Rivista Anarchica Online


contro gli ordini

All'albo siam fascisti
di Rinaldo Boggiani

Furono i Gesuiti, nell'Ottocento, a proporre che i giornalisti fossero obbligati ad iscriversi ad un Albo professionale. Da allora...

 

Perché in Italia c'è l'albo dei giornalisti? A chi mai è venuta l'idea di schedare chi scrive? Una gran bella idea se ci pensiamo un po': facciamo l'esame a chi vuole esercitare la prima delle libertà, quindi commissioni, programmi, temi da fare in un certo modo, libri da scrivere, libri da consigliare, corsi, esami, raccomandazioni, restituzione di favori; costruiamo un elenco dei promossi e, una volta promossi, in riga e ben allineati. Insomma perché e da chi l'idea della tessera?
Nel primo editoriale del 1850 di Civiltà Cattolica (la rivista dei gesuiti istituita nel 1850 per volere di Pio IX) si legge: "per insegnar grammatica ai putti ci vogliono non so quanti anni di stage e quanti brevetti di capacità; ma a timoneggiare la pubblica opinione basta... basta che? io non saprei definire il minimum della capacità richiesta per essere giornalista, in quanto se per impossibile potesse esercitarsi questo mestiere senza saper leggere e scrivere, l'essere analfabeta non ne sarebbe per certo un impedimento".
"Ed è cosa così indifferente" scrive la rivista in un editoriale del 1856, "che sia onesto o malvagio, dotto od ignorante colui che ogni mattina manda in giro per tutta Europa dodici, sedici, venti colonne, che attossicate vi porteranno la morte? Oh se premesse davvero l'educazione del popolo, allora sì che costoro dovrebbero subire un esame che a più d'uno farebbe passare il ruzzo di sputar sentenze".
L'istituzione di un sistema che selezioni coloro che possono scrivere sulla stampa periodica, è nei programmi politici dei gesuiti.
"Il giornalismo non ha nessuna garanzia" scrive ancora Civiltà Cattolica il 4 dicembre 1883: "Mentre ad insegnar l'abbiccì in una scoletta di bambinelli si vogliono studi lunghi, esami, difficili e costose patenti; per fondare una gazzetta, ossia piantar cattedra di filosofia, diritto, storia, scienze naturali, d'ogni cosa insomma, ed influire nei destini d'uno Stato basta che il cittadino sia maggiore d'età e goda del libero esercizio dei diritti civili. Quindi l'avvocato senza clienti, il professore senza scolari, il medico senza ammalati, il bocciato agli esami di laurea, l'impresario fallito, l'impiegato a spasso e tutta siffatta roba che non ha nulla da perdere e nulla da guadagnare, trova sempre spalancata la porta del giornalismo".
E ancora nel 1913: "Il peggio è che la professione di giornalista è libera nel suo esercizio da qualunque impaccio, non richiedendosi né prova d'idoneità, né abilitazione, né garanzie di moralità, Insomma di tanti esami e patenti, la stampa n'è affatto immune. In nome del popolo sovrano ogni educatore deve possedere il suo certificato in carta bollata, dal dotto universitario al sottomaestro di villaggio. N'è fornita perfino la suora che vigila sui marmocchi nei giardini d'infanzia; solo il grande pulpito della pubblicità è libero; qualunque mestatore o farabutto può salirvi in veste da profeta per esprimere la sua opinione".

 

