Rivista Anarchica Online


Maledetta domenica

a cura di Carlo E. Menga

Domenica 9 Aprile 2000. Sciopero dei giornalisti televisivi, i quali, in un comunicato video debitamente autorizzato dai sindacati, stigmatizzano l’atteggiamento di chiusura da parte dell’editoria nei confronti delle loro rivendicazioni, paventando, nel caso non si fosse raggiunto un soddisfacente accordo con la controparte, di non poter essere in grado di fornire all’utenza lo stesso livello qualitativo di informazione (traduzione: se il padrone non ci dà piu soldi, noi minacciamo gli spettatori di dargli più guano). Evidentemente la qualita a cui si riferivano aveva a che fare, per esempio, coi servizi con voce fuori campo di commentatori con la evve moscia (o peggio), o con la effe offiata con la lingua porgente fuori dagli incisivi, o con l’accentto ssarddo, o che usano “piuttosto che” alla lombarda per dire “oppure” (non ho ancora sentito commentatori siciliani che usano “magari” per dire “anche”: vuoi vedere che è già avvenuta una lottizzazione padana e non ce ne siamo accorti?).
Oppure si riferivano al fatto che dopo svariati lustri ancora non si sono accordati su una versione univoca del cognome turco dell’attentatore al papa: AGCA si pronuncia “ahggià” e non “àgka”. Lo stesso papa, per altro, al quale nei primi tempi dopo la sua ascesa al soglio pontificio era stata fatta grazia della pronuncia corretta del suo nome secolare (“voitéua”), adesso che non può più reagire incazzandosi, perché affetto da parkinsonismo, viene chiamato “voitìla”. O alle vicende del calciatore NAKATA, il cui rendimento sembra essere legato agli spostamenti di accento effettuati sul suo cognome dai telecronisti sportivi, destinati ad impazzire invano giacché non sanno che in giapponese non ci sono accenti.
O meglio ancora si riferivano all’episodio in cui Lamberto Sposini, al TG, dopo un video inedito dei Beatles, sosteneva che i quattro di Liverpool avessero scritto canzoni migliori, commentando nella fattispecie “Hey Bulldog”, una delle espressioni più altamente drammatiche della poesia di John Lennon (opinione personalissima, ma che non ho potuto per tempo contrapporre pubblicamente - lo faccio ora - a quella, altrettanto personale, di Sposini, il quale ha su di me, e su di voi, il vantaggio di poter sparare le sue pirlate nell’etere).
O forse, infine, alludevano al più recente servizio sulla notizia che in una scuola di Decimomannu qualcuno avrebbe imposto il silenzio agli alunni di una classe tamponandone i vivaci musetti con nastro adesivo. Dopo aver premesso che la voce era stata sparsa da qualcuno dei predetti fanciulli, che le indagini erano ancora in corso, e che sull’affare la scuola manteneva il più assoluto riserbo, i responsabili del servizio: a) affermavano di non conoscere il nome dell’insegnante su cui gravava l’accusa, ma venivano traditi dalla grammatica italiana, e vi alludevano con concordanze di genere femminile; b) mostravano l’immagine del cancello della scuola chiuso con un lucchetto e una catena, valorizzando l’implicita equazione con carceri e lager e/o con l’autoimposizione di un silenzioso ritiro (ci sono giorni e ore in cui le scuole sono chiuse, no?); c) intervistavano adulti locali, i quali appalesavano ovviamente tutto il loro sdegno e desiderio di giusta punizione per una vicenda assolutamente da condannare, se non fosse per il fatto che non solo non era stato individuato il colpevole né accertata la misura delle sue colpe, ma non era stato neanche appurato se il fatto fosse realmente avvenuto (in Italia, che io sappia, si è innocenti fino a che non venga dimostrata la colpevolezza, e non viceversa); d) riportavano, del tutto avulse da qualunque contesto, le presunte parole del/la colpevole, secondo cui si sarebbe trattato di “uno scherzo”. Voi capite la duplice conseguenza alternativa del contesto scherzoso. Quanto meno, se lo scherzo è compiuto dall’insegnante, l’insegnante è folle; se è compiuto dagli alunni, gli alunni sono stronzi, come avrebbe sospettato anche Agostino, vescovo d’Ippona. Ma parliamo d’altro, poiché per elencare tutti questi abissi di qualità informativa sarebbe necessario invocare il solito famigerato saggio di 400 pagine. In quella medesima Domenica, il personaggio, informe e inspiegabilmente assurto agli allori del contenitore domenicale, che si attribuisce indegnamente il nome d’arte di Amadeus (d’altra parte abbiamo ragione di temere che la versione berlusconiana, caciottara e pulcinelrata, del libero mercato, avrebbe avuto buone possibilità di convincere un Mozart dei giorni nostri a fare il D.J.), si veniva a trovare col contenitore medesimo abnormemente allargato, a causa dello sciopero anzidetto, e non trovava migliore soluzione per riempirlo che invitare a Domenica In un tot di procaci pulzelle, mediamente ipofreniche, la cui unica colpa, adeguatamente glorificata e complimentata, era stata quella di aver soggiaciuto al ruolo di protagonista, esponendo maggiori o minori quantitativi di lacerti, mucose e glàndole su idonei banconi da macellaio, in altrettanti spot pubblicitari famosi.
Una sola cosa mi ha dato più fastidio del fatto che ciascuna di queste sciacquette lobotomizzate che sanno contare fino a venti perché usano le dita dei piedi, guadagna, al netto, in trenta secondi appesa a un gancio di cella frigorifera, da due a dieci volte il mio reddito lordo al netto del plusvalore dell’azienda sul prodotto del mio faticoso lavoro, dopo che mi sono fatto il mazzo a studiare per quasi diciotto anni seguendo gli amorevoli consigli di mio padre anziché il mio istinto che mi avrebbe condotto a lavorare la terracotta o allevare polli. In fondo tutto ciò non ha grande rilevanza ed è frutto del mio egoismo e sciovinismo maschilista.
La cosa veramente ignobile è stato avere l’ennesima conferma della considerazione che tutti, imprenditori che comprano la pubblicità dei propri prodotti, reti televisive, perfino il legislatore che regola l’uso delle modalità del mezzo pubblicitario, hanno dell’intelligenza del pubblico, dello spettatore, del consumatore. Nel mostrare i brani degli spot e nel commentare la valentìa delle mammifere nell’interpretarli, veniva accuratamente cassato il nome della ditta committente, dando anche grande risalto verbale alla correttezza della fattispecie della cassazione stessa. Dappoiché proferire il nome fatidico sarebbe stato commettere il reato di pubblicità gratuita. Come se lo spettatore non sapesse riconoscere il marchio estrapolando dal resto dello spot. E, peggio, come se, al pari di salivanti cani di Pavlov, i consumatori, al solo sentire il nome di Omnitel corressero a comprarne il telefonino, e a comprarlo tutte le volte che lo sentono nominare, e a comprarne anche TIM contemporaneamente, se sentono nominare anche quello dopo cinque secondi. Come se gli italiani fossero dei folli che ogni giorno, dopo aver visto la pubblicità in televisione, corressero nei negozi al fine di ammassare in casa derrate di fette del mulino bianco. Forse costoro pensano che noi riempiamo la vasca da bagno di fanta e che bruciamo i libri per fare posto alla nutella. No, non è onesto nominare barilla fuori dello spot: volete forse che mandrie di cerebrolesi scendano in piazza a manifestare violentemente per l’esaurimento delle scorte di tortelloni? Volete la fine dell’ordine sociale così faticosamente ottenuto colorando di grigio uniforme nella sfumatura del libero mercato i banchi del parlamento da sinistra a destra, senza preferenze e scorrette parzialità? Avrebbero forse potuto i sanculotti ghigliottinare il re al grido di: toglietemi tutto ma non il mio BREIL?
Non fate pubblicità gratuita. Non fate come me. Ho deciso di pretendere cointeressenze dalla coca cola.

