Rivista Anarchica Online


 

Milano da ripensare

Il libro Milano. L'ambiente, il territorio, la città di Giovanni Denti e Annalisa Mauri, con un saggio di Maria Pia Belski (Edizioni Alinea, Firenze 2000, 160 pp., lire 45.000) parte da una analisi delle trasformazioni della struttura urbana di Milano a partire dal momento della sua fondazione, mostrando le ragioni dell'evolversi della sua forma in funzione dei rapporti via via instauratisi con il territorio. L'analisi storica aiuta a capire le ragioni che hanno portato la città ad essere quella che è oggi, le occasioni perdute ed i progetti non portati a compimento.
Nel 1807 un gruppo di artisti di formazione illuminista, e vicini ai circoli giacobini milanesi, stese un piano regolatore che delineava una città aperta, integrata con il territorio, non più costretta entro i vincoli di cinte murarie e di confini amministrativi inadatti alle necessità di una nascente metropoli.
Con la restaurazione i sogni e i progetti della ragione furono accantonati, il territorio esterno alle mura spagnole fu saturato senza controllo da officine e da abitazioni operaie degradate; dal 1840 si costruirono le infrastrutture ferroviarie, chiudendo la città in una cintura più costrittiva delle antiche mura e causa di degrado ambientale.
Il piano regolatore approvato nel 1889 altro non era che un'immensa lottizzazione che ampliava la superficie della città, funzionale agli interessi delle società immobiliari ed espressione di una concezione classista della pianificazione: si garantivano gli standard ai quartieri medio-alti, mentre la periferia non era vincolata da regolamenti e riproduceva il disagio e il degrado sociale.
I fatti del 1898, con la sanguinosa repressione delle manifestazioni operaie e l'occupazione militare di Milano, la reazione operaia culminata due anni dopo con l'uccisione di Umberto I a Monza, innescarono un processo di autocoscienza del proletariato urbano e portarono alla costituzione di cooperative edilizie che nei primi anni del '900 realizzarono esempi di case popolari tra le più interessanti dell'epoca.
La crescita della città nella prima metà del '900 è avvenuta attraverso Piani Regolatori che da un lato hanno continuato a privilegiare gli interessi delle società immobiliari, distruggendo quartieri storici e spingendo sempre più in periferia le classi meno abbienti, dall'altro hanno rinunciato definitivamente a governare il passaggio di Milano da città a metropoli in un quadro territoriale ampio, espressione di una politica lungimirante.
Se la forma della città antica era definita dalle mura e dalle emergenze monumentali, quella della metropoli contemporanea vede nelle reti infrastrutturali dei trasporti gli elementi che regolano l'accessibilità ai luoghi del lavoro, ai servizi, agli spazi verdi. Nel 1946 la giunta nominata dal Comitato di Liberazione Nazionale bandì un concorso per un nuovo piano regolatore, che fu vinto dal gruppo Architetti Riuniti (Albini, Belgiojoso, Bottoni, Cerutti, Gardella, Mucchi, Palanti, Peressutti, Pucci, Putelli, Rogers) che si richiamava alla cultura progressista europea. Il piano prevedeva un sistema di assi attrezzati collegato alla grande viabilità territoriale, il decentramento delle grandi funzioni direzionali, la realizzazione di parchi urbani e suburbani, un efficiente sistema di trasporto su ferro a scala regionale. La realtà degli ultimi cinquant'anni ha visto prevalere ancora una volta l'interesse speculativo su quello collettivo, e la casualità del disegno urbano della Milano contemporanea riflette l'insufficiente capacità di governo delle nuove dinamiche urbane.
Milano è oggi ben lontana dall'essere una città vivibile, con i difetti e senza i pregi di altre metropoli come Londra, Parigi, Barcellona o della stessa New York.
Dal libro emerge chiaramente l'indicazione della necessità, attraverso piani di grande respiro, di ridare qualità alle aree marginali o dismesse, non attraverso interventi episodici, ma in un quadro di coordinamento a grande scala, che consenta a ciascuno di riconoscere nella qualità dei luoghi l'abitare come condizione positiva e il proprio essere attore della dimensione metropolitana.