Ideologia di vertice

"Con l'istituzione dell'Albo professionale" scriverà Ermanno Amicucci, il proponente della legge che istituisce Ordine e Scuola di giornalismo, futuro Segretario Generale del Sindacato Nazionale Giornalisti, ultimo direttore del Corriere della Sera dell'era fascista, "il Fascismo ha risolto questo problema: che usurpatori non autorizzati s'impadroniscano d'un potere. Non sarà più possibile d'ora innanzi fare del giornalismo, l'agognato refugium peccatorum, il comodo asilo di tutti i profughi, il ricorrevo di molti spostati; per esercitare la professione di giornalista, a norma delle disposizioni contenute nel regolamento per l'Albo, occorrerà possedere ben determinati titoli culturali e morali".
Art. 7 legge 31 dicembre 1925, n. 2307: "È istituito un ordine dei giornalisti che avrà le sue sedi nelle città ove esiste corte d'appello".
L'albo risponde a un'ideologia di vertice, di controllo, di comando, di pianificazione quindi, che i fascisti accolgano l'idea dei gesuiti, non fa certo meraviglia, anzi è la conferma che un'organizzazione dall'alto non può rinunciare a un tale controllo.
Con la caduta del fascismo, la neonata democrazia avrebbe dovuto abolire l'albo, metterlo fra i tristi ricordi della follia totalitaria: quelli da far studiare ai ragazzi per alimentare la memoria storica.
Ma gli obiettivi politici della nuova classe dirigente, erano altri. Come cancellare un tale strumento di potere? Un veloce maquillage e voilà, il gioco è fatto. I giuristi, quelli che vivono all'ombra della sedia del principe, si misero al lavoro cambiando alcune parole. Così l'art. 4 del regio decreto del 26 febbraio 1928, n. 384: "L'albo dei giornalisti è composto di tre elenchi, uno dei professionisti, l'altro di praticanti, il terzo di pubblicisti" diventò l'art. 1 della legge repubblicana del 3 febbraio 1963, n. 69: "È istituito l'ordine dei giornalisti. A esso appartengono i giornalisti professionisti e i pubblicisti, iscritti nei rispettivi elenchi dell'albo". E ancora:
Regio decreto 26 febbraio 1928, a. 1: "Presso ogni sindacato regionale fascista dei giornalisti esistente nel regno è istituito l'albo professionale per i giornalisti. I giornalisti che siano residenti nelle colonie, sono iscritti nell'albo professionale di Roma".
Legge repubblicana del 3 febbraio 1963, n. 69, a. 26: "Presso ogni Consiglio dell'Ordine regionale o interregionale è istituito l'albo dei giornalisti. I giornalisti che abbiano la loro abituale residenza fuori del territorio della Repubblica sono iscritti nell'albo di Roma".
Ecco fatto: tutto come prima.

 

