Rivista Anarchica Online


anarchismo

In difesa del comunismo anarchico
di Tiziano Antonelli

In netto dissenso con le tesi di Pietro Adamo, un nuovo in tervento nel dibattito su anarchismo, democrazia, marxismo, ecc.

ultimo articolo di Pietro Adamo “Materialismo storico, comunismo, anarchia”, pubblicato su “Rivista Anarchica” sposta l’attenzione dal comunismo come forma di organizzazione sociale alla sua giustificazione teorica. Passando attraverso una serie di esempi, Adamo cerca di dimostrare una comunanza teorica tra comunismo autoritario e comunismo anarchico, con il secondo come derivazione contraddittoria del primo; tanto è vero che i suoi principali esponenti, finita l’ubriacatura rivoluzionaria, hanno cercato di annacquarlo con la “libera sperimentazione”.
L’impressione che ho avuto è che non sia stato focalizzato correttamente il percorso che ha portato alla separazione fra correnti marxiste e anarchiche. Il desiderio di dimostrare la comunanza fra anarchismo e marxismo gli ha un po’ preso la mano, facendo sì che nell’articolo le due correnti non siano sufficientemente caratterizzate, né negli obiettivi, né nei metodi, ovviamente divergenti. La “libera sperimentazione”, infine, sembra ridursi al “libero mercato”, condannando come autoritario ogni altro modello di organizzazione sociale che faccia a meno della proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio.
Prima di entrare nel merito, è bene fare alcune precisazioni. Con il termine marxismo si intende l’ideologia politica dedotta direttamente dalle dottrine politiche di Marx ed Engels; in quanto dottrina filosofica si preferisce designarlo come materialismo storico. L’anarchismo, di cui la corrente comunista rappresenta la corrente principale, non può ovviamente essere ridotto all’opera di questo o quell’autore; pertanto ci riferiremo a documenti “ufficiali” come il Programma Anarchico e a testi generalmente accettati come esemplificatori del pensiero anarchico, vedi “Dittatura e Rivoluzione” di Luigi Fabbri. Su questa base verrà affrontato lo scritto di Adamo.
L’uso che fa Adamo del termine “immaginario” rimane difficile da seguire: là dove è possibile si preferirà parlare di impostazioni teoriche, obiettivi, metodi.

 

Autoritari ed antiautoritari

Le riflessioni da cui parte Adamo sono le seguenti: gli anarchici, come le altre forze di opposizione, fatti fuori dai socialisti autoritari - una volta che questi si erano impossessati del potere - gridano al tradimento. Adamo parla di “sorpresa esistenziale non del tutto inaspettata” di fronte a chi sembrava condividere, fino ad ieri, immaginario e progettualità.
