Rivista Anarchica Online


imperialismo

Il trionfo dei top gun
di Massimo Ortalli

La subordinazione all'America non deriva solo dalla sua forza economica e militare, ma anche da un irreversibile processo di sottomissione intellettuale che colpisce la maggioranza della popolazione del nostro continente.

 

 

Che l'equipaggio di un jet americano, vale a dire quattro caratteriali giunti da un qualche villaggio del mid-west, possa festeggiare il rientro in patria di uno di loro sfidando non solo le leggi della gravità, ma soprattutto quelle del buon senso è una di quelle cose incomprensibili ai più, che pur tuttavia succedono. Se si aggiunge la mancanza di rispetto per il prossimo che caratterizza il militare di carriera e in particolare l'esercito americano, specie quando si trova ad operare fuori dai propri confini, come pretendere che top gun strafottenti e onnipotenti si preoccupino delle conseguenze delle loro azioni? Pertanto, quando le bravate di quattro idioti arrivano a provocare la tragedia del Cermis, nella quale muoiono 20 turisti, non si tratta di un caso del destino, ma del tragico effetto di un comportamento profondamente colpevole e criminale. E protetto per di più dall'impunità.
È di questi giorni la pubblicazione degli atti della commissione d'inchiesta parlamentare sulla tragedia, e le sue conclusioni non fanno altro che confermare, purtroppo, quanto già si era capito fin dal primo momento: e cioè che nulla è imputabile al caso, ma solo ed esclusivamente alla temerarietà e all'inosservanza delle regole dei piloti.
Una cittadina italiana residente negli Stati Uniti partecipa, una ventina di anni orsono, alle attività di un gruppo rivoluzionario dedito ad espropri e rapine per autofinanziarsi. Nel corso di uno scontro una guardia viene uccisa da alcuni componenti del gruppo e la cittadina italiana poco dopo viene catturata. Pur riconosciuta estranea ai fatti, è condannata all'ergastolo solo perché, nel corso del processo, si rifiuta di fare la spia. Anni di feroce isolamento carcerario, torture fisiche e morali, impossibilità di curarsi, di comunicare con l'esterno, di leggere, di scrivere, di incontrare i propri cari: insomma un trattamento che, se venisse riservato agli oppositori di un qualche capetto asiatico, provocherebbe almeno due o tre guerre "umanitarie". Soltanto dopo anni di mobilitazione internazionale e in seguito all'intervento del governo italiano, sollecitato dalle proteste che tale barbarie ha suscitato in molteplici ambienti, questa cittadina è rientrata in Italia per scontarvi il resto della pena. Dietro l'umiliante e tassativo impegno, però, che il governo accettasse a scatola chiusa le condizioni americane per l'estradizione e la detenzione.

 

Gendarmi mondiali

La diversità di comportamento delle autorità americane rispetto ai fatti cui ho accennato è talmente stridente e offensiva che non dovrebbe nemmeno essere sottolineata: da una parte una "giustizia" inflessibile e rigorosa, a tolleranza zero, che cerca vendetta e si permette di dettare le proprie condizioni a uno stato che dovrebbe essere sovrano; dall'altra parte la stessa "giustizia" che si dimostra comprensiva e praticamente assolve i propri "ragazzi", impegnati a difendere la libertà del mondo in una lontana provincia dell'impero, affermando in sostanza che quei quattro bravi assassini intendevano solo divertirsi. E la commissione d'inchiesta del parlamento italiano non trova di meglio che fingere di stupirsi della clemenza della corte marziale, senza però fare commenti né pretendere spiegazioni! Ma cosa si è riunita a fare, allora?
Ma, dopotutto, perché meravigliarci se i giudici americani ci impongono, con le buone o con le cattive, le loro regole e le loro condizioni? Il loro modo di amministrare la giustizia, infatti, è diventato esemplare e stranoto in decenni di sceneggiati polizieschi e cronache giornalistiche. La cosiddetta tolleranza zero, ad esempio, non è solo la filosofia di lavoro del sindaco italoamericano di una grande metropoli, ma è diventata il sogno, il modello irrinunciabile di schiere di scimmiottatori nostrani che non ne capiscono, o fingono di non capirne, le potenzialità distruttive.

