Rivista Anarchica Online


 

Nonviolenza in cammino

La nonviolenza è in cammino è un notiziario con periodicità che vorrebbe essere quotidiana diffuso unicamente per e-mail. Lo redige il "Centro di ricerca per la pace di Viterbo" ed è inviato per posta elettronica a chiunque ne faccia richiesta (ma può essere letto anche sulla rete telematica pacifista Peacelink, che lo pubblica nell'archivio delle mailing-list "peacelink news" e "pace").
Nato alla fine di agosto per documentare le riflessioni e le iniziative viterbesi in preparazione della marcia Perugia-Assisi del 24 settembre 2000, dopo la marcia le pubblicazioni sono proseguite dapprima per ospitare gli interventi e le proposte di chi vi aveva preso parte, poi per continuare un'esperienza di riflessione e discussione che ad alcuni interlocutori pareva interessante.
Gli intenti del notiziario sono: dare notizia di iniziative nonviolente o di movimenti ed esperienze che alla nonviolenza si richiamano; proporre temi di riflessione e suscitare ricerche e dibattiti; segnalare opere, autori, esperienze di riferimento o comunque degne di menzione; mettere a disposizione materiali di lavoro.
Gli interlocutori a cui il notiziario si rivolge sono assai diversificati: mezzi d'informazione; persone e gruppi già interessati alla proposta della nonviolenza; persone e gruppi impegnati per la pace, l'ambiente, la giustizia, i diritti, nella solidarietà, nell'educazione e la formazione, o comunque nelle lotte politiche, sindacali, sociali, e almeno potenzialmente interessati alla nonviolenza o ad alcuni suoi aspetti (tecniche di deliberazione e di lotta, strategie e dinamiche, esperienze storiche, progetto sociale, fondamenti teoretici e morali).
Ne consegue che alcuni interventi e materiali hanno carattere panoramico, introduttivo o meramente informativo, altri di approfondimento e discussione, e che il notiziario segnala, documenta ed ospita posizioni, esperienze e riflessioni diverse e sovente in feconda tensione e fin esplicito contrasto tra loro.
Tutto ciò giova alla chiarezza? Tutto ciò costituisce un contributo alla causa della dignità umana? Tutto ciò è parte attiva di un impegno di verità e di liberazione? Io che scrivo queste righe vorrei crederlo, lo spero, ma non ne sono certo; nel dubbio comunque proseguiamo le pubblicazioni.
Per richiedere "La nonviolenza è in cammino" inviare una e-mail alla redazione, al recapito di posta elettronica nbawac@tin.it

