Rivista Anarchica Online


dibattito anarchismo

L'Anarchismo, il presente e la democrazia
di Franco Melandri

Nel dibattito aperto da Francesco Berti sul n. 265, dopo Piero Flecchia (266 e 267), Cosimo Scarinzi (267) e Pietro Masiello (267) interviene ora Franco Melandri.

Il saggio di Francesco Berti sulle implicazioni dell'analisi malatestiana del fascismo ha, come ogni saggio intelligente, il merito di stimolare diversi livelli di lettura e di dibattito, anche se il suo centro, come è stato rilevato negli interventi successivi, è indubbiamente quello del rapporto fra anarchismo e democrazia. Tale questione attraversa da sempre, più o meno sotterraneamente, le teorie anarchiche e il movimento anarchico, ma solo negli ultimi decenni ha ritrovato quella centralità che ebbe in momenti decisivi per l'autodefinizione dell'anarchismo stesso (quali, ad esempio, furono la deriva parlamentare di Andrea Costa e soprattutto la polemica fra Malatesta e Merlino), con la non piccola differenza, però, che ora come mai su tale dibattito è in gioco l'autoconsapevolezza che l'anarchismo ha di sé. Oggi, infatti, la questione della democrazia si presenta come uno dei punti cruciali che l'anarchismo non può non affrontare, mentre, dall'altra parte, è proprio affrontandolo che esso si trova messo radicalmente in gioco, sia teoricamente che politicamente-propositivamente, in quanto la "questione democratica" riguarda direttamente (a questa rimandando) la questione della rivoluzione, cioè la possibilità (e la concezione) di quell'evento che, almeno a prima vista, settanta o cento anni fa faceva sì che la tematica della democrazia fosse considerata "bypassabile". Proprio per questa pregnanza, però, un tale riesame non può essere compiuto rimanendo sostanzialmente sul terreno storico (come mi pare abbia fatto Flecchia) e neppure principalmente ricorrendo alla vis polemica, seppur garbata (come ha fatto Scarinzi), mentre deve avere il coraggio di andare al fondo -analiticamente, criticamente e speculativamente- delle questioni che la realtà pone, affrontando con disincanto anche quegli aspetti di essa che la lettura ideologica lascia in ombra o cela del tutto.
Proprio l'analisi - non solo storico-politico-sociologica, ma anche filosofico-concettuale - della realtà in cui viviamo si rivela anzi essenziale per una tale disamina. Se si pensa, infatti, che la realtà attuale sia diversa da quella dell'Ottocento, o del primo Novecento, solo, o principalmente, dal punto di vista "quantitativo", certo la riflessione di cui si parla non è necessaria (anche se, soprattutto in questo caso, non andrebbe dimenticato che, come più o meno diceva Hegel, "la quantità è qualità"), e le teorie e le analisi più o meno "classiche" necessiterebbero al massimo di qualche superficiale "messa a punto". All'opposto, se si pensa, come io penso, che il mondo di questo crinale di millennio sia, per una notevole quantità di aspetti, "qualitativamente-costitutivamente" diverso da quello che l'ha preceduto, questa riflessione si rivela non solo necessaria, ma inderogabile.
La differenza del nostro tempo da quelli che l'hanno preceduto è palmarmente visibile a partire da una semplice costatazione: mentre nella seconda metà del secolo XVIII, in gran parte del XIX e nell'inizio del XX, la rivoluzione - cioè la trasformazione accelerata e violenta dell'assetto sociale, per usare una definizione "classica" - era all'ordine del giorno in gran parte del mondo sviluppato, oggi, almeno nell'Occidente (che è poi quella parte di mondo da cui il mondo nella sua globalità dipende), di essa non è possibile vedere, neppure con l'ottimismo più sfrenato, non solo i prodromi, ma neppure i presupposti.
Sono sotto gli occhi di tutti le profonde trasformazioni tecniche, sociali, culturali che per molti aspetti, e non solo nell'Occidente (e per "Occidente" si deve oggi intendere non solo l'Europa occidentale e gran parte dell'est europeo, ma anche il nord-America, l'Australia e una buona parte dell'Asia tecnologicamente sviluppata, cui vanno aggiunte, pur se in tali aree permangono forti elementi di differenziazione, l'America meridionale e la Russia), hanno minato profondamente la centralità politico-sociale del proletariato e delle classi popolari, trasformazioni la cui portata diventa evidente se solo riflettiamo su un semplice fatto.