Carlo E. Menga

Elèuthera / Cento libri per una cultura libertaria

La cultura libertaria è una cultura vivace, ricca di storia, di presenza e di potenzialità, fermento e insieme prodotto delle punte più avanzate della critica teorica e pratica al principio d’autorità, alla gerarchia sociale, al dominio economico e politico. Cultura libertaria come modo diverso di vedere il mondo, quello umano e quello non umano, di vivere e di pensare se stessi e gli altri. Se l’obiettivo di contribuire, nell’ambito editoriale, alla costruzione di un contesto comune per le diverse voci del pensiero libertario è indubbiamente ambizioso, certo non lo sono le dimensioni e i programmi volutamente modesti di un’iniziativa ancora convinta che «piccolo è bello» e che il concetto di «limite» abbia un valore positivo. Ogni libro è per noi un «evento» e non un prodotto a scadenza ravvicinata da inviare con urgenza in un mercato editoriale bulimico. E ci sembra che ogni nuovo titolo sia un’altra piccola tessera che va ad aggiungersi a quel complesso mosaico che vogliamo contribuire a disegnare, destinato per sua natura a restare sempre incompiuto, cioè aperto, com’è per sua natura aperto il mosaico della libertà. Piccoli ma tenaci, siamo arrivati a cento titoli. Dalla B alla B! Da Bookchin a Bakunin: un secolo di differenza, la stessa passione libertaria. Per l’occasione abbiamo fatto un catalogo generale, con una sezione per autori e una in ordine cronologico.

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