Rivista Anarchica Online


alternative

Oltre la solitudine e le istituzioni
di Nils Christie

Con questo titolo (sottotitolo: "comunità per gente fuori norma") esce nelle librerie in queste settimane per i tipi di Elèuthera un nuovo libro del norvegese Christie. Eccone la premessa all'edizione italiana.

Di che cosa parla questo libro? Parla di un sistema sociale basato sulla decisione di escludere il denaro come incentivo per il lavoro e come indicatore del prestigio e del valore delle persone. Si mettono tutti i soldi in un cappello e si utilizzano secondo le necessità.
Parla di un sistema sociale che ha stabilito che alcuni strumenti sono pericolosi per la vita di relazione e quindi non devono essere accettati all'interno del sistema stesso.
Parla di un sistema sociale in cui si è stabilito che certe categorie usate per classificare le persone (per esempio la follia o il ritardo mentale) sono deleterie per le relazioni sociali e che quindi vanno evitate. Altre categorie considerate a rischio e quindi vietate sono, per esempio, quelle di direttore o di capo. Chi vive all'interno del sistema è un residente o un collaboratore. Ciò non significa che tutti sono uguali nel quotidiano: qualcuno ha più autorità, ma si tratta di un'autorità che li riguarda per come sono e per come si comportano in quanto persone, e non di un ruolo ufficiale sanzionato dal sistema. I residenti abitano insieme nella stessa casa, vanno al lavoro nel villaggio stesso e qui partecipano a comuni attività culturali.
Un sistema come questo può essere definito "istituzione totale", anche se questo termine è molto screditato nella letteratura sull'argomento. Ma voglio spingermi ancora più in là, definendo il sistema con un termine che in genere ha un'accezione molto negativa: non ho niente in contrario a chiamarlo "ghetto". E lo dico con le migliori intenzioni.
I ghetti si sono dimostrati luoghi fatali ai tempi del nazismo e del fascismo. Ma questo non deve farci dimenticare la validità di certi aspetti della vita che si svolgeva al loro interno. La gente vi era riunita sulla base di una presunta identità razziale, ma in realtà per una comunanza di storia e di cultura, ed era forse costretta a stringere straordinari legami di collaborazione dalle minacce che provenivano dall'esterno o magari perché infiammata dalle idee e dalle profezie di qualcuno. Potevano diventare luoghi tremendi per vivere, se si violavano le norme fondamentali della convivenza. Ma erano anche e nello stesso tempo luoghi in cui l'esistenza offriva in misura notevole certezze e relazioni intense e vivaci che oggi non troviamo più nella nostra vita di ogni giorno. Chi ha toccato con mano gli aspetti positivi della vita di un ghetto non si riadatterà mai completamente a un'esistenza al di fuori di questo.

 

Il concetto di sottosviluppo

La prima edizione di questo libro risale al 1989. Che cos'è successo da allora? L'editor di Elèuthera mi ha chiesto di raccontarlo in questa prefazione. Ho cercato di resistere, ma è tornato alla carica. E aveva ragione. Ma non è facile se lo si vuol fare seriamente. Non è facile perché la cosa più notevole che è successa da quando ho scritto il libro è che non è successo proprio niente d'importante. È stato un periodo di stabilità e non di cambiamenti.
Come mai una situazione in cui non cambia niente è più difficile da descrivere di un cambiamento? Perché va contro lo spirito dei tempi e quindi è facile che la si giudichi negativamente.
Un'idea dominante nella nostra cultura è quella che impone di adattare tutte le forme sociali in modo da farle rientrare nel quadro dato. È così per la modernità.
Correva l'anno 1949 quando Harry Truman lanciò la campagna contro il sottosviluppo con la quale voleva cambiare il mondo e trasformarlo in un consesso di nazioni tutte altamente industrializzate. Bisognava sottrarre i poveri del Terzo Mondo al sottosviluppo e alla miseria. Dietro questo progetto c'era una ideologia aggressiva che presumeva che l'unica esistenza valida fosse quella conforme ai criteri imposti dalla razionalità economica.
C'era nello stesso tempo l'idea che tutti i Paesi dovessero svilupparsi secondo il nostro modello e con le finalità schematiche da noi previste. Il concetto di sottosviluppo oggi è caduto in discredito a vantaggio della definizione più corretta di Paesi del Terzo Mondo, ma la realtà rimane la stessa: si devono aiutare questi Paesi a raggiungere il nostro livello, bisogna ristrutturare i loro vagoni di terza classe in modo che siano simili ai nostri di prima classe. Per farlo, questi Paesi devono cambiare una delle loro principali caratteristiche e da multi-istituzionali diventare mono-istituzionali.

