qui fonda e dirige la rivista Papeles de Montevideo. E’ direttore letterario delle “Ediciones Trilce” e attualmente vive tra la Spagna e l’Uruguay.
Tra il 1993 e il 2000 pubblica il romanzo breve Una pequeña historia policial, le raccolte di racconti El Charlatán (Menzione al Concorso di Narrativa indetto dalla città di Montevideo), El acompañante, Versiones, Hombre con paraguas, El informante, il libro di poesie Miscellanea observata, il romanzo El camino a Itaca (Premiato dal Ministero della Cultura dell’Uruguay).
Intensa anche la produzione di testi teatrali, quasi tutti pubblicati, rappresentati e tradotti: El informante, Retrato de pareja, Cambio de estilo, La subvención, Los idiotas, Mi familia (Premio per il Teatro della città di Montevideo), Un ciudadano que trabaja y cumple con su deber, El escopetero. Alcuni testi sono stati messi in scena in Europa, in Francia, dove ha partecipato a diversi festival, in Svezia, in Svizzera oltre che in Uruguay, Argentina e Guatemala.
In italiano sono stati tradotti: Mi familia, nell’ambito della manifestazione “Oltre Babele Euramerica, Incontri con la traduzione drammaturgica contemporanea latino americana” (Firenze 1998- traduzione di Elina Patané), El escopetero (monologo pubblicato su “SIPARIO” n°601/602, 1999), Cambio de estilo e El informante. Questi tre monologhi sono stati riuniti nello spettacolo Realtà immaginarie con Adrián Bustamante, regia di Fernanda Hrelia, presentato in prima nazionale nel 1999 presso il Teatro Miela di Trieste. El escopetero (e parte del monologo El informante) è stato successivamente rappresentato dalla compagnia Teatro della Centena di Rimini, con l’interpretazione di Maurizio Argan per la regia di Davide Schinaia.

F.H.