 

Cultura di massa

Uno dei motti fondamentali della Prima Internazionale era "L'operaio ha fatto tutto, può distruggere tutto, perché tutto può rifare" e nell'icasticità di tale motto stava l'intera situazione sociale ottocentesca ed il motivo per cui l'anarchismo vi corrispondeva. Allora, infatti, le competenze tecniche, culturali, relazionali che il proletariato possedeva in virtù della sua stessa condizione di possibilità erano essenziali, sia praticamente che socialmente, per l'intera società, la quale, in tal modo, dal proletariato dipendeva. Oggi sicuramente non è più così, le trasformazioni sociali e culturali avvenute soprattutto nell'ultimo secolo hanno indubitabilmente mutato proprio quelle condizioni di possibilità. Innanzitutto, infatti, non vi è più, se non come recupero unicamente folkloristico, alcuna "cultura popolare", cioè un modo di essere specifico di una parte sociale, che era quanto rendeva praticamente possibile che, per dirla con Marx, la "classe in sé" potesse diventare "classe per sé".
La cultura popolare è stata oggi sostituita dalla cultura di massa (che è poi quanto rende possibile a livello folkloristico il recupero di aspetti esteriori della cultura popolare), la cui caratteristica fondamentale è di coinvolgere allo stesso modo, e con la stessa visione, classi ricche e ceti popolari. È in virtù di questa trasformazione, che, per rimanere all'attualità, diventa facile identificare l'elemento forte di identità nell'"etnicismo" - cioè nella lingua, nella religione, nell'aspetto fisico - e quindi scatenare guerre nazionalistiche come quelle cui abbiamo assistito nell'ex Jugoslavia. Se, infatti, quel che mi distingue dall'"altro" non è più un diverso "sentire" (cioè un modo diverso di "essere nel mondo") che illumina e mi permette di agire la mia situazione sociale, ma principalmente il fatto che io parli una certa lingua o frequenti un certo tempio, ecco che mi troverò più facilmente a solidarizzare col padrone della fabbrica in cui lavoro, che parla la mia lingua e ha la mia stessa religione, piuttosto che con l'operaio della città vicina, che parla un'altra lingua e ha un credo diverso.
L'altra grande trasformazione avvenuta riguarda le competenze tecnico-produttive necessarie all'economia, riguardo alle quali non si può non notare come oggi non vi sia più alcuna classe (o ceto) numericamente e socialmente significativa che di per sé, cioè in virtù della sua stessa condizione di esistenza, possegga alcuna competenza necessaria alla produzione economica. Infatti, mentre da un lato, con la rivoluzione elettronica, la possibilità di acquisire le competenze tecniche di base si è oggi diffusa in quasi tutto il corpo sociale, dall'altro lato gran parte del lavoro manuale si è oggi totalmente dequalificata, al punto che la manodopera necessaria in gran parte delle produzioni può esservi immediatamente inserita, così come, per lo stesso motivo, può essere subitaneamente sostituita da nuovi macchinari o abbandonata a favore di quella di più favorevoli aree geografiche.
Tutto questo ha fatto sì che, se anche può restare vero che "l'operaio ha fatto tutto", esso non possa più "distruggere tutto", perché non sarebbe poi più in grado di ricostruire non tanto l'esistente, ma neppure quanto sarebbe in ogni caso necessario alla continuazione della vita sociale e individuale. Una riprova di questo fatto l'abbiamo in Africa, cioè proprio in una delle aree del mondo in cui guerre civili e rivoluzioni più o meno "classiche" continuano ad avvenire. Praticamente in tutti i paesi sconvolti dalle guerre civili (come la Liberia, il Rwanda, eccetera), infatti, le parti in lotta non solo si depredano a vicenda di armi, di mezzi, di macchinari, di utensili, ma tutte finiscono per abbandonare quanto via via diventa inutilizzabile perché incapaci di modificarlo o di pensarne un uso diverso, così impoverendosi sia materialmente che culturalmente.

