Rivista Anarchica Online


militarismo

Il sapore della libertà
di Maria Matteo

L'anarchia è come la cucina: il sapore dei piatti non si può assaggiare sulla carta, occorre mettersi ai fornelli e cucinare.

Chi non vota si preclude la possibilità di scegliere. Chi si astiene è un irresponsabile che si disinteressa del bene comune. Se non ci vai, vinceranno le destre. Il voto è espressione di libertà.
Quante volte vi sarà capitato di sentire considerazioni come queste in prossimità di una consultazione elettorale? Quante volte chi, come me, a votare non è mai andata si è sentita dire che quella del non voto non era una scelta, ma un semplice tirarsi fuori dalla mischia, una fuga dall'agone politico, un'autoesclusione elitaria ed ineffettuale? Anche all'interno della sinistra più estrema, costituzionalmente extraparlamentare, le ragioni dell'astensionismo anarchico sono spesso state mal capite o, comunque, rifiutate. L'astensionismo per la maggior parte di questa sinistra di matrice autoritaria era, ed è tuttora, considerato una scelta tattica, una forma di pressione nei confronti delle "mollezze" e dei "cedimenti" della sinistra parlamentare, ieri del PCI, oggi dei suoi numerosi eredi. Sebbene negli ultimi anni il sistema elettorale maggioritario abbia eliso le sfumature, trasformando le sfide elettorali in scontri tra grandi, anche se eterogenee, coalizioni, tuttavia il quadro non è mutato granché.
L'estendersi sempre più marcato dell'area del non voto non è infatti indicativo di un diverso atteggiamento nei confronti dei meccanismi democratici ma segnala, al più, un progressivo estenuarsi della passione civile, una vieppiù netta disaffezione nei confronti della cosa pubblica, che fa da contrappunto alla sostanziale specularità dei due grandi schieramenti, al loro appiattirsi gli uni sugli altri. Giocata interamente attraverso i moduli tipici della pubblicità mostra in modo del tutto efficace l'esaurimento delle tensioni ideali ed il ridursi della politica ad un mercato in cui vince chi meglio vende la propria immagine, indipendentemente da programmi e proposte che appaiono sempre più fumosi, impalpabili, interscambiabili.

 

Un paradosso dalle radici profonde

Eppure, nonostante il gioco democratico oggi si mostri nella poco plausibile veste dell'operetta tragicomica, il mito democratico resiste, tenace. La compravendita delle poltrone, il farsi e disfarsi repentino di alleanze, partiti, coalizioni, i faccioni insolenti dei candidati che ammiccano dai muri tra cartelloni che vendono bibite, hamburger e detersivi basterebbero, da soli, a persuadere chiunque dell'opportunità di astenersi dal partecipare a questa risibile sceneggiata. Eppure, specie a sinistra, c'è chi continua a credere nelle virtù salvifiche della democrazia.
Più la democrazia stessa pone in atto gli elementi cardine della propria delegittimazione più tanti tra i critici dell'assetto politico e sociale dominante si ancorano alla democrazia come valore. È un paradosso dalle radici profonde. Dopo la fine del mondo bipolare, segnata emblematicamente dal crollo del muro di Berlino, la democrazia (ed il capitalismo) hanno celebrato la propria vittoria. Il futuro, dopo l'89, ha assunto le sembianze di un grande supermarket in cui le merci e le idee potevano venire "liberamente" scambiate. Inutile dire che il gioco è truccato perché solo una minoranza del pianeta possiede la fiche per partecipare; superfluo sottolineare che, anche, giocando, la partita porta guadagni soprattutto al banco. È un fatto notorio, universalmente conosciuto e riconosciuto ma, dai più, considerato ineluttabile. In questa prospettiva prevale l'opinione che questo non sia il migliore dei mondi possibili, ma semplicemente il meno peggiore, se non, spesso, l'unico possibile. Persino i movimenti più radicali dell'ultimo scorcio del secolo e dell'alba di quello nuovo paiono confermare l'imporsi senza apparente via d'uscita di un mondo ad una dimensione, le cui coordinate sono tracciate dal mercato di beni e servizi e da quello delle idee. Dal capitalismo e dalla democrazia. Anzi, per meglio dire, da un megastore ove i confini tra i due ambiti divengono sempre più sfumati, quasi inintelligibili.
Buona parte del cosiddetto "popolo di Seattle" non annovera tra le proprie fila fautori della rivoluzione sociale, sostenitori dell'autogoverno, propugnatori dell'autogestione, ma, banalmente, onesti democratici. Bravi ragazzi convinti che sia sufficiente "democratizzare" organismi quali la Banca Mondiale o l'Organizzazione Mondiale del Commercio per porre le basi di un mondo più giusto, per ridurre la diseguaglianza, per garantire a tutti accesso alle risorse, al sapere, alla possibilità di decidere. In una parola la democrazia come panacea per realizzare un capitalismo dal volto umano, per far sì che questo mondo, l'unico mondo possibile, sia una po' migliore. Lo slogan più diffuso da qualche mese a questa parte "un altro mondo è possibile" allude alla riformabilità dell'esistente non certo alla concreta prospettiva di una sovversione radicale.

 

Appetito insaziabile

Accade così che mentre la democrazia reale si va sempre più riducendo a scheletro senza carne, né sangue, né linfa vitale, il mito democratico riprende fiato, divenendo ancora l'orizzonte ideale di riferimento. Non è certo un caso che un partito come Rifondazione, dopo aver a lungo guardato con diffidenza ai movimenti di controglobalizzazione, oggi tenti di cavalcarli, sia partecipandovi, sia, soprattutto, offrendo tutela e rappresentanza istituzionale alle aree più moderate, dai lillipuziani alle tute bianche, dall'associazionismo cattolico all'ambientalismo.
Spezzare il circolo vizioso che si dipana intorno al mito democratico è quindi tutt'altro che facile, nonostante in questi mesi i vari Berlusconi e Rutelli ci stiano dando, del tutto involontariamente, un bell'aiuto. Mi è capitato di discutere con un compagno che proponeva di distribuire un volantino astensionista facendo una sorta di decalogo delle ragioni del non voto. A mio parere il miglior volantino astensionista è quello in cui la questione del voto non viene neppure menzionata. L'astensione non è una pratica anarchica ma solo l'ovvio corollario dell'agire politico e sociale degli anarchici, che si sostanzia nel perseguimento di forme di autogoverno, di autogestione, di autonomia progettuale e culturale.
Noi sappiamo che la democrazia, lungi dall'essere la via d'accesso alla partecipazione, alla scelta, alla libertà, ne è la negazione: ma il sapore della libertà, una volta gustato, mette un appetito insaziabile.

Maria Matteo

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