Pesi e contrappesi

"Albi di giornalisti!" ha detto Luigi Einaudi, "Idea da pedanti, da falsi professori, da giornalisti mancati, da gente vogliosa di impedire agli altri di pensare con la propria testa. L'albo è un comico non senso, è immorale perché tende a porre un limite a quel che limiti non ha e non deve avere, alla libera espressione del pensiero".
Arnaldo Mussolini, suo fratello, Rocco e Amicucci vollero il vertice di controllo dell'organizzazione giornalistica al Ministero. La legge repubblicana del 3 febbraio 1963, n. 69, dispone: "È istituito, con sede presso il Ministero di Grazia e Giustizia, il Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti"; "Il Ministro per la grazia e giustizia esercita l'alta vigilanza sui Consigli dell'Ordine".
Una questione di legittimità costituzionale in merito alle attribuzioni del Ministro di grazia e giustizia sull'Ordine, è stata dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale (sentenza del 23 marzo 1968, n. 11).
Ritorniamo sul problema: non si sa mai che ci sfugga qualcosa. Si può giustificare l'Ordine dei giornalisti in un sistema democratico?
Può continuare in democrazia un istituto voluto da un regime totalitario perché, con quello, perfettamente logico, necessario?
Se un istituto risponde a un'organizzazione dall'alto (fascista, cattolica), come giustificarlo in un'organizzazione dal basso (democratica, pluralista)?
Come si può giustificare un Ordine dove logicamente non può esserci che disordine?
Una organizzazione sociale dove ognuno può dire ciò che pensa non può che essere disordinata. "L'agitazione e l'instabilità" ha scritto, "sono naturali nelle repubbliche democratiche".
Il sistema democratico vuole ordine fra i soggetti pubblici attraverso un meccanismo di pesi e contrappesi, di checks and balances, cioè di controlli incrociati dove la libera stampa funziona da controllore principale, da cane da guardia della democrazia; e naturale disordine fra i soggetti privati. In Italia, vige ancora la formula inversa. Ordine fra i cittadini, tenuti in soggezione da una scomposta miriade di leggi; e disordine fra i soggetti pubblici, slegati dall'elettore perché così vogliono le nostre regole legate al passato.
In merito all'Ordine dei giornalisti, cosa ne pensa la Corte costituzionale?
"La legge istitutiva dell'Ordine", ha detto il giudice che doveva ripulire l'ordinamento dalle invenzioni fasciste, "disciplina l'esercizio professionale giornalistico e non l'uso del giornale come mezzo di manifestazione del pensiero, sicché, esso non tocca il diritto di manifestare liberamente il pensiero che l'articolo 21 della Costituzione riconosce a tutti" (sentenza n. 11 del 1968). Neanche un ubriaco scriverebbe un concetto così scombinato: da una parte l'esercizio professionale dall'altra l'uso del giornale.
Se l'Ordine dei giornalisti non ha alcuna legittimazione democratica; se la sua istituzione è storicamente e logicamente fascista, quale giustificazione danno, a quali argomentazioni affidano la propria difesa i vertici dell'Ordine stesso? Le argomentazioni sono di questo tenore: "L'Ordine significa il riconoscimento giuridico della professione di giornalista. L'esame di Stato è prescritto dall'articolo 33 della Costituzione. Senza esami e senza titolo chi lavora nelle redazioni si riduce a essere un impiegato o un mestierante. Senza la legge istitutiva dell'Ordine verrebbe meno, inoltre, l'obbligatorietà giuridica di osservare regole etiche".
Primo: sono argomentazioni già sentite. "Il Sindacato Nazionale Fascista dei Giornalisti si propone di tutelare gli interessi morali e materiali dei professionisti della categoria".
Secondo: l'art. 33 della Costituzione al comma 5 dice: "È prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale". Non dice altro. Dal testo della dichiarazione, detta e scritta in più occasioni, sembra che la Costituzione legittimi l'Ordine.
Terzo: "l'obbligatorietà giuridica di osservare regole etiche", risponde solo a un'ideologia totalizzante; è un ossimoro, cioè un serpente logico che si mangia la coda, del tipo libertà obbligatoria. "La libertà di stampa" dichiarò infatti il Duce, al primo Congresso del Sindacato Nazionale Fascista dei giornalisti in Campidoglio nel gennaio 1924, "non è soltanto un diritto, è un dovere".
L'Ordine, insomma, è a tutela della moralità e professionalità del giornalista.
"L'Ordine dei giornalisti" dicono i vertici istituzionali dell'Ordine "è a garanzia dell'indipendenza".
Secondo il rapporto del maggio 1994 della organizzazione privata americana Freedom House sulla libertà di stampa nel mondo, l'Italia figura all'ultimo posto tra i paesi industrializzati a causa dell'intreccio fra media, potere economico e potere politico.
Mettere i giornalisti davanti al fenomeno Tangentopoli è come sparare a un morto: dove erano i giornalisti mentre il sistema imputridiva? Cosa scrivevano quando tutti sapevano tutto? In un sistema democratico il giornalista controlla tutti. In Italia tutti controllano i giornalisti.
E veniamo, per chiudere il cerchio, ai circoli della stampa. "Ciascun Sindacato regionale fascista" scrive l'on. Amicucci "ha istituito uno o più Circoli della Stampa, luoghi di riunione in cui i giornalisti raccolgono intorno a sé la parte più eletta del mondo intellettuale della città".
E così ancora oggi. "L'episodio più vergognoso dell'intera vicenda Tortora è forse rappresentato dall'accorrere della Napoli bene al Circolo della Stampa per la presentazione del libro Gianni il bello, autobiografia di Giovanni Melluso (uno dei pentiti autoaccusatosi di traffico di droga per poter accusare Tortora) dettata da questo ineffabile personaggio a una signora, congiunta di un alto magistrato. Attorno alla depositaria della preziosa narrazione fecero ressa magistrati, consorti dei medesimi, direttori di giornali, uomini di mondo e di affari, cortigiani vari".
"I Circoli della Stampa" scrisse l'on. Ermanno Amicucci, "hanno una funzione ricreativa e culturale".

Rinaldo Boggiani