I media nazionali hanno scoperto l'adolescenza. A seguito
dei recenti tragici fatti di cronaca, un fiume in piena di analisi, commenti,
prese di posizione su televisioni e giornali si è riversato nelle nostre
case, imponendo con forza la violenza e la morte come argomenti non più
propri delle guerre o degli adulti, ma come una realtà degli adolescenti.
Ancora una volta però la funzione spettacolare e virtuale ha prevalso sulla
riflessione vera, nonostante sforzi anche intelligenti di capire e comprendere.
Appunto, capire e comprendere.
Quante domande e quante risposte in questi giorni, che si aggiungono a quelle
che abitualmente si fanno tutti coloro che con i ragazzi e le ragazze vivono gran
parte della loro vita professionale o parentale. Ma alla fine restano sempre quei
dubbi che sono propri di chi ricerca seriamente delle verità e non si accontenta
mai completamente delle risposte che si da. Così è stato ed è
per me.
Alcune idee, relative e non sempre certe, me le sono fatte, soprattutto per un
aspetto sociale della questione. Il mondo, si proprio il mondo intero, che ruota
attorno ai nostri ragazzi impone con violenza subdola e perfida un insieme di
valori e modelli che non sono certamente utili ad una crescita autonoma e libera
di ragazzi e ragazze che cercano giustamente e conflittualmente una propria identità.
La dimensione virtuale della vita giovanile ha ormai invaso il percorso di ricerca
di soluzioni e conoscenze, relazioni e riflessioni personali, ancorate ad una
propria specifica e concreta esperienza.
Dall'avvento e dall'uso massiccio delle tecnologie multimediali escono una infinità
di simboli che definiscono un immaginario giovanile legato strettamente e profondamente
ad una dimensione irreale e simbolica della realtà, a scapito di un inesorabile
ma deciso impoverimento dell'esperienza. Pertanto la confusione tra realtà
e immagine della stessa è completa e favorisce inevitabilmente un'assuefazione
diffusa di simboli e scenari che diventano abituali e quindi privi di ogni capacità
di suscitare emozioni e profonde riflessioni.
Infatti la morte è diventata completamente una irreale abitudine alla quale
assistiamo comodamente dalle poltrone soffici dei nostri abituali ritrovi. L'esperienza
della morte, così come quella della vita, è sempre più mediata
e virtuale; le lacrime, le disperazioni, le angosce, gli orrori delle guerre,
delle sopraffazioni, delle violenze, sono state svuotate e filtrate in modo da
non provocare più sdegno e ripugnanza. Anzi, sono state addirittura trasferite
in simulazioni tecnologiche, mutuate dalle industrie belliche e dalle intelligenze
strategiche del Pentagono (da lì proviene ad esempio la play station),
e date in pasto a generazioni intere di ragazzi e ragazze.
Tutto ciò che ci circonda è finalizzato a diffondere una cultura
dell'apparire, a consumare informazioni che svuotano progressivamente la capacità
di apprendere, di riflettere sulla realtà. Sempre più pregnante
e insinuante è la privatizzazione, l'isolamento, tanto che le giovani generazioni,
anche quando si mescolano in eventi di massa religiosi, sportivi, musicali, stentano
a relazionarsi tra loro in modo diretto e non mediato dai mitici sgm o altre tecnologiche
invenzioni.
Tutto ciò comincia fin dalla prima infanzia, basta pensare a come nella
mitica Silicon Valley, gli asili nido sostituiscano sempre più il rapporto
diretto e immediato con l'educatore alla frequentazione di linguaggi iconici e
multimediali. Addirittura ormai cominciano a diffondersi spazi di aggregazione
controllati via video e però privi di rapporti diretti tra adulti e giovani.
Impoverimento relazionale
Questo indubbio impoverimento relazionale determina sicuramente una parcellizzazione
diffusa, un immaginario determinato e predefinito di simboli e realtà virtuali,
ma soprattutto l'incapacità di identificarsi in un movimento collettivo
che riconosca la comune condizione ed elabori propri e specifici valori e immagini.
La solitudine esistenziale, che già caratterizza una certa fase dello sviluppo
sociale della personalità, viene incanalata e privatizzata, rendendo i
singoli soggetti sempre più emarginati e soprattutto isolati nella loro
specificità. Gli stessi gruppi di ragazzi e ragazze, talvolta diventano
sempre più ulteriori mezzi di esclusione o separazione. Accanto a tutto
ciò, incontrando ragazzi e ragazze, si può rilevare come il vissuto
individuale si trasformi in due distinti, ma altrettanto forti, comportamenti:
l'autoesclusione sociale o l'aggressività individuale e collettiva. Entrambi
questi comportamenti sono risposte di per sé assolutamente normali e consuete
in ogni generazione occidentale, che però l'immaginario sociale dell'opulenza
e della permissività, trasforma in tragedie e violenze sconcertanti e disarmanti.
Ma dai ragazzi e dalle ragazze emergono chiare le richieste e i bisogni che hanno
di far fronte al loro naturale disagio. Innanzitutto essere ascoltati senza essere
giudicati, vale a dire poter esprimere le proprie volontà, idee, bisogni
sapendo che vi è da parte dell'adulto una disponibilità empatica
all'ascolto, non solo razionale ma anche emotiva. Poi una capacità da parte
degli adulti di riconoscere dentro di loro la necessità di pensarsi e narrarsi
come persone che sono state giovani e che quindi, senza rinunciare al proprio
essere attuale, sappiano però riconoscere e rivivere bisogni e comportamenti
di un'altra età. Infine coerenza nei comportamenti e nelle richieste, senza
prediche moralistiche o precetti autoritari.