Peppe Sini

Tra potere e filosofia

Nel suo libro Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci. (Sellerio editore, Palermo, Lit. 18.000, pp. 234) Luciano Canfora contrappone "teologica dedizione ad una 'verità' incomprensibile" ad "incoercibile impulso razionale di matrice filosofica" (p. 192), e presenta quindi la filosofia come irrimediabilmente contrapposta al potere, che di presunte verità del tutto incomprensibili fa sempre un uso abbondante, da che mondo è mondo.
Inizia, ovviamente, con il processo a Socrate. Continua con il fallimento di Platone a Siracusa, dove avrebbe dovuto guidare il locale tiranno Dionigi nell'edificazione del "giusto" regime, e, invece, fu costretto a tornare ad Atene, dove quel macedone di Aristotele gli rompeva le uova nel paniere. E conclude con la morte violenta di Aristotele, avvelenato non si sa se dai greci (era una superspia del suo pupillo, il sovrano macedone Alessandro, padrone della Grecia ed impegnato in interminabili campagne militari), o dai macedoni, come mandante di una congiura contro lo stesso Alessandro: sembra più probabile la seconda ipotesi, perché muore dopo aver rotto i rapporti con il grande sbudellatore. A latere, Anassagora fuggito da Atene, Ipazia squartata da una squadraccia di monaci cristiani in un giorno di "Quaresima" dell'anno 415, Cartesio avvelenato dai gesuiti, Husserl che perse la cattedra per mano dei nazisti, e, potremmo aggiungere, i violenti attacchi di Lenin all'empiriocriticismo di Avenarius e Mach, in quanto rappresentante della "scienza borghese", che erano in effetti rivolti a Bogdanov e ad altri esponenti della sinistra del suo stesso partito bolscevico.
La tesi è ben poco convincente. Ipazia indossava regolarmente, secondo lo stesso Canfora, il "mantello dei filosofi", che era "una sorta di divisa indossata dalle allieve di Platone" (p. 197). Allora, era il mantello "delle filosofe"; donne che, per esercitare la professione, dovevano camuffarsi, in una società dove alla differenza sessuale corrispondeva una forte asimmetria in termini di potere. Anche rimanendo fra i privilegiati, per ogni Husserl ci sono sempre un Heidegger ed un Gentile, per ogni Cartesio ci sono un Locke, un Leibnitz, un Berkeley ed un Kant, che con i rispettivi sovrani hanno tenuto buoni se non ottimi rapporti, tanto da, nel caso, subire il loro stesso destino sfavorevole, come Gentile con Mussolini. Ad Atene, la scuola platonica fu abolita nel 529 d.C., ma Damascio e i suoi accoliti poterono riparare in Persia (mentre altri filosofi facevano carriera nel mondo cristiano): solo due anni dopo il diritto di professare il platonismo all'interno dell'Impero cristiano fu sancito nel trattato di pace fra Giustiniano e Chosroe I, re di Persia; e tale diritto, nota bene, fu riservato a Damascio (p. 203). Dunque, se Canfora parla di "persecuzione antifilosofica" da parte di Giustiniano, anche rimanendo a quanto lui stesso dice, essa non riguardava tutti. Il caso di Damascio sarebbe "paradossale" perché un filosofo greco viene protetto dal re di Persia contro il suo stesso sovrano: ma, allora, lo schema che contrapponeva filosofia e potere va a farsi benedire.
La tesi di fondo del libro si dimostra estremamente debole, poi, da un altro punto di vista: anche se di un "impulso razionale di matrice filosofica" avesse senso parlare, l'assunto andrebbe in ogni caso corretto, rilevando che ben magre sono state le soddisfazioni che esso ha saputo procurarsi, ed anche il suo significato andrebbe meglio approfondito, portando l'attenzione sui tratti costitutivi della suddetta "matrice filosofica", argomento su cui Canfora, invece, non si espone per nulla. Infine, proprio la ben curata ricostruzione storica che ci viene offerta contiene elementi utilissimi per dimostrare che i filosofi hanno sempre giocato alte poste al gioco del potere. E, così, qualcuno ci ha lasciato le penne prima del tempo. Il mestiere è pericoloso, insomma, sì, ma non perché porta irrimediabilmente allo scontro con il potere; al contrario, si tratta di una posizione di potere. Fa parte dei suoi rischi perdere la veste autorevole faticosamente conquistata, o dover rinunciare al dominio che si voleva esercitare. Nel momento in cui si propone di convincere gli altri, di solito i potenti, anziché cercare di sopraffarli fisicamente (questo sembra intendere Canfora con l'espressione "impulso razionale di matrice filosofica"), come fa Platone a Siracusa, sulla scia delle discussioni ateniesi in cui Socrate secondo lui l'aveva sempre vinta (tranne che