Leonina Roversi

Al servizio della verità rimossa

Negli ultimi anni si è andato consolidando un filone di narrativa che può sicuramente essere definita libertaria: romanzi che hanno come protagonisti figure di anarchici o di libertari, in alcuni casi storicamente vissuti, in altri frutto della fantasia narrativa. Il lapis del falegname dello scrittore galiziano Manuel Rivas (Feltrinelli, Milano 2000, pagg. 143, lire 23.000), tradotto in italiano da Pino Cacucci, può senz'altro essere ascritto a questo genere di letteratura.
In uno squallido bordello di un paesino galiziano al confine col Portogallo, il vecchio pappone Herbal viene sorpreso da una giovane prostituta, Maria da Visitação, a scarabocchiare sui tovaglioli di carta con un lapis da falegname. La matita rossa diviene subito uno strumento dell'anima, il tramite per un racconto poetico, colmo al contempo di speranza e di disperazione. Herbal rievoca la sua gioventù aguzzina, quando nei mesi precedenti al golpe di Francisco Franco si mise al servizio della Spagna cattolica e fascista. In breve tempo, venne assunto in servizio permanente da sorella morte; la sorte lo aveva privato della vita, regalandogli un'esistenza di miseria e di solitudine: ora poteva rifarsi e vendicarsi, togliendola agli altri. Nel "nobile" ruolo di delatore dei sovversivi prima, di carceriere e torturatore dei prigionieri antifascisti dopo, poté sfogare le frustrazioni prodotte dalla sua miseria materiale e spirituale.
Dalla galera di La Falcona a Santiago di Compostela, con altri paseadores falangisti, egli conduceva i prigionieri fino alla spiaggia atlantica, portandoli appunto a fare una passeggiata: l'ultima passeggiata, quella che porta dritto all'inferno. Qui infatti Herbal insieme ai suoi camerati, dopo aver dileggiato e magari sadicamente torturato gli antifascisti che erano stati catturati nei primi giorni dopo il levantamiento, sparava loro un colpo in testa, con lo stesso macabro disprezzo con cui lo zio bracconiere uccideva le sue prede.
La notte in cui Herbal assassina il pittore che disegnava con un lapis da falegname i volti dei suoi compagni di prigionia, come se fossero gli angeli e i profeti dipinti nella cattedrale di Santiago, la sua vita ha una brusca svolta. L'anima del pittore si insinua nella mente di Herbal, divenendo la sua coscienza, e gli impone di proteggere l'amico dottore, il libertario Daniel De Barca. Nei mesi successivi, Herbal diviene l'angelo custode di questa singolare figura di internazionalista, salvandolo in più occasioni dalla morte: nonostante l'orrore che prova per i suoi valori altri, egli ammira la generosità e la dignità di Daniel. Herbal avrebbe in fondo voluto vivere la sua vita e amare la sua donna, Marisa Mallo. Daniel è l'alter ego di Herbal, e la struttura narrativa del romanzo si gioca per molte pagine su questa antinomia: Herbal è formalmente libero, ma in realtà è schiavo del suo ruolo, riesce a vivere solo come carceriere; Daniel è formalmente prigioniero, ma in realtà è un uomo libero, la galera non riesce a privarlo delle sue idee e a spezzare il suo amore con Marisa.
Il romanzo è dunque al contempo una romantica storia d'amore e un racconto, intriso di una poesia triste, di prigionieri e torturatori: intorno alle figure protagoniste di Herbal, Daniel e Marisa, emerge la variegata, fiera e disperata umanità dei carcerati antifascisti: tra cui, per esempio, un gruppo di musicisti anarchici, che in galera formano un'orchestra suonando con il soffio e con le mani. Quando i falangisti fucilarono il cantante di questa orchestra, Pepe Sánchez, ricorda Herbal a Maria da Visitação, non si trovarono volontari per il plotone: "Mentre lo portavano via, con il prete dietro che mormorava una preghiera, aveva avuto ancora l'allegria di gridare lungo il corridoio: Andiamoci a prendere il cielo! Io sì che posso passare dalla cruna di un ago! E infatti era snello come un salice".
Commovente ed efficace anche la descrizione del momento in cui nel carcere fu officiata una messa per celebrare la vittoria finale di Franco. Di fronte alle autorità, i carcerati, guidati da Daniel De Barca, interrompono l'omelia fascista del cappellano con corali colpi di tosse: finché "al termine della cerimonia, il direttore lanciò le parole d'ordine:
Spagna! E risposero soltanto le voci delle autorità e delle guardie: Una!
Spagna! I detenuti restavano in silenzio. Gli stessi di prima gridarono: Grande!
Spagna! E a quel punto l'intera prigione tremò nell'urlo: Libera!".
Un libro prezioso, che infrange in Spagna quel tabù sul quale nella transizione post-franchista si è fondata la nuova democrazia: la pacificazione nazionale costruita sulla rimozione della memoria storica, sulla cancellazione delle atrocità commesse dai franchisti durante la guerra civile e nei decenni successivi. Un libro dedicato a chi non vuole dimenticare, opportuno anche qui in Italia in un periodo come questo in cui si vanno affermando le ricerche trasversali di una storiografia che deforma la pur necessaria revisione delle idee e dei giudizi per sostenere idee che si potrebbero definire alquanto curiose se non contenessero, come contengono, un ethos ripugnante: come quella secondo la quale la violenza degli oppressi è stata peggiore e più grande di quella degli oppressori. La violenza è sempre una tragedia: ma uccidere per dominare ed essere costretti ad uccidere per vivere da uomini liberi non è la stessa cosa.
Quelle che emergono da questo romanzo sono verità così semplici, che nessuna menzogna o calunnia revisionistica riuscirà mai ad offuscare: quella per cui, ad esempio, la ragione stava dalla parte di chi, come gli anarchici, ha perso insieme la guerra civile e la rivoluzione, mentre il torto stava dall'altra parte, dalla parte dei fascisti, dei militari, dei borghesi e dei preti; o quella per cui l'amore e la solidarietà sono spesso più forti dell'ingiustizia e dell'oppressione. L'amore come quello tra Daniel e Marisa, che resiste alla galera e alla distanza fisica, un amore così grande da condurre lo stesso Herbal a divenirne complice; l'amore come quello per la libertà e per la giustizia sociale che muoveva gli antifascisti, una buona parte di essi perlomeno, e che decenni di carcere e di torture, centinaia di migliaia di fucilazioni non sono riusciti a cancellare del tutto.
Verità semplici, dicevo, e ancora attuali: come quella pronunciata dall'ormai anziano dottor De Barca al giornalista accorso a intervistarlo al suo ritorno dal lungo esilio in Messico, dove si era rifugiato con la moglie Marisa una volta scarcerato negli anni '50. "Le vere frontiere", sussurra in fin di vita ma ancora indomito Daniel, "sono quelle che tengono i poveri lontano dalla torta".

Francesco Berti