Rivista Anarchica Online


adolescenza

La cultura dell'apparire
di Francesco Codello

Il mondo che ruota attorno ai ragazzi impone, con violenza subdola e perfida, un insieme di valori e modelli che non sono certamente utili ad una crescita autonoma e libera.

 

I media nazionali hanno scoperto l'adolescenza. A seguito dei recenti tragici fatti di cronaca, un fiume in piena di analisi, commenti, prese di posizione su televisioni e giornali si è riversato nelle nostre case, imponendo con forza la violenza e la morte come argomenti non più propri delle guerre o degli adulti, ma come una realtà degli adolescenti. Ancora una volta però la funzione spettacolare e virtuale ha prevalso sulla riflessione vera, nonostante sforzi anche intelligenti di capire e comprendere. Appunto, capire e comprendere.
Quante domande e quante risposte in questi giorni, che si aggiungono a quelle che abitualmente si fanno tutti coloro che con i ragazzi e le ragazze vivono gran parte della loro vita professionale o parentale. Ma alla fine restano sempre quei dubbi che sono propri di chi ricerca seriamente delle verità e non si accontenta mai completamente delle risposte che si da. Così è stato ed è per me.
Alcune idee, relative e non sempre certe, me le sono fatte, soprattutto per un aspetto sociale della questione. Il mondo, si proprio il mondo intero, che ruota attorno ai nostri ragazzi impone con violenza subdola e perfida un insieme di valori e modelli che non sono certamente utili ad una crescita autonoma e libera di ragazzi e ragazze che cercano giustamente e conflittualmente una propria identità. La dimensione virtuale della vita giovanile ha ormai invaso il percorso di ricerca di soluzioni e conoscenze, relazioni e riflessioni personali, ancorate ad una propria specifica e concreta esperienza.
Dall'avvento e dall'uso massiccio delle tecnologie multimediali escono una infinità di simboli che definiscono un immaginario giovanile legato strettamente e profondamente ad una dimensione irreale e simbolica della realtà, a scapito di un inesorabile ma deciso impoverimento dell'esperienza. Pertanto la confusione tra realtà e immagine della stessa è completa e favorisce inevitabilmente un'assuefazione diffusa di simboli e scenari che diventano abituali e quindi privi di ogni capacità di suscitare emozioni e profonde riflessioni.
Infatti la morte è diventata completamente una irreale abitudine alla quale assistiamo comodamente dalle poltrone soffici dei nostri abituali ritrovi. L'esperienza della morte, così come quella della vita, è sempre più mediata e virtuale; le lacrime, le disperazioni, le angosce, gli orrori delle guerre, delle sopraffazioni, delle violenze, sono state svuotate e filtrate in modo da non provocare più sdegno e ripugnanza. Anzi, sono state addirittura trasferite in simulazioni tecnologiche, mutuate dalle industrie belliche e dalle intelligenze strategiche del Pentagono (da lì proviene ad esempio la play station), e date in pasto a generazioni intere di ragazzi e ragazze.
Tutto ciò che ci circonda è finalizzato a diffondere una cultura dell'apparire, a consumare informazioni che svuotano progressivamente la capacità di apprendere, di riflettere sulla realtà. Sempre più pregnante e insinuante è la privatizzazione, l'isolamento, tanto che le giovani generazioni, anche quando si mescolano in eventi di massa religiosi, sportivi, musicali, stentano a relazionarsi tra loro in modo diretto e non mediato dai mitici sgm o altre tecnologiche invenzioni.
Tutto ciò comincia fin dalla prima infanzia, basta pensare a come nella mitica Silicon Valley, gli asili nido sostituiscano sempre più il rapporto diretto e immediato con l'educatore alla frequentazione di linguaggi iconici e multimediali. Addirittura ormai cominciano a diffondersi spazi di aggregazione controllati via video e però privi di rapporti diretti tra adulti e giovani.

 

