Rivista Anarchica Online


dossier immigrazione

Genova solidale
intervista di Laura Di Martino a Stefano Padovano e Roberto De Montis, dell'Associazione Città Aperta

 

Dal '93 un'associazione mette insieme "compagni e immigrati". Bilancio di un'esperienza che continua.

 

 

Iniziamo con una breve presentazione dell'associazione...

Stefano:
L'associazione è nata nel settembre/ottobre del '93 in seguito ad una serie di assemblee con immigrati sul problema degli sgomberi, a quel tempo veramente drammatico, ma più reale è la considerazione che quello è stato il momento di incontro nel centro storico di Genova tra una parte di residenti di sinistra e di residenti stranieri nell'ambito di una volontà più generale di risposta agli incidenti del luglio e quindi ai cosiddetti 'comitati' che li avevano promossi.
La proposta stessa di creare una associazione è venuta dagli immigrati e fin dall'inizio si è caratterizzata per la volontà dei promotori di superare la logica delle rappresentanze 'etniche', determinando in tal modo la fine politica del 'coordinamento immigrati extracomunitari' fino ad allora unica espressione politica di quelle istanze.
Due anni dopo, nel '95,nascerà il 'forum antirazzista di Genova', di cui facciamo parte con mille contraddizioni, pur recependo in parte molte delle nostre impostazioni.

Genova è sempre stata una città con una forte tradizione di immigrazione. Gli scontri avvenuti nell'estate del '93 tra comitati cittadini, immigrati e polizia hanno fatto emergere una conflittualità e un malessere prima mai sperimentati, per quale motivo? Ad esempio i lasciti del postfordismo a Genova (dismissione di fabbriche e aree produttive legate alla grande industria) hanno aperto ambiti occupazionali nuovi per gli immigrati? Come viene assorbita la manovalanza dei migranti? Che ruolo gioca la criminalità?

Stefano: Gli episodi di cronaca avvenuti nel corso dell'estate '93 sono stati vissuti da noi con particolare interesse. In primo luogo perché anche nella nostra città si manifestava, se pur in forme assai ridotte rispetto ad altre realtà del paese, quella ventata di populismo e di intolleranza che proiettava sui migranti stranieri un malcontento originato da dinamiche che ben poco avevano a che fare con la cosiddetta "questione immigrazione", ma che comprendevano le logiche della società più vasta. Pensiamo a tutti quegli aspetti che hanno rimodellato l'assetto dei paesi a capitalismo avanzato, tra cui l'Italia: il lungo smembramento della classe operaia, lo svincolo da ogni tipo di tutela sindacale, ma soprattutto le trasformazioni del mercato del lavoro; segnate dalla costante "precarizzazione" in cambio del vecchio "posto fisso". Tutti questi elementi si inseriscono all'interno del processo, ben più ampio, della "globalizzazione economica", e cioè di quella che potremmo definire la "ri-distribuzione" delle risorse e delle ricchezze su scala mondiale. All'interno di tale cornice, un numero crescente di persone si è messa alla ricerca di nuove opportunità professionali, o più semplicemente sociali, per fuggire da condizioni di vita meno favorevoli, e spesso contrassegnate dalla presenza di regimi dispotici. Le società di "accoglienza" (termine, quest'ultimo, che preferisco mettere tra virgolette visto il tipo di trattamento che i paesi occidentali hanno riservato a coloro che cercano di rimanere in Europa), hanno alimentato una sorta di panico collettivo che, riprodotto circolarmente dai media, ha definitivamente consacrato il migrante quale "nemico pubblico ideale". Soltanto all'interno di tale cornice, è possibile inquadrare quel che è accaduto qualche anno fa, e cioè: la messa in atto di un malcontento populista inscenato da alcuni commercianti, e cavalcato strumentalmente dalla destra politica (da A.N., alla Lega). In questa protesta si richiedevano più controlli da parte delle forze dell'ordine in merito al rispetto della cosiddetta 'legalità', e dell''ordine pubblico'. In verità, il centro storico è già abbondantemente militarizzato, e tutti coloro che lo abitano sanno bene quanto la richiesta di "maggiore polizia", non corrisponda necessariamente a quella di "maggiore ordine". Quei giorni, un altro episodio paradossale riguardava l'associazione del migrante a quello dello spacciatore, come a dire che tutti gli stranieri presenti a Genova (in quegli anni poco più di diecimila, e quasi interamente concentrati in Centro Storico) fossero impegnati nello spaccio della droga. Insomma, alcuni segmenti della città volevano creare un nuovo capro espiatorio per guadagnare visibilità pubblica dimenticando però, come spesso accade in questi frangenti, che 'servirsi' dei circuiti illegali come quello della droga può essere altamente rischioso, specialmente se pensiamo che a fare la fila per acquistare le dosi sono: i figli, i fratelli, gli amici a noi vicini.

Spesso nella situazione dei migranti colpisce la difficoltà di rivendicazione dei propri diritti. Certo non si tratta di incapacità in senso letterale, quanto dell'assenza di forme di aggregazione che consentano l'articolazione di una piattaforma di rivendicazioni comuni. Come si organizzano, nella realtà che conoscete, la tutela dei diritti di cittadinanza e socialità dei migranti?

