Rivista Anarchica Online


Dinamica delle profezie
di Carlo Oliva

Chi in alto ha deciso di cambiare le carte in tavola, aprendo, per così dire, una “profezia sul passato”, doveva avere dei motivi piuttosto seri.

 

Illustrazione di Natale Galli
Illustrazione di Natale Galli

 

Tra tutti coloro che, in un modo o nell’altro, hanno sentito il bisogno di dire la loro sull’affascinante tema del terzo mistero di Fatima, dando origine – senza rendersene conto – a uno dei più straordinari cortocircuiti mediatici di questi tempi, il solo Marco d’Eramo, sul Manifesto di mercoledì 17 maggio, ha avuto il coraggio di mettere in giusto rilievo due particolari che pure non possono non essersi impressi, con palmare evidenza, all’attenzione di chiunque abbia riflettuto con un minimo di buon senso sulle “rivelazioni” di quei giorni. Ha scritto, in sostanza, che ci voleva, da parte di papa Wojtyla, o di chi per lui, una ben alta coscienza di sé per poter affermare che il punto culminante di una rivelazione dedicata, in sostanza, ai travagli dell’umanità intera, riguardasse un evento della sua propria vicenda terrena, come se un singolo attentato (per di più fortunatamente fallito) alla sua augusta persona fosse un segno di crisi più grave e più deplorevole dello scoppio della seconda guerra mondiale. E se è anche vero che il papa, presumibilmente, non pensava a sé come individuo privato, ma alla sua funzione di vicario e di simbolo, è certo comunque che per considerarsi, a qualsiasi titolo, personale o delegato, così al centro dell’universo è necessario un ego piuttosto ipertrofico.
Questo, d’altronde, lo sapevamo già. Più interessante, forse, anche se altrettanto ovvio, l’altro particolare. Di una profezia rivelata dopo che l’evento cui si riferisce ha avuto regolarmente luogo, nessuno, in sostanza, sentiva o sente il bisogno. Il bello delle profezie sta appunto nel fatto che ci rivelano, o pretendono di rivelarci, il futuro: quel futuro che ognuno di noi dev’essere in grado in ogni momento di prevedere, perché ne va della sua personale sopravvivenza, e che, pure, tanto spesso ci elude e ci inganna con fallaci speranze e proiezioni inesatte. Per affrontare il rischio di una probabilissima accusa di autocontraddizione, chi ha deciso di cambiare le carte in tavola, aprendo, per così dire, una “profezia sul passato”, doveva avere dei motivi piuttosto seri.



Anche Dante cannò

Le profezie sono meccanismi retti da certe regole precise. Di solito, una previsione azzeccata rivela in chi la pronuncia soltanto la capacità di estrapolare correttamente qualcosa a partire dai dati disponibili, ma una predizione non è una profezia. Perché ci sia profezia la previsione deve appunto sottrarsi a questo modello, deve introdurre un quid logicamente imprevedibile: il suo successo, a questo punto, può essere considerato la prova di un intervento soprannaturale e venir quindi opportunamente utilizzato per convincere eventuali gli increduli, perché è a questo, in sostanza che servono i miracoli. Ma il gioco, perbacco, dev’essere condotto lealmente: rivelare nel maggio 2000 che una profezia del maggio 1917 prevedeva un certo evento che ha avuto luogo nel maggio 1981 non prova davvero un granché. La dichiarazione richiede, per essere accettata, molta buona volontà, nonché tutta una serie di controlli, diciamo così, filologici sul testo che la contiene (come è stato definito e conservato, chi vi ha potuto accedere, eccetera), con il risultato che sul suo potere di convincimento sugli scettici non si potrà contare più di tanto.
Da un punto di vista strettamente filologico, si sa, le profezie post eventum sono impiegate dagli studiosi per datare i testi che le contengono, per stabilire, come si dice tecnicamente, un terminus post: se Dante, per fare un esempio a caso, “prevede”, nel canto XXVIII dell’Inferno (vv. 55-60), che fra Dolcino dovrà arrendersi per mancanza di vettovaglie, per cui sarà catturato e arso vivo, ciò significa che quel particolare passo del sommo poema è stato scritto dopo il 1307, quando cadde, appunto per quei motivi, la fortezza dolciniana di Monte Zebello. Quando Dante azzarda una profezia vera e propria, in genere la canna clamorosamente anche lui, come gli succede quando prevede, nel primo celebre verso della Commedia, di vivere fino a settanta anni, mancando il bersaglio di ben quattordici punti.
Con questo naturalmente non voglio insinuare, Dio ne scampi, che la terza profezia di Fatima sia stata elaborata da chissachì dopo il 13 maggio 1981. Figuriamoci. Ma è certo che le profezie hanno, per così dire, una loro dinamica, nel senso che anch’esse, col tempo, assumono significati diversi per chi le pronuncia e per chi, a vario titolo, le recepisce. In fondo, come dicevamo prima, sono sempre rappresentati da testi e i testi oltre al valore che gli dà il loro autore possono assumere benissimo quello (quelli) che intendono attribuirgli i lettori, immediati e futuri.
Nel caso della rivelazione di Fatima, poi, il processo di elaborazione di quel testo, la cui forma definitiva risale, a quanto è dato sapere, al 1941, quando fu comunicato a papa Pio XII, e che la Chiesa non si è ancora presa il disturbo di pubblicare, è stato particolarmente lungo e oscuro. Su quella visione, una volta morti due pastorelli su tre, e solidamente rinchiusa la terza in convento, avranno lavorato chissà quali e quanti esperti ecclesiastici ed è lecito ipotizzare, senza scandalizzare nessuno, che la versione finale rifletta interessi e paure dell’alto clero portoghese degli anni ’20 e ’30. Il che spiega, naturalmente, l’enfasi sulla guerra e sul pericolo comunista e l’assoluto silenzio sulla Shoah, che pure ha turbato, ai nostri giorni, qualche interprete politicamente corretto. Quei bravi padri avevano, come tutti, paura di una guerra, una guerra – per giunta – in cui l’Occidente (anzi “l’Occidente cristiano”, come si diceva) avrebbe dovuto fatalmente allearsi con l’Unione Sovietica, e, vivendo nella penisola iberica, a due passi da una Spagna in cui ne stava succedendo di ogni, dovevano altresì avere abbastanza paura di una possibile, sanguinosa ribellione popolare contro il dominio ecclesiastico.