Impoverimento relazionale

Questo indubbio impoverimento relazionale determina sicuramente una parcellizzazione diffusa, un immaginario determinato e predefinito di simboli e realtà virtuali, ma soprattutto l'incapacità di identificarsi in un movimento collettivo che riconosca la comune condizione ed elabori propri e specifici valori e immagini.
La solitudine esistenziale, che già caratterizza una certa fase dello sviluppo sociale della personalità, viene incanalata e privatizzata, rendendo i singoli soggetti sempre più emarginati e soprattutto isolati nella loro specificità. Gli stessi gruppi di ragazzi e ragazze, talvolta diventano sempre più ulteriori mezzi di esclusione o separazione. Accanto a tutto ciò, incontrando ragazzi e ragazze, si può rilevare come il vissuto individuale si trasformi in due distinti, ma altrettanto forti, comportamenti: l'autoesclusione sociale o l'aggressività individuale e collettiva. Entrambi questi comportamenti sono risposte di per sé assolutamente normali e consuete in ogni generazione occidentale, che però l'immaginario sociale dell'opulenza e della permissività, trasforma in tragedie e violenze sconcertanti e disarmanti.
Ma dai ragazzi e dalle ragazze emergono chiare le richieste e i bisogni che hanno di far fronte al loro naturale disagio. Innanzitutto essere ascoltati senza essere giudicati, vale a dire poter esprimere le proprie volontà, idee, bisogni sapendo che vi è da parte dell'adulto una disponibilità empatica all'ascolto, non solo razionale ma anche emotiva. Poi una capacità da parte degli adulti di riconoscere dentro di loro la necessità di pensarsi e narrarsi come persone che sono state giovani e che quindi, senza rinunciare al proprio essere attuale, sappiano però riconoscere e rivivere bisogni e comportamenti di un'altra età. Infine coerenza nei comportamenti e nelle richieste, senza prediche moralistiche o precetti autoritari.
Un altro elemento di cui tenere conto quando si cerca di capire il comportamento degli adolescenti è quello di aver ben presente l'influenza e il significato più profondo che il gruppo esercita sul singolo. E se l'immaginario di questi gruppi è pesantemente condizionato da modelli sociali consumistici e aggressivi, l'appartenenza al gruppo stesso passa anche attraverso la condivisione di rituali e comportamenti collettivi. La fragilità di esseri umani in un periodo turbolento della propria evoluzione, unita ad una sociale influenza che mira all'avere, al possedere, all'apparire, determina comportamenti estremi pur di far parte di questo universo-mondo.
Ma, mi sono chiesto, queste considerazioni, che pure hanno importanza talvolta decisiva nello spiegare quanto succede, possono essere considerate esaurienti? Sono convinto di no, che altre ragioni magari più profonde possano essere trovate per spiegare fatti tragici di violenza individuale e di gruppo. Che la società nel suo insieme sia violenta, che la legge della competizione esasperata porti a conseguenze estreme, è sicuramente vero. Che il compito di ogni persona ragionevole sia quello di contribuire ad eliminare queste cause sociali di tanta sofferenza e disperazione, è indiscutibile.
Ma accanto a tutto ciò, e non è poco, mi sono chiesto che cosa può ragionevolmente fare un anarchico, che cosa possiamo dire di fronte alla morte e alla violenza, al razzismo e all'intolleranza che pure serpeggia, quando non è una conclamata realtà, tra ragazzi e ragazze, che cosa può portarli ad odiare la vita, quella propria e quella degli altri?

 

Un atto di libera volontà

L'odio per la vita, probabilmente, nasce dalla paura di vivere, dall'incertezza esistenziale che, invece che essere accettata e riconosciuta come una condizione foriera di slanci ed emozioni, progetti e azioni collettive ed individuali, ricerca di forme nuove di espressione e di sperimentazione, si trasforma in insicurezza, e poi di nuovo in paura, creando un circolo vizioso dal quale a volte diventa quasi impossibile uscire.
Allora deve esserci anche una responsabilità individuale, un atto di libera volontà che rompa il cerchio soffocante della cultura dell'inevitabile, della rassegnazione etica. L'affermazione dell'autonomia individuale e della libertà del singolo si ottiene solo con un comune riconoscimento comunitario, con la convinzione che non vi può essere uomo libero finché ve n'è uno di schiavo. Per uscire dal recinto della società globale e del pensiero unico, l'individuo deve superare una concezione e una pratica del tempo inteso come frammentazione di episodi, ma riconoscere che non vi può essere tempo senza spazio, libertà senza solidarietà. I giovani sono chiamati a collezionare individualmente e separatamente, sensazioni, a praticare un accumulo di emozioni alla ricerca di superare quel senso di estraneità che è in noi a causa di un mondo sempre più vicino virtualmente ma sempre più distante realmente.
Il comune lamento collettivo di esperti e santoni circa la caduta di valori rappresenta l'ennesima rimostranza di adulti ben inseriti che richiamano all'ordine frotte di giovani colpevoli di non riconoscere la straordinaria efficienza del nostro mondo così ricco di illusioni e di esempi di straordinario successo dei capi che governano il nostro pianeta. La presunzione contenuta nel piagnisteo dei media e dei potenti rivela invece che esiste la possibilità di prendere congedo da un universo di ideali, abbondanza, carriera, profitto, potere, ormai impresentabili sotto ogni aspetto ed ecologicamente inadeguati al vivere civile e umano.
Lentezza, solidarietà, spontaneità, autonomia, possono costituire la soluzione ideale alla schizofrenia sociale dei valori dominanti.

 

Un po' più di amore

In un contesto generale nel quale è stata proclamata la supremazia di una razionalità tecnologica e dove le emozioni, quando ci sono, vengono esclusivamente relegate alla sfera separata dell'individualità, occorre offrire ai ragazzi e alle ragazze spazi e tempi nei quali poter riconoscere se stessi negli occhi e nei sentimenti degli altri. Il desiderio e la paura di crescere non devono trasformarsi in insicurezza sociale ma al contrario in incertezza esistenziale, in condivisa e accettata identità personale.
Non si può sostituire la lotta per la conquista di una propria identità con scorciatoie permissive o con relazioni autoritarie. Bisogna fare fatica, lottare, confrontarsi con gli altri, misurarsi con se stessi, temperare la propria volontà autonoma da un lato e dall'altro non pretendere di giudicare o trasmettere esperienze, ma piuttosto stimolare la ricerca di risposte individuali in un dialogo che non ha sintesi.
Concludendo queste riflessioni mi preme solo ribadire che senza autonomia non vi è libertà e che senza un senso profondo e condiviso di appartenenza ad una comunità non si può tentare di sconfiggere la violenza della società e quella individuale. E l'appartenenza vera non può non essere sempre negoziabile e frutto di scelte libere ed autonome.
Ecco allora che il senso dell'anarchismo oggi, del suo poter costituire una possibile alternativa ai guasti tragici del mondo autoritario, si precisa proprio, rispetto ai giovani, come rispetto e ascolto libero da ogni pregiudizio, dei loro vissuti, dei loro sogni, delle loro speranze, ma soprattutto del loro richiamo ad avere un po' più di amore.

Francesco Codello