Roberto: Nella realtà genovese, si è dato un percorso di rivendicazione dei diritti di cittadinanza e socialità a partire dalle esigenze più elementari, che potevano aggregare nell'immediato un gran numero di migranti, per arrivare all'elaborazione di progetti più ambiziosi comunque in grado di rispondere alle domande di cui sopra ma in maniera più articolata e politicamente progettuale.
Stiamo ovviamente descrivendo per sommi capi un percorso politico che ha al suo attivo 7 anni di esperienze, anche complesse, ma sempre con il filo conduttore dei diritti negati come centrale.
Sostanzialmente vi è un primo dato, tutto politico, che consiste nella scelta compiuta da 'Città Aperta' di rendere sempre pubbliche, attraverso le mobilitazioni degli immigrati, le rivendicazioni e le trattative ad esse connesse; questo nasce da una riflessione di tipo generale di contrapposizione ai cosiddetti 'comitati' di cittadini ai quali viene riservata dai media una amplificazione assolutamente sproporzionata al loro livello reale di rappresentatività, ma anche da una forzatura rispetto alle dinamiche delle altre associazioni 'antirazziste' che tendono o a voler 'rappresentare' l'immigrato o ad utilizzarlo come massa di manovra rispetto a campagne politiche ovviamente legittime, ma che a nostro modo di vedere non incidono in maniera qualitativa sui rapporti di forza di cui abbiamo bisogno per l'affermazione dei diritti di cui sopra.
In secondo luogo attraverso gli strumenti dell'assistenza legale, che dalla nascita dell'associazione viene fornita da un gruppo di legali ad essa collegati, e dell'ambulatorio internazionale (che nel '95 si è costituito in associazione autonoma) cerchiamo di garantire in maniera concreta dei servizi volti all'affermazione di un livello minimo di garanzie. Accanto a ciò vi sono gli incontri in questura, le assemblee con le altre associazioni, i convegni e tutto quello che fa parte di questo lavoro, come in certe situazioni fare il giro degli appartamenti dove vivono i migranti per parlare, diffondere materiale in varie lingue dell'associazione o organizzare un presidio contro degli sgomberi, oppure le iscrizioni per un mercatino degli ambulanti contrattato con il comune.
Infine la socialità, che con il raggiungimento di alcuni livelli minimi di vivibilità si sta affermando come uno degli obbiettivi centrali di questa fase: siamo attualmente in trattativa con il comune di Genova per la concessione di uno stabile ove far sorgere una 'casa dei popoli e delle culture' che dia una risposta a questo bisogno sempre più pressante.

È inevitabile notare che un'altra caratteristica di questa immigrazione è la sua dimensione non politica. Questo costringe gli interlocutori dei migranti ad un ripensamento delle proprie modalità d'azione e delle proprie categorie politiche. Come si è comportata l'Associazione in questo caso?

Roberto: Un senegalese durante un'assemblea, nel corso del suo intervento ha detto una frase che riassume bene questa situazione: 'l'immigrato non è venuto in Italia per fare politica, ma poi è costretto a farla', ecco questa è la verità, fermo restando che stiamo parlando di persone che sono venute per migliorare la vita loro e dei loro cari nel paese di origine e non di un collettivo universitario con a disposizione tempo e risorse atte ad un'elaborazione politica ed alla sua conseguente messa in pratica, sicuramente l'incontrarsi e fare delle cose risponde, oltre che ad un'esigenza di tipo sociale e comunicativo, ad un bisogno concreto di risoluzione collettiva di problemi che investono tutta la comunità dei migranti in città; uno degli aspetti più continui delle cose che abbiamo fatto è sempre stata la ripulsa della rappresentanza etnica (con il conseguente notabilato) nonché la ripulsa della differenziazione tra clandestini, regolari, irregolari etc., ciò non vuol dire che queste cose non ci sono, anzi, ma siamo riusciti ad evitare che si sedimentassero in fattori di differenziazione, che si strutturassero in stratificazione dei diritti che si hanno in presenza di una situazione già abbastanza stratificata di per sé.

Un ruolo che "complica" ulteriormente la situazione è quello della donna immigrata...

Stefano: Rispetto allo specifico della condizione femminile tra gli immigrati, bisogna dire che alle riunioni dell'associazione hanno sempre partecipato pochissime donne straniere in palese contrasto con la partecipazione delle italiane, più o meno paritaria rispetto agli uomini.
Le comunità storicamente giunte per prime a Genova, cioè quella tunisina, marocchina e senegalese, erano composte al 90% da uomini e solo negli ultimi anni con i ricongiungimenti familiari e l'arrivo di comunità con proporzioni più equilibrate se non addirittura squilibrate in senso inverso, come quella albanese, nigeriana o l'equadoreña vi è stato un riequilibrio generale delle presenze maschili e femminili tra gli immigrati presenti a Genova.
Ciò non ha comunque modificato i livelli di partecipazione poiché essendo queste persone nella maggior parte o impiegate come colf, nell'assistenza degli anziani, oppure inserite nel mercato della prostituzione hanno difficoltà enormi nel far sentire la propria voce e far emergere quindi delle rivendicazioni; ciò non significa che non sia stato tentato un lavoro in questa direzione ma continuano ad esservi grandi difficoltà.
L'unica eccezione si trova tra i 'mediatori culturali' il cui corso abbiamo contribuito ad elaborare e gestire, dove il bando prevedeva che la metà dei posti fosse riservata alla donne.
È altrettanto vero però che nel corso di assemblee pubbliche o di cortei o feste la presenza delle immigrate è sempre stata significativa a dimostrazione di una volontà di emersione della propria condizione che è destinata ad aumentare e a pesare politicamente in maniera molto più determinante di quanto è avvenuto finora.

Laura Di Martino

 

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