Rivista Anarchica Online


potere

Per mancanza di prove
di Massimo Ortalli

All'assoluzione di Giulio Andreotti sul piano giudiziario non corrisponde un'analoga sentenza sul piano storico. La lucida analisi di Nicola Tranfaglia, anzi, conferma che...

"Le condotte poste in essere dal sen. Andreotti nei confronti del Sindona tuttavia potrebbero integrare la fattispecie della partecipazione all'associazione di tipo mafioso soltanto qualora assumessero significatività e concludenza in termini di affectio societatis, denotando l'adesione dell'imputato al sodalizio criminoso. È rimasto invece non sufficientemente provato che il sen. Andreotti, al momento in cui realizzò i suindicati comportamenti suscettibili di agevolare il Sindona, fosse consapevole della natura dei legami che univano il finanziere siciliano ad alcuni autorevoli esponenti dell'associazione mafiosa".
Se riusciamo a non farci impressionare dalla pesantezza stilistica, in queste poche emblematiche righe estratte dalla conclusione riassuntiva della sentenza con la quale il tribunale di Palermo ha mandato assolto Giulio Andreotti dall'accusa di associazione mafiosa, troviamo racchiuse non solo le vicende di uno degli uomini più potenti d'Italia e del partito che ci ha governato per cinquant'anni, ma anche - come vedremo - le note caratteristiche se non essenziali che formano l'identità collettiva del nostro paese. Traducendo dal "giuridichese", infatti, si viene a sapere che il motivo della osannata assoluzione del senatore a vita non deriva, come ci si potrebbe aspettare, dalla provata estraneità a frequentazioni mafiose, ma dal fatto che i suoi comportamenti, pur se sovrapponibili a quelli del più tradizionale e malavitoso degli uomini d'onore, non sono sanzionabili in quanto privi di un riscontro probatorio. Mancano, in parole povere, le prove di una sua adesione formale a Cosa Nostra (ossia, come sembrerebbe di capire, cose come una tessera di iscrizione alla cosca di Partinico, la ricevuta di versamento su un conto corrente postale indirizzato a Provenzano, la foto ricordo del famoso bacio con Riina, ecc.).
Anche se stigmatizzata dai giudici, dobbiamo quindi accettare come ragionevole l'ipotesi secondo la quale nel 1982, quando tutti eravamo già stati informati dalle numerose commissioni d'inchiesta parlamentari che Michele Sindona era da considerarsi uno fra i più potenti e pericolosi mafiosi d'Italia e d'America, oltreché un collaboratore della Cia e dei servizi segreti, un trafficante di stupefacenti (relazione della DIA americana degli anni settanta), un truffatore e un imbroglione intento a riciclare i soldi della mafia e del traffico di droga, ebbene allora il pluriministro e sette volte presidente del consiglio Andreotti poteva ragionevolmente essere l'unico italiano rimastone all'oscuro. E di conseguenza, essendone all'oscuro, non erano penalmente sanzionabili i suoi reiterati tentativi di evitare all'impresentabile socio e amico in difficoltà l'onta del fallimento doloso e dell'arresto. Evidentemente questi tentativi vergognosi e felloni, messi in atto dall'incensatissimo "uomo di stato" che utilizzava per finalità private gli strumenti e le conoscenze consentitigli dal suo privilegiato ruolo istituzionale, non potevano essere considerati equivoci in quanto erano dettati esclusivamente dalla sua nota sensibilità cristiana.

