Rivista Anarchica Online


attenzione sociale


diario a cura di Felice Accame

Santi e banchieri

 

Nel bel libro che Alessandro Zaccuri ha dedicato alla presenza della letteratura nel cinema contemporaneo (Citazioni pericolose, Fazi, Roma) si parlava, fra ironia e no, di "tomisti della Squadra Omicidi". Ci si riferiva all'inverosimile metodo con cui i detectives del lugubre Seven (diretto da David Fincher nel 1995) individuavano il serial killer di turno – attingendo agli elenchi di chi, alle biblioteche pubbliche, chiedeva in prestito volumi dell'opera peraltro monumentale di Tommaso d'Aquino, santo e dottore della Chiesa.
Alla stessa stregua, si potrebbe ora parlare dei "tomisti della Banca d'Italia". Allorché il "governatore" Fazio decide di dirne una – tanto per sostenere il ministro dell'Economia nelle beghe sue e nelle disgrazie tutte nostre –, infatti, cerca il conforto di un fondamento etico e lo trova in quell'opinione di Tommaso seconda la quale "la società" si reggerebbe "sulla verità".
Tommaso d'Aquino - che è nato con qualche dubbio nel 1224 ed è morto nel 1274, figlio cadetto, forzato in abbazia dalla famiglia fin da quando aveva cinque anni, quindi domenicano a tutti i costi – ha fra il tanto d'altro anche scritto un De Veritate (fra il 1256 e il 1259), ma in materia, nonostante la sfilza di certezze da cui era animato, ha avuto i guai suoi. Falsificando ancor di più quel poco che rimaneva da falsificare del pensiero di Aristotele, s'inventò una dottrina della Chiesa che, appena tre anni dopo la sua morte, gli fu severamente contestata. La sua riabilitazione dovette attendere papa Leone XIII – quello della condanna del socialismo (nella Quod apostolici del 1878) e quello della condanna della lotta di classe (nella Rerum novarum del 1891 e nella Graves de communi re del 1901).
Nella sua Storia criminale del cristianesimo (oggi giunta al secondo dei suoi dieci volumi in italiano grazie ad Ariele editore in Milano), Karlheinz Deschner ricorda Tommaso, tuttavia, come colui che considerava "il desiderio di conoscenza" come una "forma di peccato", almeno fin quando questa non fosse finalizzata alla "conoscenza di Dio". Possesso della verità – e, prima ancora, sua esigenza – e rifiuto della "conoscenza" possono, allora, coesistere pacificamente nell'ineffabile regno del pensiero.

Fatto è che la verità di cui parlano i potenti – santi o banchieri che siano, filosofi comunque – è una verità da "adequatio", ovvero una verità che proverrebbe dall'impossibile confronto fra le "cose come stanno" e le "cose come le vede qualcuno", dimenticando che, sempre e comunque, le "cose come stanno" sono viste da qualcuno. I potenti, insomma, sono inguaribili realisti - come tutti i filosofi che, deglutendo ogni autocontraddizione, li servono.
I termini dello scontro sono chiari. Da una parte c'è il Vangelo di Giovanni (8, 31-32), laddove fa dire a Gesù che chi persevererà nella sua "parola" saprà la "verità" e dall'altra c'è, per esempio, Heinz von Foerster il quale dice che La verità è l'invenzione di un bugiardo (già nel titolo di un suo libro di prossima pubblicazione da Meltemi in Roma). Così l'appassionato di verità può, al contempo, condannare la conoscenza e screditare qualsiasi impresa scientifica: ciò che gli serve gli è rivelato, lo trova già fatto, autorevole di per sé, perché darsi tanto da fare per costruirselo da sé ? Meglio subordinato che autonomo, meglio schiavo che padrone. È una scelta – quando è una scelta. Purtroppo, invece, perlopiù è una condizione d'inconsapevolezza.

Felice Accame