Il socialismo anarchico e quello marxista hanno radici storiche in comune: l’ethos rivoluzionario e insurrezionalista che scaturisce dalla Rivoluzione francese la comune matrice socialista; la fucina dell’Internazionale, per quasi un ventennio ha costituito un bacino condiviso di esperienze e di elaborazioni.
Solo dalla metà degli anni Settanta il movimento socialista comincia ad articolarsi in tendenze diverse, è il periodo decisivo per comprendere la natura del dissidio tra marxisti e anarco-comunisti:
condiviso l’obiettivo di fondo (l’abbattimento della società capitalista e l’instaurazione del comunismo;
differente l’orientamento etico-politico.
Per quanto riguarda la presunta accusa di tradimento rivolta ai marxisti,in “Dittatura e rivoluzione” l’argomentazione di Luigi Fabbri si muove sulla base di deduzioni logiche, analisi dei testi, raccolta di fatti. Nel libro la contrapposizione fra socialisti autoritari e antiautoritari viene illustrata a partire dal diverso agire politico e dai diversi obiettivi: la strada intrapresa dagli autoritari (la conquista del potere politico) portava inevitabilmente alla dittatura e alla sconfitta della rivoluzione. Il lavoro di Fabbri è la critica più puntuale del concetto di dittatura del proletariato, compiuta nel momento del maggior fulgore di quella parola d’ordine.
Ciononostante, nel libro non solo non sono presenti quelle frasi, ma nemmeno quell’atteggiamento di denuncia del tradimento a cui fa riferimento Adamo.
Anche le varie affermazioni che formano il secondo esempio meritano di essere precisate. L’ethos rivoluzionario e insurrezionalista, inteso in senso lato, non è comune solo a socialisti antiautoritari e autoritari, ma anche a correnti democratiche, anch’esse, e a maggior titolo, scaturite dalla Rivoluzione dell’89. Se invece ci riferiamo ad una strategia politica in senso stretto, questa strategia non accomuna affatto anarchici e autoritari. Anche lasciando da parte l’antipatia personale di Marx per le barricate, basta ricordare un articolo di Malatesta sullo sciopero generale, pubblicato su Umanità Nova durante il biennio rosso, per comprendere le differenze nell’azione politica. L’adesione al marxismo in Italia ha coinciso per molti ex-internazionalisti con l’abbandono del metodo insurrezionale, che proprio allora cominciava a dare i suoi frutti, per aderire al determinismo, all’attesa del momento fatale che tanto bene coabitava con la lotta elettorale. Mentre la rivoluzione rimaneva affidata alla dinamica di leggi imperscrutabili, gli ex-rivoluzionari contribuivano all’ascesa del proletariato ascendendo al parlamento.
Autoritari e antiautoritari hanno una comune determinazione socialista, come afferma anche Adamo.