Come un'onta

Muovendo da simili considerazioni, quelle cioè dello studioso che riesce a sottrarre il giudizio complessivo su un'epoca e su un personaggio alla contingenza dei fatti, per collocarlo nell'ottica ad ampio raggio della prospettiva storica, Nicola Tranfaglia offre alla riflessione collettiva un prezioso pamphlet (La sentenza Andreotti. Politica, mafia e giustizia nell'Italia contemporanea, Garzanti, 2001) nel quale analizza con acume la discrepanza creatasi fra il giudizio del giudice e quello dello storico. Il primo costretto ad assolvere il senatore a vita, alla luce delle risultanze di cui sopra, quasi per "insufficienza di prove"; il secondo che, godendo del privilegio di poter leggere gli avvenimenti da una visione spazio-temporale meno limitata, non può esimersi dal dare un giudizio inequivocabilmente negativo del disonesto comportamento che l'eterno uomo di fiducia di mafia e Vaticano ha tenuto in cinquant'anni di vita pubblica ed istituzionale.
Quando, al termine del processo palermitano, l'ex capo di stato fu clamorosamente assolto dalle accuse di collusione con la mafia e dalle chiamate di correo mossegli da decine e decine di "collaboratori di giustizia", la stampa e gli organi di informazione quasi all'unanimità salutarono la sentenza con un sospiro di sollievo e proclamarono, con un'enfasi degna di miglior causa, che l'assoluzione era la definitiva liberatoria da qualsiasi sospetto che potesse appannare l'onorabilità dell'uomo. Lo storico Tranfaglia invece, non accontentandosi delle semplificazioni giornalistiche, ha fatto una cosa che penso nessun altro abbia fatto, e si è assunto l'eroico compito di leggere le 4.000 pagine della sentenza e di pubblicarne le cinquanta conclusive, nelle quali i giudici palermitani riassumono sinteticamente le risultanze processuali. Da questo suo lavoro esce un quadro completamente diverso da quello offertoci in precedenza e già ampiamente metabolizzato dall'opinione pubblica: appare chiaro, infatti, che la sentenza non è affatto un nuovo fiore da mettere all'occhiello del vecchio politico ma è, al contrario, un giudizio, politico e morale, che qualsiasi persona perbene patirebbe come un'onta. Le pagine dei giudici sciorinano infatti impietosamente una continua sequenza di dubbi, ma questi, pur essendo pienamente pertinenti, non riescono a concretizzarsi in momenti penalmente rilevanti, anche se la logica e la lettura complessiva conducono a una sola conclusione.
Emerge quindi, in tutta la sua squallida evidenza, che il vero merito di Andreotti è stato semplicemente quello di... non lasciare tracce della propria colpevolezza. Altro che estraneità alle cosche o lotta alla mafia! Qui ci sono presentati esempi su esempi della capacità del "divo" Giulio di intrallazzare e costruire le proprie fortune politiche non solo con l'appoggio della chiesa ma con quello quasi altrettanto potente di Cosa Nostra, evitando con diabolica accortezza di seminare prove. Come per l'ultimo dei malandrini, quello che più l'ha impegnato non è stato solo sviare il giudizio negativo che poteva colpire i suoi comportamenti pubblici e privati, ma anche fare in modo che tali comportamenti non offrissero il destro giudiziario per spedirlo in galera.

Nessun bacio, ma...

A proposito della frequentazione (conosciuta da tutti ma negata dall'imputato anche contro l'evidenza) con i cugini Salvo, potenti esattori privati e pubblici uomini d'onore finiti uccisi dai loro compari, i giudici palermitani scriveranno: "È prospettabile l'ipotesi secondo cui alla base dell'assoluta negazione, da parte dell'imputato, dei propri rapporti con i cugini Salvo, vi sarebbe una precisa consapevolezza del carattere illecito di questo legame personale e politico. Ma è del pari prospettabile l'ipotesi che il sen. Andreotti con il suo contegno processuale abbia solo cercato di evitare ogni appannamento della propria immagine di uomo politico, adoperandosi tenacemente per impedire che nell'opinione pubblica si formasse la certezza dell'esistenza dei suoi rapporti con soggetti quali i cugini Salvo, organicamente inseriti in Cosa Nostra". La stessa sfacciata e offensiva improntitudine gli viene contestata dai giudici di fronte alle ripetute dichiarazioni di non aver mai avuto sentore dell'affiliazione mafiosa del potentissimo capobastone, pardon, capocorrente andreottiano in Sicilia Salvo Lima, referente privilegiato del senatore nell'isola fino al giorno in cui, per mano dei suoi "amici", finì morto ammazzato in una strada di Mondello. E anche nel caso dell'ex sindaco palermitano Vito Ciancimino, quello secondo il quale la mafia (cui risultava pubblicamente affiliato fin dal 1962) era un'invenzione dei giornalisti del nord, il candido e virgineo Andreotti si sforza di farci credere che i loro rapporti erano solo di natura politica, dovuti al fatto che Ciancimino era diventato alleato di Lima. Rispetto al famoso bacio scambiato con Riina, mi sento invece di dare ragione al senatore, ma solo perché, seguendo il precetto andreottiano che a pensar male si fa peccato ma ci si prende, viene da pensare che l'improbabile episodio sia stato inventato solo per rendere incredibili anche le altre, per altro credibilissime, accuse.
Dopo aver dunque notato come la sentenza abbia sostanzialmente fatto un grande passo indietro rispetto alle modalità con le quali vengono giudicati i reati di mafia e di associazione mafiosa, ripristinando una giurisprudenza ormai sorpassata, che evita di formulare giudizi sulla associazione a delinquere di stampo mafioso (dalla quale Andreotti difficilmente avrebbe potuto essere assolto) per ricercare invece responsabilità penali rispetto ai singoli reati separati, Tranfaglia affronta la questione centrale dell'intera vicenda con queste illuminanti parole: "da una parte si accumulano indizi e prove indirette, dei suoi rapporti con esponenti di rilievo della mafia; dall'altra l'imputato nega tutto, anche le cose più evidenti e si trincera dietro una versione assai poco verosimile, ma difficile da dichiarare giudizialmente falsa (giacché l'accusa non riesce a dimostrare in maniera assolutamente certa gli incontri con l'uno o l'altro mafioso, in un determinato giorno, ora o luogo)".