 

La questione del totalitarismo

Tutto ciò (che certo meriterebbe analisi ben più profonde di quelle qui tratteggiate) ha fatto sì che la finzione su cui l'Occidente si è costituito per come lo conosciamo, l'idea di "cittadino" (cioè dell'individuo riconosciuto come parte della polis al di là della sua situazione sociale, culturale, economica), assumesse una rilevanza diversa da quella che aveva anche solo nell'800, poiché è probabilmente diventata una delle poche categorie concettuali socialmente condivise a poter fungere da griglia interpretativa per le innumerevoli singole esistenze che compongono oggi non solo le società occidentali, ma gran parte delle società vigenti (una trasformazione, questa, che proprio l'espansione planetaria della cultura europea ha progressivamente reso ineluttabile). Ma, come bene dimostra Carlo Galli nella conversazione pubblicata su Libertaria n° 2/2000, la categoria del "cittadino" è impensabile se non come contraltare di quella polis che lo rende possibile, la quale, a sua volta, non si dà "di per sé" e che, per essere "reale", cioè socialmente agita, deve essere, in qualche modo, come tale "rappresentata" (nel senso della rappresentazione, la quale è condizione di possibilità della rappresentanza, cioè a dire che è necessaria l'istituzione di un "teatro" come tale condiviso a rendere poi possibili e rappresentabili le "parti in commedia"). In questo senso la "sfera politica", di cui la democrazia è una "declinazione", è, come già sapevano i greci della polis ateniese, una condizione ineludibile, e come tale ineliminabile, di ogni società consapevole di sé, una consapevolezza che a sua volta è condizione di possibilità per poter operare in essa delle trasformazioni governabili.
È qui che, a mio parere, risiede il nocciolo della "questione democrazia". Se, infatti, non si hanno chiare e presenti tali questioni diventa facile, quasi scontato, pensare alla democrazia come fatto principalmente "formale", come principalmente formale diventa la questione del totalitarismo, mentre se si riconosce che tali problemi sono ineludibili l'intera faccenda assume immediatamente connotati diversi.
L'anarchismo, come da decenni ripete instancabilmente Nico Berti, è principalmente, se non del tutto, figlio di quella modernità che ha presentato la "società" come un fatto praticamente scontato. Ne è figlio a tal punto da non essere in grado di vedere come la "società" cui esso si riferisce non sia un dato naturale, o naturalistico, e non possa quindi essere confusa con lo "stare insieme" degli esseri umani: la differenza fra questi è la stessa che passa, per fare un parallelo, fra l'accoppiamento sessuale e l'erotismo. La "società", insomma, non è un "dato", una evidenza che si dà di per sé, ma è essa stessa una rappresentazione, una costruzione concettuale (o il prodotto di un "immaginario sociale", per dirla con Castoriadis), ed è quella costruzione concettuale che diventa visibile solo quando si "fuoriesce" da essa e ci si pone in un altro punto di vista: quello della politica. È l'accedere ad un punto di vista "politico", cioè quello per cui si guarda alla polis come se non se ne facesse parte costitutiva, che fa sì che tutto ciò che intercorre fra gli esseri umani (relazioni di forza o d'amore, interessi materiali e intellettuali, passioni, cultura, modi di essere, e così via) si dia come prodotto degli esseri umani stessi, e quindi diventi disponibile per la loro volontà di trasformazione.
Ma se la società non è come tale un dato e se essa si rivela trasformabile solo ponendosi nel punto di vista della politica, due sono le conseguenze che ne derivano. La prima è che, anche dove si riveli possibile praticamente, la rivoluzione non può eliminare la questione della politica, la quale, come hanno dovuto apprendere sulla loro pelle gli anarchici russi nel '17 e quelli spagnoli nel '36, dalla rivoluzione non è "risolta" come tale (cioè eliminata a favore di qualcos'altro), ma semplicemente "dislocata" in ambiti ed istituzioni più o meno dissimili da quelli presenti nell'assetto sociale pre-rivoluzionario. La seconda è che, se la politica non è eliminabile come tale, diventa necessario riconoscere come tale spazio non possa essere abbandonato, ma debba anzi essere agito continuativamente (e non solo dopo l'eventuale "grande soirée" rivoluzionaria) da chi propugna il mutamento sociale, la qual cosa a sua volta significa che la semplice presenza "antagonista" (termine e concetto su cui tantissimo ci sarebbe da dire) non solo non basta, ma è scarsamente significativa proprio perché rifugge dal confrontarsi con la politica come tale e, al massimo, rimane sul terreno dell'etica.