 

La questione dello Stato

Ma le scuole del socialismo sono tante: mutualismo, collettivismo, comunismo... le varie scuole socialiste si sono differenziate non a partire dalle impostazioni teoriche, ma sulla base del rapporto con lo Stato. La divisione tra libertari e autoritari si interseca con quella fra riformisti e rivoluzionari, formando un’infinità di correnti. Molte di queste correnti hanno trovato nel marxismo una giustificazione teorica: fino agli anni ‘50 il partito socialdemocratico tedesco ha conciliato una politica collaborazionista con le istituzioni e il potere economico con una accettazione dogmatica del marxismo.
La coabitazione forzata di autoritari e antiautoritari nella Prima Internazionale è durata solo pochi anni. L’Internazionale viene fondata a Londra nel 1864, Bakunin vi entra probabilmente nel 1867 e nel 1869, al Congresso di Basilea, si può dire che la rottura fra anarchici e statalisti è consumata. Non si arriva ad una spaccatura perché nessuna delle due correnti ha la forza per espellere l’altra. Dopo il bagno di sangue della Comune di Parigi ci sarà bisogno di un congresso accuratamente preparato da marxisti, blanquisti e lassalliani per espellere dall’Internazionale Bakunin e gli anarchici. E la rottura non fu su qualche astratta formula filosofica, antropologica od epistemologica, ma sulla questione dello Stato, sulla questione della conquista del potere politico e sulla gestione dell’Internazionale.
In realtà la differenziazione del movimento socialista in tendenze non avviene negli anni ‘70, se proprio vogliamo scegliere una data, forse è più opportuna quella del 1848. Nel 1872, a Saint-Imier, abbiamo la costituzione dell’anarchismo in movimento politico autonomo: i suoi atti di nascita sono mozioni sulla natura dell’azione politica del proletariato e sul modo di organizzazione dell’Internazionale.
A questo punto, Adamo riassume i rapporti fra marxismo e anarchismo sostenendo che è comune l’obiettivo di fondo, ma l’orientamento etico-politico è diverso; l’autore fa esplicitamente riferimento all’abbattimento della società capitalistica e all’instaurazione del comunismo.
Socialisti libertari e socialisti autoritari, invece, si differenziano anche sull’obiettivo di fondo: i primi abbracciano la prospettiva comunista, i secondi si orientano verso il collettivismo. All’interno della Prima Internazionale gli antiautoritari si definirono dapprima collettivisti e, dopo la rottura con Marx, adottarono progressivamente la denominazione di comunisti. Fu in quel periodo che il comunismo si tolse le vesti sia di generica aspirazione all’uguaglianza, sia di elucubrazione intellettuale, e divenne un programma concreto di riorganizzazione della produzione. Anarchici furono i principali teorici del comunismo: Kropotkin, Reclus, ecc., e solo gli anarchici continuarono a definirsi tali fino al 1917 e alla tragica caricatura che ne fecero Lenin e compagni. Intanto gli autoritari, abbandonando nei fatti ogni prospettiva di trasformazione sociale, preferirono adottare il nome di collettivisti. Praticamente, dalla fine della Prima Internazionale fino alla Rivoluzione russa, solo gli anarchici si chiamavano comunisti e anche dopo la Rivoluzione russa solo una minoranza degli autoritari (gli aderenti alla Terza Internazionale) adotterà la denominazione di comunista; i socialdemocratici (che continueranno a costituire la componente più influente del socialismo autoritario) rifiuteranno di chiamarsi comunisti.
Si può parlare di obiettivo di fondo comune solo se esso si esprime nei termini di abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione.
Usando una formulazione così generica, però, si finisce per intorbidare le acque, in realtà:
- i socialisti libertari, i comunisti pensano che sia da subito possibile riorganizzare produzione e distribuzione attraverso le libere associazioni di produttori e consumatori, che premessa indispensabile di questa riorganizzazione sia l’abbattimento del Governo e l’abolizione dello Stato, per questo la loro azione punta a spingere il popolo ad autoorganizzarsi;
- i socialisti autoritari si basano invece sulla conquista del potere politico, sulla base di libere elezioni (come la generalità dei socialisti autoritari prima della 1ª guerra mondiale) o di atti insurrezionali (i bolscevichi e i partiti satelliti di Mosca): ai proletari spetta il compito di attendere le indicazioni dei vertici e che una legislazione emanata dal futuro governo socialista ponga fine al modo di produzione capitalistico; va da sé che per le burocrazie socialdemocratiche e bolsceviche l’abolizione della proprietà privata è solo una giustificazione, di fronte alle masse, della loro brama di potere.