La Chiesa presenta il conto

L’ipotesi che anche dei vescovi potessero cadere sotto i colpi dei facinorosi non era certo estranea alle loro preoccupazioni e meritava, anzi, di essere sviluppata, nel senso di far capire a chi di dovere che se si lasciava fare ai rossi neanche il papa avrebbe potuto considerarsi al sicuro. Insomma, non è difficile leggere l’intera profezia come un elemento dell’indefessa campagna ideologica combattuta contro il comunismo (o quello che il comunismo significava dal punto di vista delle aspettative) dalla Chiesa di quegli anni. Quanto al fatto che una spietata dittatura borghese avrebbe perseguito il progetto di distruggere l’intero popolo ebraico, be’, è molto probabile che a quei degni ecclesiastici non avrebbe potuto importargliene di meno.
Oggi il pericolo comunista, a quanto pare, non esiste più e la Chiesa guarda al secolo trascorso con l’orgoglio di chi è sopravvissuto a una minaccia che, a un certo punto, ha considerato letale. In un certo senso, celebra una vittoria, o quella che definisce tale. Ma non ricorre a quei vecchi testi soltanto per festeggiare lo scampato pericolo: vi cerca, anzi, vi trova, soprattutto una conferma della propria centralità. Se lo scontro era tutto tra “noi” e “loro” e “loro”, laudato Deo, non ci sono più, allora restiamo solo noi. E visto che la rivelazione di Fatima era incentrata sul papa (tutte le apparizioni mariane dei due secoli scorsi, com’è stato notato, sono incentrate sul papa: la Madonna, a quanto pare, appare solo per incaricare qualcuno di riferire qualcosa al papa regnante), la celebrazione della profezia diventa celebrazione della centralità del pontefice, contro ogni tendenza, interna o esterna alla Chiesa, di ridimensionarne il ruolo. Non per niente la celebrazione di Fatima è contemporanea allo sforzo celebrativo del Giubileo, che ha segnato una ripresa alla grande dell’enfatizzazione del ruolo del pontefice e delle pretese di superiorità delle strutture ecclesiastiche rispetto a quelle civili. La chiesa trionfante presenta il conto a quella società laica che, a suo giudizio, non ha saputo cogliere, nella lotta contro il comune nemico, pari trionfi. Riafferma la sua potestà e non vuole sentir parlare di sciocchezze out of date come la parità dei cittadini davanti alla legge o la difesa dei diritti civili. Le recenti, grottesche, polemiche sul Gay Pride Day rientrano a pieno diritto in quest’ottica. La centralità del papa si riflette sulla sua città e nella sua città il papa di celebrazioni che non siano in linea con il suo magistero, poche storie, non ne vuole.


Il passato come il futuro

Per tornare a Fatima, permettemi di rendervi partecipi, in conclusione, di una personale curiosità destinata, probabilmente, a non essere soddisfatta. Mi sono sempre chiesto quale visione avranno mai avuto davvero i tre pastorelli, prima di finire nelle mani dei loro interpreti e di essere espropriati della possibilità di parlarne. Ho il sospetto, se posso azzardare una supposizione gratuita, che c’entrasse molto l’immagine dell’inferno, come lo si descrive nella prima parte della rivelazione: è un’immagine che ben corrisponde all’insegnamento catechistico di allora, così come poteva essere recepito da un’anima sensibile. Ma appunto questo è il “mistero” di cui oggi si parla il meno possibile: tutti i pii commentatori della rivelazione papale hanno preferito lasciarlo perdere, perché quello di inferno oggi è un concetto imbarazzante, assolutamente fuori di moda, e il teologo che riuscisse a trovare il modo di toglierlo di mezzo senza far troppi danni si guadagnerebbe la gratitudine eterna di tutta la chiesa.
La teologia, come tutte le scienze, esatte o inesatte, è sempre specchio dei tempi in cui la si elabora ed è soggetta a un continuo processo di aggiustamento, che ne modifica e forse ne tradisce gli assunti, ma al tempo stesso permette di poterne fruire anche se i tempi e i valori sono cambiati. Forse nemmeno la povera suor Lucia, tutta intenta a fabbricare rosari nel suo convento di Coimbra, ricorda più esattamente com’è stata quella sua misteriosa esperienza di ottantatré anni fa. Anche gli uomini e le donne ricreano e reinterpretano continuamente se stessi: la realtà del nostro passato, per tutti noi, è altrettanto insondabile di quella del nostro futuro. È questo un segreto assai più profondo di quello di Fatima, ma non sarà certamente la Chiesa a scioglierne i termini.

Carlo Oliva