 

Inevitabile questione

Tutto questo, ovviamente, non vuol dire che si debba (come troppo semplicisticamente, e un po' irrisoriamente, ventila Scarinzi nel suo intervento) accettare la democrazia così com'è, né che essa sia insuperabile in quanto specifico sistema giuridico-istituzionale, mentre invece vuol dire che, come si diceva all'inizio, il rapporto dell'anarchismo con questa, così come con la politica da cui la democrazia discende, deve essere ripensato. Quel che a me pare, in sostanza, è che l'inevitabile questione che l'anarchismo deve affrontare se vuole restare teoria e movimento significativo sia quella di ridefinirsi, passando da quel che esso è ancora -cioè un'etica che non si autoriconosce compiutamente come tale e che, di conseguenza, si pensa come di fatto corrispondente alla "natura" degli esseri umani in quanto tali- ad un "qualcosa" di cui tutt'ora non si vedono i contorni, ma di cui certo non si può negare la necessità.
Questo "qualcosa" non potrà certo, come detto, identificarsi tout court nella democrazia così come la conosciamo, ma è altrettanto certo che, dall'altra parte, non potrà non riconoscere che questa, almeno dal punto di vista delle possibilità d'azione e di crescita individuale e collettiva che permette, è sostanzialmente diversa, e migliore, non solo dei totalitarismi, ma anche delle altre forme sociali esistenti (ad esempio la teocrazia iraniana o dei talebani, le forme di governo mafiose e autoritario-militari così diffuse in Africa e Asia), da poco passate (leggi fascismi e comunismo di "marca sovietica") o propugnate da qualcuno sia a destra che a sinistra, come è il caso di quasi tutti i "bioregionalismi" di impronta organicistico-comunitaria.
Questo "qualcosa", inoltre, non potrà non riconoscere il fatto (che è, in parte almeno, anche alla base delle democrazie esistenti) che, garantita a tutti la possibilità di accesso e di azione nello spazio politico (e questa è una battaglia da fare continuativamente, perché mai risolta per sempre, sia sul piano politico-culturale che su quello economico-sociale), ogni trasformazione sociale non può pensarsi né volersi - anche se fattualmente può diventarlo - come irrevocabile o come corrispondente ad una supposta (e tutta da dimostrare, ma io penso sia indimostrabile) "natura umana".
Io non so dire se un tale "anarchismo politico" sia possibile o no, anche se spero lo sia, quel che so è che solo la sua ricerca è oggi ciò che può rendere ancora dotato di senso culturale, sociale e politico il dirsi anarchico.

Franco Melandri