Un altro elemento di cui tenere conto quando si cerca di capire il comportamento
degli adolescenti è quello di aver ben presente l'influenza e il significato
più profondo che il gruppo esercita sul singolo. E se l'immaginario di
questi gruppi è pesantemente condizionato da modelli sociali consumistici
e aggressivi, l'appartenenza al gruppo stesso passa anche attraverso la condivisione
di rituali e comportamenti collettivi. La fragilità di esseri umani in
un periodo turbolento della propria evoluzione, unita ad una sociale influenza
che mira all'avere, al possedere, all'apparire, determina comportamenti estremi
pur di far parte di questo universo-mondo.
Ma, mi sono chiesto, queste considerazioni, che pure hanno importanza talvolta
decisiva nello spiegare quanto succede, possono essere considerate esaurienti?
Sono convinto di no, che altre ragioni magari più profonde possano essere
trovate per spiegare fatti tragici di violenza individuale e di gruppo. Che la
società nel suo insieme sia violenta, che la legge della competizione esasperata
porti a conseguenze estreme, è sicuramente vero. Che il compito di ogni
persona ragionevole sia quello di contribuire ad eliminare queste cause sociali
di tanta sofferenza e disperazione, è indiscutibile.
Ma accanto a tutto ciò, e non è poco, mi sono chiesto che cosa può
ragionevolmente fare un anarchico, che cosa possiamo dire di fronte alla morte
e alla violenza, al razzismo e all'intolleranza che pure serpeggia, quando non
è una conclamata realtà, tra ragazzi e ragazze, che cosa può
portarli ad odiare la vita, quella propria e quella degli altri?
Un atto di libera
volontà
L'odio per la vita, probabilmente, nasce dalla paura di vivere, dall'incertezza
esistenziale che, invece che essere accettata e riconosciuta come una condizione
foriera di slanci ed emozioni, progetti e azioni collettive ed individuali, ricerca
di forme nuove di espressione e di sperimentazione, si trasforma in insicurezza,
e poi di nuovo in paura, creando un circolo vizioso dal quale a volte diventa
quasi impossibile uscire.
Allora deve esserci anche una responsabilità individuale, un atto di libera
volontà che rompa il cerchio soffocante della cultura dell'inevitabile,
della rassegnazione etica. L'affermazione dell'autonomia individuale e della libertà
del singolo si ottiene solo con un comune riconoscimento comunitario, con la convinzione
che non vi può essere uomo libero finché ve n'è uno di schiavo.
Per uscire dal recinto della società globale e del pensiero unico, l'individuo
deve superare una concezione e una pratica del tempo inteso come frammentazione
di episodi, ma riconoscere che non vi può essere tempo senza spazio, libertà
senza solidarietà. I giovani sono chiamati a collezionare individualmente
e separatamente, sensazioni, a praticare un accumulo di emozioni alla ricerca
di superare quel senso di estraneità che è in noi a causa di un
mondo sempre più vicino virtualmente ma sempre più distante realmente.
Il comune lamento collettivo di esperti e santoni circa la caduta di valori rappresenta
l'ennesima rimostranza di adulti ben inseriti che richiamano all'ordine frotte
di giovani colpevoli di non riconoscere la straordinaria efficienza del nostro
mondo così ricco di illusioni e di esempi di straordinario successo dei
capi che governano il nostro pianeta. La presunzione contenuta nel piagnisteo
dei media e dei potenti rivela invece che esiste la possibilità di prendere
congedo da un universo di ideali, abbondanza, carriera, profitto, potere, ormai
impresentabili sotto ogni aspetto ed ecologicamente inadeguati al vivere civile
e umano.
Lentezza, solidarietà, spontaneità, autonomia, possono costituire
la soluzione ideale alla schizofrenia sociale dei valori dominanti.
Un po' più
di amore
In un contesto generale nel quale è stata proclamata la supremazia di
una razionalità tecnologica e dove le emozioni, quando ci sono, vengono
esclusivamente relegate alla sfera separata dell'individualità, occorre
offrire ai ragazzi e alle ragazze spazi e tempi nei quali poter riconoscere se
stessi negli occhi e nei sentimenti degli altri. Il desiderio e la paura di crescere
non devono trasformarsi in insicurezza sociale ma al contrario in incertezza esistenziale,
in condivisa e accettata identità personale.
Non si può sostituire la lotta per la conquista di una propria identità
con scorciatoie permissive o con relazioni autoritarie. Bisogna fare fatica, lottare,
confrontarsi con gli altri, misurarsi con se stessi, temperare la propria volontà
autonoma da un lato e dall'altro non pretendere di giudicare o trasmettere esperienze,
ma piuttosto stimolare la ricerca di risposte individuali in un dialogo che non
ha sintesi.
Concludendo queste riflessioni mi preme solo ribadire che senza autonomia non
vi è libertà e che senza un senso profondo e condiviso di appartenenza
ad una comunità non si può tentare di sconfiggere la violenza della
società e quella individuale. E l'appartenenza vera non può non
essere sempre negoziabile e frutto di scelte libere ed autonome.
Ecco allora che il senso dell'anarchismo oggi, del suo poter costituire una possibile
alternativa ai guasti tragici del mondo autoritario, si precisa proprio, rispetto
ai giovani, come rispetto e ascolto libero da ogni pregiudizio, dei loro vissuti,
dei loro sogni, delle loro speranze, ma soprattutto del loro richiamo ad avere
un po' più di amore.
Francesco Codello
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