 

Vestiamo all'americana

Del resto, la subordinazione all'America non deriva solo dalla sua forza economica e militare, ma anche da un irreversibile processo di sottomissione intellettuale che colpisce la maggioranza della popolazione del nostro continente. Non è necessario ricordare l'emblematica scena di Un americano a Roma, quando il trasteverino Sordi riconosce la propria atavica identità solo di fronte a un piatto di spaghetti, per accorgersi di come si sia sedimentato il processo di colonizzazione culturale imposto dall'America. Chi non ricorda, ad esempio, che quando a milioni scendevamo in piazza per protestare contro l'intervento americano nel Vietnam, indossavamo blue jeans made in Usa e cantavamo le canzoni di Bob Dylan e Joan Baez? E che quanti criticavano il ruolo imperialista del capitalismo d'oltre oceano sognavano, al tempo stesso, di far parte di una società libera dalle pastoie del conformismo come quella americana?
Allora, comunque, esisteva una forma di pensiero critico, una specie di immunità, che faceva capire la pericolosità di quel modello se non se ne denunciavano anche le evidenti contraddizioni. Presto, però, le contraddizioni di quella società al tempo stesso reazionaria e permissiva, si sono mutate in quelle di una intera generazione che ha trasformato, tramite un processo metaforico di cannibalismo, il precedente impegno antimperialista in un senso di colpa collettivo. Illuminante quel coglione di Walter Veltroni, che sbandiera ai quattro venti il proprio amore per Topolino e per Kennedy mentre anni fa, dirigente della Fgci, incitava i compagni a denunciare i "crimini dell'imperialismo americano"? Oggi contrastare l'ingombrante presenza americana sembra un esercizio sorpassato se non, addirittura, imperdonabile. Eppure, riaffermare la pari dignità di tutti i popoli e di tutti i paesi, ribadire l'illegittimità delle pressioni e delle violenze che caratterizzano l'egemonia americana, rifiutarsi di portare il cervello all'ammasso del mito americano, non sono affatto esercizi stilistici.
I debiti che abbiamo con gli Stati Uniti sono grandi, soprattutto perché la dinamicità intellettuale e tecnologica che essi sono in grado di esprimere ha un potere di convincimento al quale è difficile sottrarsi. Molte delle innovazioni in quasi tutti i campi partono da scoperte e intuizioni nate in America e molti degli indicatori della qualità della nostra vita migliorano grazie all'apporto del know-how americano. La socializzazione del loro standard, inoltre, non deriva solo dalla volontà di affermare una supremazia e un monopolio sul pensiero occidentale, ma trova una ragione anche nell'inconscio desiderio di scambio paritario che è tipico del loro pionieristico e libertario modo di pensare. Detto questo, resta che l'enorme divario, tecnologico ed economico, che caratterizza i rapporti degli Usa con l'Europa – per non parlare coi paesi terzi – fa sì che allo scambio si sostituiscano irrimediabilmente la rapina e la sopraffazione. E venuto meno l'unico motivo per cui queste pratiche potevano trovare qualche giustificazione, cioè la funzione di ammortizzatori dell'imperialismo sovietico, diventa sempre più umiliante e dannoso tollerarne la prepotente violenza.

 