al processo dove questo proprio non si può sostenere se non affermando che il maestro voleva morire, come infatti dice l'altro suo allievo Senofonte), il filosofo usa una strategia, che può risultare più o meno efficace a seconda delle situazioni. Su questo punto va fatta chiarezza: il filosofo può svolgere le sue argomentazioni solo se incontra quella tolleranza per le differenze di opinione che da parte sua avversa, in nome della sua superiore "conoscenza". Per Socrate, sempre e comunque, "uno (o pochi) si contrappongono, ma purtroppo soccombono, ad una maggioranza che ha torto ma prevale in quanto maggioranza" (p. 19). Platone prosegue logicamente, affermando "tutto il potere ai filosofi", e conclude la sua vita rognando che "bisogna estirpare dall'intera vita di ciascun individuo lo spirito di indipendenza", che, dice Canfora, egli chiama "anarchia" (p. 91).
Pur sostenendo una tesi non convincente, questo libro ha il merito di raccontarci per filo e per segno, fra le altre vicende, la farsa bibliografica di Aristotele. Fu Silla a prelevare i documenti da Atene, conquistata militarmente, per fare terrorismo culturale a Roma. Si trattava di appunti scritti da mani ignote. Presupponevano che il lettore avesse udito una voce, sulle cui parole si doveva tacere, se non per porre un'umile domanda faccia a faccia. In una lettera, Aristotele riferisce ad Alessandro che "essi" (gli scritti, va bene, ma quali ?) "hanno circolato". Ma, aggiunge "è come se non fosse accaduto: in quanto possono essere capiti soltanto da chi ha ascoltato le nostre lezioni" (p. 147). Per di più, gli originali erano marciti nella cantina dei discendenti dell'allievo designato alla successione, che abbandonò Atene per la stizza di non essere stato eletto dai colleghi, irrispettosi del testamento morale del maestro. Quando, ridotti a brandelli, furono finalmente venduti, l'acquirente ateniese, tal Apellicone, ne ricavò, copiando e inventando, dei testi: quelli sequestrati da Silla. In Roma, Tirannione ed Andronico costruirono i famosi "trattati", ma siamo oramai in epoca augustea, quando le acque si sono calmate (e sotto la censura asfissiante del nipote di Giulio Cesare).
Inoltre, Canfora rileva che, se si leggono dall'inizio alla fine questi trattati, i concetti cui essi sono dedicati subiscono drastiche riformulazioni. Per fare un esempio, prende giustamente la nozione di "democrazia", che muta di libro in libro: all'inizio degli otto libri dedicati alla "Politica" è il "governo del maggior numero", ed alla fine, invece, troviamo il "governo dei nullatenenti, quale che sia il loro numero" (p. 146). Del resto, sarebbe stato molto strano che despoti come Silla ed Augusto avessero promosso tesi anche timidamente favorevoli alla democrazia. Aristotele era nato a Stagira, in Macedonia, paese del cui sovrano suo padre era nientemeno che il medico personale. Il re morì avvelenato dalla moglie, che voleva favorire il figlio diciassettenne Alessandro, il cui tutore era appunto Aristotele, che era stato mandato alla scuola di Platone per apprendere le arti del "giusto" sistema di governo. Addio, estimatori dello Stagirita "democratico".
Le riformulazioni del concetto di "democrazia" testimoniano la precarietà della sistemazione data alle lezioni ateniesi di Aristotele; lezioni che, del resto, non conseguirono, in più di tredici anni, un assetto stabile. Detto da Canfora, che non sembra accorgersi di quanto venga inficiata la sua tesi di fondo sul rapporto fra potere e filosofia, da queste considerazioni: "l'edizione di Andronico, matrice di tutto quanto nei millenni successivi è stato letto e apprezzato come opera di Aristotele (compresa ovviamente la lettera ad Alessandro di cui sopra, inclusa nell'edizione di Andronico, ndr.), fu insidiata, in radice, da due inconvenienti: uno fattuale, e cioè la pessima qualità del testo, 'depravato' da Apellicone, e uno soggettivo, e cioè il proposito di dare forma organica e compiuta a qualcosa che non era mai stato tale" (p. 147). Inoltre, "gli studiosi arabi includevano sotto il nome di Aristotele anche testi non suoi ('suoi' va riferito ovviamente all'edizione di Andronico, ndr.) e commenti" (p. 102).
Spero che, in un prossimo libro, Canfora si occupi della teoria della conoscenza che in quei "trattati" sarebbe contenuta, e delle vicende del suo termine cruciale: "astrazione". Per ora si limita ad affermare che, secondo Plutarco, i libri sulla "Metafisica" sono un chiaro esempio del carattere "quasi iniziatico" di quei testi (p. 147).

Francesco Ranci