Furbo e sgamato

Nelle prime righe di questo articolo dicevo che la vicenda Andreotti non riguarda solo il senatore a vita e il suo partito, ma è anche emblematica della nostra società. Penso infatti che il carattere di Andreotti, come emerge con ignominia dalla lettura della sentenza di Palermo, si identifichi perfettamente con il prototipo dell'italiano medio a cui ci ha abituati una certa letteratura: il personaggio del furbo e dello "sgamato", che con il rigore morale potrebbe risuolarcisi le scarpe, figura distante mille miglia dal nostro modo di sentire, ma che se riesce a farla franca, a furia di inganni e bugie, qualunque sia la sua colpa, diventa automaticamente una persona da ammirare e da prendere a modello. Ci è parso esemplare, al proposito, il momento in cui, all'ultimo meeting riminese di Comunione e Liberazione, il Senatore, fra l'esaltato tripudio di quei giovani esagitati, ha passato il testimone di beniamino (seppure con qualche reticenza) al Cavaliere. Come sempre i nostri cari ciellini si dimostrano quanto mai attenti e sensibili ai cambiamenti in atto nella società, e infatti dimostrano di aver perfettamente compreso come la declinante parabola umana e politica di Andreotti potrebbe un domani perpetuarsi in quella di Berlusconi: due uomini ambigui e chiacchierati che prendono in mano gli incarichi istituzionali all'insegna di una arrogante spregiudicatezza, perseguendo con lo stesso impegno gli interessi del paese e quelli privati... naturalmente finché i primi non vengano ad intralciare i secondi.
Comunque non sono stati solamente i fans ciellini a tirare un profondo sospiro di sollievo quando la sentenza palermitana ha definitivamente messo una pietra tombale, oltre che sulle peripezie giudiziarie di Andreotti, anche su anni e anni di inchieste, denunce e indagini sul sistema malavitoso che ha caratterizzato gran parte della politica italiana. Sostenuta da un'opinione pubblica sostanzialmente affine se non identica, un'intera classe politica, omertosa perché direttamente complice o perché colpevolmente latitante sul piano della denuncia, ha giustamente inteso la conclusione del procedimento palermitano come la fase finale di un processo di autoassoluzione generale. E poco importa se nelle pagine della sentenza emergono giudizi trancianti sulla moralità di Andreotti e di una intera classe politica che dagli scranni del governo, quando non anche da quelli dell'opposizione, ha permesso che non solo in Sicilia ma anche a Roma un sistema criminale, protetto e patrocinato da uno dei suoi più alti esponenti, incancrenisse l'intera società.
Un'assoluzione per mancanza di prove, dunque. Certamente! L'unica del resto a cui il divo Giulio e tutti i suoi compari, romani e non romani, potessero aspirare.

Massimo Ortalli