A parte Pearl Harbour

Gli Usa sono l'unico paese occidentale che non ha mai subito bombardamenti. Solo i giapponesi ci provarono attaccando la base navale di Pearl Harbour, nelle Hawaii, e quel lontano episodio rappresenta, nell'identità collettiva del popolo americano, non solo un motivo di vergogna, ma anche un punto di non ritorno riguardo al modo di relazionarsi con il mondo. Dopo quel bombardamento, che non fu affatto diverso dai tanti che si verificavano quotidianamente in Europa, si è formata una mentalità aggressiva, tipica della bestia ferita, che ha trasformato il tradizionale e neghittoso isolazionismo americano in volontà di potenza e aggressione. Da allora l'esercito statunitense è intervenuto in innumerevoli scenari di guerra, dispiegando una forza distruttiva spesso sproporzionata rispetto agli obiettivi. Durante la seconda guerra mondiale l'aviazione americana ha distrutto, con feroce brutalità, le città di mezza Europa e solo dopo l'allucinante distruzione atomica di Hiroshima e Nagasaki gli aerei americani sono tornati provvisoriamente alle basi. Per ripartire, puntualmente, ogni volta che si vedeva una minaccia, anche minima, alla propria sicurezza. E infatti questi ultimi cinquant'anni ci hanno regalato i bombardamenti di Panama, di Grenada, della Somalia, del Nicaragua, dell'Iraq, del Vietnam, del Laos, della Cambogia, della Serbia, della Corea, della Libia…
L'aspetto più sconcertante comunque è che gli americani cercano sempre di coinvolgere altri paesi, spacciando i propri scopi come espressione dell'interesse collettivo e della difesa della libertà comune. È fuor di dubbio, ad esempio, che anche l'Inghilterra, la Germania, l'Italia, scendendo in campo a fianco dell'America nelle guerre contro Iraq e Serbia, abbiano pensato di tutelare i rispettivi interessi economici e strategici. Ma nessuno può credere che senza le direttive americane i paesi europei avrebbero preso l'iniziativa di combattere a difesa degli emiri del Kuwait o del popolo kosovaro. Eppure, nonostante forti pressioni interne contrarie all'intervento, i governi europei (ad eccezione forse di quello inglese, più realista del re) hanno ubbidito con esemplare disciplina agli ordini del Pentagono. Del resto, il padrone non esiste se non ha un servo cui comandare!
Il popolo americano vive nella ferma convinzione di possedere il migliore sistema di valori, il migliore sistema politico, la migliore espressione delle libertà democratiche. Neppure le recenti vicende elettorali, che hanno spinto il governo libico a chiedere spiritosamente che venissero mandati osservatori internazionali per controllare la regolarità del voto, hanno scalfito questa certezza. Del resto, è da tale convinzione che nasce l'arrogante rifiuto, non solo di mettere in discussione i propri modelli, ma addirittura di compararli con qualcosa di diverso. Ed è in nome della pretesa universalità dell'american way of life, della necessità di difenderla da qualsiasi minaccia e promuoverla a livello planetario, che tutto diventa accettabile e giustificabile: lo strapotere delle multinazionali, la commercializzazione degli Ogm, le guerre "umanitarie", l'espropriazione delle ricchezze dei paesi poveri, le trame della Cia, i golpe in Africa, Asia e Sud America, gli embarghi ai paesi "nemici", l'utilizzo dei proiettili all'uranio, la sterilizzazione forzata delle donne andine negli anni sessanta e il taglio ai contributi federali per il controllo delle nascite della nuova amministrazione Bush, ecc. ecc.

 

L'attrazione per il lettino

Poiché niente deve mettere in pericolo la solidità e l'intangibilità del sistema, tutte le efferatezze e le infamie necessarie a garantire la "tranquillità" del popolo americano entrano a far parte di un universo morale di cui solo esso detiene il controllo. Un ingombrante superego collettivo, che ben spiega l'attrazione degli americani per il lettino dello psicanalista, si manifesta attraverso un processo di auto considerazione che esclude dal proprio universo etico e morale qualsiasi altra opzione. Tutto diventa permesso perché il "nobile" fine di preservare la Libertà consente che a questa si sacrifichino le piccole libertà degli altri popoli. E, con le libertà, le risorse, le culture, le tradizioni, gli interessi… la vita stessa, insomma. Forse è fuori moda fare ancora, dopo tanti anni, queste considerazioni, ma è questo l'imperialismo, ragazzi, questo e nient'altro!

Massimo Ortalli

P.S. La United Fruit è quella multinazionale che negli anni sessanta finanziò qualche decina di sanguinosi colpi di stato in America Latina. Oggi le sue banane, le famose Chiquita col bollino blu, si trovano in cattive acque e la compagnia deve fronteggiare perdite di svariati miliardi di dollari. È bastato che l'Europa decidesse di privilegiare le più gustose banane africane e antillane, ed ecco!, il bollino blu rischia di scomparire. Chissà!?