 

Condanna senza appello

Vale la pena di fare un’ulteriore considerazione: la critica anarchica dello Stato e del Governo viene riportata da Adamo più avanti: alla luce di questa critica, in qualsiasi epoca, essi sono o la dominazione brutale, violenta, arbitraria di pochi sulle masse, o è uno strumento ordinato ad assicurare il dominio e il privilegio a coloro che hanno accaparrato tutti i mezzi di vita.
Alla luce di questa critica è possibile comprendere la distanza che separa socialismo autoritario e socialismo libertario: l’ordinamento democratico o dittatoriale dello Stato è una differenza superficiale che legittima comunque la sostanza del dominio di pochi su molti.
Come è possibile, a questo punto, ipotizzare una qualsiasi condivisione di obiettivi tra socialisti libertari e socialisti autoritari?
Si arriva così, nell’articolo di Adamo, ad una condanna senza appello del marxismo: nell’ideologia di Marx sono presenti elementi che avranno una funzione importante nel plasmare l’ideologia totalitaria. A questo punto si traggono le conclusioni:
1) il marxismo è il male;
2) l’immaginario del marxismo è stato condiviso da buona parte degli anarchici;
3) gli anarco-comunisti, lungi dal rivelarsi diversi dai loro “compagni di strada” autoritari, ne condividono in parte le premesse storiche, epistemologiche e antropologiche. Il percorso anarchico verso la società comunista riproduce gli stessi temi e le stesse fallacie che i libertari attribuiscono ai loro avversari/compagni marxisti.
4) Tutto ciò è dimostrato dalla letteratura e dalla pratica degli anarco-comunisti.
Il rimedio a questa minaccia autoritaria nell’anarchismo è partire dalla “libera sperimentazione” per introdurre il principio della differenza economica e del libero mercato, individuando nella rivoluzione proletaria la possibilità di una soluzione autoritaria.
Non credo che il marxismo abbia bisogno di difensori d’ufficio: ancora una volta merita riandare a Fabbri e a “Dittatura e Rivoluzione”. Nella sua opera viene messo in luce che la “dittatura del proletariato” non è l’elemento centrale della riflessione e della proposta politica di Marx: accanto alla “dittatura” coesistevano e spesso erano preponderanti elementi democratici (la repubblica, il suffragio universale ecc.). Non a caso il dissidio con Bakunin scoppia sulla questione dell’atteggiamento dell’Internazionale sul diritto di successione; mentre l’anarchico ne proponeva l’abolizione pura e semplice, Marx si batteva per introdurre nel programma dell’Internazionale una riforma della tassazione.
Contrariamente a quanto diffuso per anni dalla Chiesa di Mosca (e dalle sue sette scismatiche), a buon diritto i socialdemocratici hanno rivendicato una continuità con Marx nella loro azione politica.
Un altro elemento proposto da Fabbri è la non incompatibilità tra marxismo e anarchismo, a cui abbiamo già accennato. Più in particolare, esiste una contrapposizione fra i partiti proletari sulla base del rapporto con lo Stato e, in genere, i partiti autoritari si sono rifatti al marxismo. Fabbri insiste molto su questo punto, e trova un appoggio in Malatesta, quando afferma che le teorie “scientifiche” che pretendono di spiegare i fatti sociali e di prevederli, si limitano spesso a giustificarli una volta che sono avvenuti.
Possiamo benissimo concordare sul fatto che pretendere di spiegare i fatti sociali su base scientifica implica l’esistenza di una categoria di studiosi (il ceto politico, i “rivoluzionari di professione”, ecc.) in una parola gli oracoli della Rivoluzione incaricati di spiegarla al popolo ignorante. Questa è la premessa ideologica della burocrazia, e con la burocrazia della conquista del potere politico.
Ma possiamo altrettanto correttamente considerare anarchismo e marxismo come appartenenti a due sfere diverse: il primo è un progetto politico di riorganizzazione della società, basato sull’attuazione dell’anarchia, che trova la sua giustificazione nell’osservazione della condizione degli uomini e in una serie di ipotesi che derivano da questa osservazione stessa e non da teorie di ordine superiore; il secondo è un sistema di teorie scientifiche, più o meno logicamente connesse, più o meno verificate, finalizzato ad interpretare l’evoluzione storica e la società, e possiamo tranquillamente lasciare agli studiosi il giudizio su di esso.
Il passaggio decisivo del ragionamento di Adamo è quello relativo all’influenza del marxismo sul comunismo anarchico.

 