 

Da homo sapiens a homo miserabilis

Allora saranno in grado, in quanto Stati, di tirarsi fuori dalla loro condizione di dipendenza internazionale. Nello stesso tempo però (e la ricetta del cambiamento sociale trascura questo particolare) la nuova situazione farà sì che un numero notevole di cittadini finisca in una situazione di dipendenza individuale. La cosa si può prospettare in un altro modo: per aumentare il prodotto nazionale i Paesi sottosviluppati dipendono da quelli altamente sviluppati, ma al contempo nel loro sottosviluppo sono strutturati spesso in modo da garantire spazio per tutti, perché c'è bisogno del lavoro di tutti. Uscendo dalla condizione di sottosviluppo, la situazione si ribalta: la dipendenza nazionale da altri Stati viene barattata con la dipendenza individuale di molti cittadini. Questi Paesi entrano così nel novero degli Stati composti da produttori e da consumatori e allora, secondo la logica che prevale nell'era dell'automazione e della razionalizzazione, molti dei loro abitanti precipitano rapidamente in una situazione che nega loro una piena partecipazione alle uniche attività considerate importanti, quelle della produzione e del consumo.
Dice Ivan Illich (1992, pp. 88-101):
In piena era industriale, per moltissime popolazioni che vivevano in una cultura di sussistenza la vita era ancora fondata sul riconoscimento di limiti che non si potevano travalicare e dell'impossibilità di uscire dai confini immutabili della necessità. Il suolo dava sempre gli stessi prodotti, ci volevano tre giorni per andare al mercato, il figlio sapeva già il proprio futuro osservando la sorte del padre... si doveva affrontare il bisogno, le necessità... In un'economia di pura sussistenza, l'esistenza di desideri è tanto scontata quanto la certezza dell'impossibilità di soddisfarli.
Si accettava l'esistenza com'era. Si avevano desideri, ma più come speranze che come esigenze basate su diritti. L'essere umano, nella prospettiva di Illich, si trasforma da homo sapiens a homo miserabilis.
Vista così, l'idea di sviluppo è un'idea imperialista. Lo è nell'arroganza delle nazioni più sviluppate: vi aiutiamo a diventare come noi. Lo è per il fatto che l'aiuto consiste in un incoraggiamento o in una costrizione che obbliga i Paesi più poveri a passare da una struttura multi-istituzionale a una mono-istituzionale, facendo sì che le idee e i valori di un'istituzione colonizzino e soffochino quelli delle altre.

Vidaråsen e gli altri "villaggi Camphill" di cui parla il libro rappresentano un tipo di esistenza che non ha ceduto alle pressioni dello sviluppo. Si è respinta la modernizzazione, si sono analizzati i valori delle società di un tempo, se ne è presa coscienza e ci si è riorganizzati sulla base di questi.
Ecco qual'è il problema se si vuol raccontare che cosa è successo dopo.
Non è successo molto da quando il libro è uscito. Perché mai avrebbe dovuto? L'esistenza nei villaggi ha un ritmo lento: si nasce, s'invecchia, si muore; ogni tanto arriva qualcuno che rimane per un po' o per tutta la vita. Si costruisce una nuova casa, si restaurano quelle vecchie, ma per lo più la vita va avanti come sempre. Proprio come succedeva nei villaggi del passato.
Arriva, però, un'altra e più difficile domanda: com'è possibile? Come si spiega un'assenza di sviluppo in un mondo dominato dalla fede nel progresso?
Io non ho risposte certe, solo qualche ipotesi. In primo luogo c'è il fatto che per le attività che si svolgono nei villaggi il punto di riferimento principale sono gli abitanti. Molti hanno problemi a camminare e questo pone già dei limiti alla crescita in estensione degli insediamenti. Lo stesso effetto ha la scarsa propensione ad accettare le gerarchie burocratiche, che invece sono difficili da contrastare se le strutture sono troppo grandi. Un altro fattore è l'assenza di incentivi monetari. Non c'è niente da guadagnare. Così, se bisogna rapportarsi con più persone e si ha meno tempo per le relazioni più strette, è facile vedere nello sviluppo una minaccia per la qualità della vita.
Eppure molti di quelli che risiedono nei villaggi sono cresciuti nella società cosiddetta "normale". La quale società li ha formati all'idea di progresso come fine, li ha educati ad avere un lavoro, una famiglia, a farsi strada tanto socialmente come economicamente, magari a creare una propria impresa: tutti i consueti simboli del successo. Perché rimangono? Perché non trasformano i villaggi in moderni ospizi di un tipo o dell'altro?
Credo che la ragione principale stia nel fatto che nei villaggi non mancano sfide alternative. Se si vive accanto a un essere umano che non comunica col normale linguaggio, è un enorme successo riuscire a comprendere quello che comunica col linguaggio del corpo, e poi ampliare sempre più questa comprensione. Se una persona che non è mai stata in grado di andare a piedi da sola da una casa all'altra un bel giorno riesce a compiere questa impresa eroica, è chiaro che quella è una festa per tutti. Oltre a ciò ci sono tutte le gratificazioni sociali tipiche dell'esistenza in un ghetto: ci sono tanti elementi di stabilità in un villaggio.
Eppure le cose avrebbero potuto andare per il verso sbagliato. I villaggi correvano il rischio di finire schiacciati dalla situazione economica. Non per mancanza di soldi, ma proprio per il contrario!