Rileggere il Programma Anarchico

Dopo aver caratterizzato il marxismo come male, egli deduce che il comunismo anarchico, in quanto non ha “regolato i conti” con il materialismo storico, finisce con il riproporne gli stessi temi. Questa deduzione è provata, è ancora Adamo che parla, dalla letteratura e dalla pratica dei comunisti anarchici.
Prima di affrontare il tipo di deduzione di Adamo, è bene ricordare che egli non dà alcuna prova di questa pratica e di questa letteratura; questo è tanto più significativo perché in un periodo precedente ha affermato: “la comune matrice materialista... modella quasi per necessità una forma mentis fondata sullo scontro, la violenza, la coartazione e, nei casi limite, la mistica della rivoluzione proletaria, con i suoi sogni da millennio rigeneratore.” Forse un po’ più di documentazione sui casi di violenza e di coartazione sarebbe stata utile, non tanto per dare credibilità alla costruzione logica, quanto per individuare quei comportamenti da correggere. Non pretendo di conoscere tutta la storia dei comunisti anarchici, ma non credo che un solo episodio di “coartazione” possa essere addotto a conferma della ipotesi sostenuta nell’articolo di cui ci occupiamo.
Ma vediamo se è possibile “identificare un preciso elemento teorico che spiega... affinità teoriche e vicinanza negli obiettivi”, come dice Adamo. Nell’articolo viene riportata una citazione di Marx che esemplifica la concezione filosofica del materialismo storico (dalla Prefazione del ‘59 a “Per la critica dell’economia politica”); pensare che gli uomini entrano in rapporti determinati non dalla loro volontà, ma da oscure forze sociali, si traduce, come abbiamo già visto, nel giustificare l’esistenza di un ceto politico incaricato di spiegare al popolo i suoi “veri” interessi. Guardiamo ora che cosa afferma il Programma Anarchico:
“Noi crediamo che la più gran parte dei mali che affliggono gli uomini dipende dalla cattiva organizzazione sociale; e che gli uomini, volendo e sapendo, possono distruggerli”.
Si tratta del primo capoverso del Programma e, in tutta la sua semplicità, esprime la distanza fra un programma politico empirico come quello anarchico e un’inerpretazione che vuole eseere scientifica dei fatti storici. Da una parte quasi la sottomissione ad oscure forze sociali, che si fanno valere al di fuori e contro la volontà degli uomini, dall’altra è proprio la volontà ad essere il primo fattore di trasformazione sociale.
Le concezioni politiche che derivano dal materialismo storico vengono dedotte dall’assunto iniziale: il fatto che gli uomini non comprendano le forze profonde che li agitano fa sì che la costruzione della nuova società abbia bisogno di strateghi e di demiurghi; quelle che derivano dall’anarchismo, basandosi sulla volontà e sulla libera scelta dell’individuo, non possono prevedere un’approfondita preparazione teorica né uomini di particolare valore; la proposta anarchica può essere solo basata su ipotesi da verificare sperimentalmente.

 

Dalla padella nella brace

Non esiste quindi un elemento ideologico comune, come pretende Adamo; per quanto riguarda l’immaginario comune, non so proprio immaginare in un confronto fra partiti politici qualcosa che non sta né nella teoria, né nell’organizzazione, né negli obiettivi; che questo immaginario abbia potuto influenzare azione concreta degli uomini, è solo frutto di immaginazione.
Il fatto che il marxismo sia stato continuamente usato come giustificazione della lotta per il potere di alcuni partiti non deriva quindi dalla sua verificabilità come sistema teorico, ma dalle condizioni sociali in cui tali partiti si sono trovati ad operare. Ancora una volta le idee nascono dai fatti e non questi da quelle.
L’influenza che la parola d’ordine della dittatura del proletariato ha avuto su una larga minoranza del proletariato mondiale non è derivata dall’accettazione del materialismo storico, ma da un evento paradigmatico come la Rivoluzione d’Ottobre, che è sembrato dar ragione alle tesi di Lenin.
Anche nell’evoluzione storica del comunismo anarchico, la progressiva distanza che si è venuta a creare con il sistema di Marx non deriva da una revisione del comunismo, ma dal fatto che tale progetto ha progressivamente perso le sue incrostazioni di risultato di leggi economiche e sociali e si è proposto in modo più laico, come forma più efficiente di organizzazione della produzione.
La scelta di Adamo, di aver spostato il dibattito sul comunismo sul piano teorico, oltre ad aver prodotto risultati deludenti, rischia di riproporre un nuovo integralismo: al posto della sudditanza nei confronti del marxismo, la sudditanza nei confronti dell’antimarxismo. Il problema della riorganizzazione della produzione meriterebbe invece di essere affrontato a partire dalla produzione stessa, senza mettere in campo eccessivi intellettualismi, ma avendo sempre presente la necessità di rispettare la massima libertà dei produttori reali e la massima uguaglianza nella distribuzione del reddito.

Tiziano Antonelli