 

I rapporti con lo Stato

Ho già detto che l'organizzazione sostanzialmente prevede di mettere tutti i soldi insieme, "in un cappello", e più avanti nel testo potrete leggere come il sistema funziona precisamente. Quello che tengo a dire subito, qui nella prefazione, è che questo principio garantisce ai villaggi la possibilità di essere strutture sociali relativamente ricche. I villaggi ricevono meno finanziamenti dallo Stato norvegese di qualsiasi altra struttura che si occupa di persone con gravi difficoltà. E questo anche se le persone che vi risiedono non hanno entrate personali. Il villaggio è la loro casa e la loro famiglia. Non devono comprarsi l'appartamento o l'automobile, non devono pagare l'assicurazione. Per questo gran parte del denaro rimane nel cappello e lo si preleva per risistemare i fabbricati, per comprare nuovi cavalli, per coltivare più terreni, per costruire una nuova sala per le feste, per edificare le abitazioni per i nuovi arrivati. Il rischio sta proprio qui: usare i soldi per allargarsi troppo, o per dare una gratifica extra a qualcuno particolarmente meritevole (cosa che metterebbe in discussione i criteri di egualitarismo all'interno del villaggio), o per elevare lo standard di vita a un livello di molto superiore rispetto a quello norvegese. Tutte cose che provocherebbero tanti grattacapi, mettendo in pericolo la stabilità stessa del sistema, non per carenza ma per eccesso di denaro.
La soluzione del problema è stata la generosità. Il fatto più significativo accaduto dopo l'uscita del libro è stata l'enorme espansione del movimento dei villaggi nell'Europa orientale. Ne sono stati fondati altri quattro, uno in Russia, uno in Estonia, uno in Polonia e, più di recente, uno in Lituania. Tutti e quattro hanno ricevuto dai villaggi norvegesi un importante sostegno, costituito da sovvenzioni in denaro, costruzioni, attrezzature e personale. Osservando questo sviluppo ho temuto, nei primi anni, che i villaggi norvegesi avessero preteso un po' troppo dalle loro forze. Anche qui da noi c'era bisogno di soldi e di manodopera, era pericoloso mandare tutto a est.
Mi sbagliavo. Avrei dovuto ricordarmi dell'istituzione del potlatch come degli altri casi descritti dagli antropologi, casi in cui il surplus veniva distrutto, ceduto o ridistribuito in modo che la struttura di fondo della tribù o della comunità non cambiasse o non ne soffrisse. Aiutando a far nascere i villaggi nell'Europa orientale, quelli norvegesi hanno saputo preservare la propria identità. La spinta imprenditoriale ha trovato uno sfogo non devastante. L'avanzo attivo è stato usato per uno scopo buono. È stato sì uno sviluppo, ma nel senso di un sommarsi di nuovi villaggi, di esempi ulteriori di una possibile esistenza alternativa. E in quei Paesi c'è un gran bisogno di alternative che contrastino l'occidentalizzazione che sta diffondendosi, con il suo messaggio sulle meraviglie prodotte dalla concorrenza economica e dallo sviluppo.

Nils Christie


Nils Christie