Rivista Anarchica Online



diario a cura di Felice Accame

lussi da decifrare

 

Chi studiò i fenomeni della percezione nella prima metà del Novecento poté avvalersi della tecnica cinematografica. Come racconta David Katz ne La psicologia della forma (Torino 1950), è stato possibile, dunque, studiare i casi di "osservazione simultanea di due processi di movimento" tramite, per esempio, la cosiddetta "dissolvenza incrociata", ovvero quell'artificio che consiste "nella sostituzione graduale di una scena con un'altra, in modo tale che la prima sbiadisce a poco a poco, mentre la seconda si fa progressivamente più netta finché finisce per prendere definitivamente il posto della scena precedente". Oggi, nella manipolazione delle immagini, siamo ancora più smaliziati. In un film, o in un qualsiasi spot pubblicitario, la figura è lì, davanti a noi, apparentemente indubitabile, certa e ben situata in un suo contesto. Dura un attimo, tuttavia, perché all'improvviso deborda da sé, si sdoppia, travalica i propri confini e si replica altrove - magari nell'angolo più lontano dello spazio in cui si trovava. Come se si esercitasse in spostamenti magicamente abbreviati: deve andare da lì a là, ma parte rimanendo ancora per un attimo qui, aleggia ubiquitariamente e, poi, è là. Senza linearità, senza tragitto. Come se il suo movimento la scontornasse e come se le leggi della vecchia cara fisica cinematica siano irrimediabilmente venute meno.
Qualcosa di analogo riscontriamo nelle scritte. È ormai raro trovarne una - in un manifesto, sulla copertina di una rivista, nei titoli delle trasmissioni televisive - composta interamente dei medesimi caratteri. Nella varietà si abbonda: si spezza la parola in tronconi di proporzioni diverse, si sovrappone le parole, le si schiaccia una sull'altra, lettera per lettera le si colora come fossero la tela del pittore. I caratteri, ormai moltiplicati a dismisura, tendono poi alla malfermità: ci sono quelli che sembrano luci al neon, o luci soffuse, quelli che stanno svanendo, quelli che sembrano l'ultimo mozzicone rimasto acceso, quelli che stanno scivolando via, quelli che sgocciolano o quelli che scappano tirati via da qualche forza misteriosa. Perfino i loghi - che sulla notorietà basano la loro stessa sopravvivenza -, sono ormai assestati al minimo della loro riconoscibilità: qualcuno sembra strappato o eroso, qualche altro bollito, qualche altro è vitreo, traslucido, o madido di sudore - come avesse la febbre.
Non avendo ancora inventato un termine per descrivere questo sfacelo percettivo che ormai accompagna la giornata di tutti noi, me la cavo dicendo che tutta questa roba è "post-moderna". Sono i risultati di tecnologia minima, da una parte - come quella dei retini, o dei caratteri trasferibili -, e di tecnologia massima, dall'altra parte -, come quella dell'elaborazione di immagine e parola tramite computer e accessori vari.
Seguendo i consigli di Pierantoni (in La trottola di Prometeo, Roma-Bari 1996) facciamo un esperimento in due fasi. Mettiamoci, prima, a circa trenta centimetri da un cartello su cui è disegnato un disco il cui livello di grigio rimane costante fino a un centimetro dalla circonferenza, dove, invece, scende gradualmente per poi confondersi nel bianco del cartello. Bene, se insistiamo a fissarne il centro, constateremo che, entro un paio di minuti, il grigio scomparirà dal nostro vissuto percettivo. Vediamo tutto bianco. Passiamo poi alla seconda fase e mettiamoci di fronte ad un secondo cartello dove è disegnato un disco della stessa dimensione e grigio come l'altro. Ci mettiamo a circa trenta centimetri e lo fissiamo. I minuti, però, questa volta passano e il disco grigio rimane lì, non scompare affatto. Cos'è successo? Semplice: questo secondo disco non sfuma gradualmente nel bianco, ma è contornato, ha un bordo ben preciso.
L'evoluzione su questo pianeta ha fatto sì che la percezione di certi animali - fra i quali gli esseri umani - si avvalesse di un'operazione fondamentale per ottenere i propri risultati: la distinzione di qualcosa da qualcos'altro che, allora, diventa sfondo. E, fra gli elementi che favoriscono la percezione visiva, un ruolo fondamentale lo svolge il contorno. Tanto è vero che, se in natura cerchiamo qualcosa dai bordi sfumati, facciamo fatica a trovarlo. Mi vengono in mente certi frutti del cotone, dove un pelame biancastro copre i preziosi semi. Mi viene anche in mente la capacità di certi animali di mimetizzarsi con il terreno su cui si trovano, affinché l'occhio del predatore, per l'appunto, abbia difficoltà a distinguerli dallo sfondo.
In questo andazzo post-moderno del rendere indecifrabile la parola e ambigua l'immagine, tuttavia, non vorrei che si sottolineasse soltanto il consueto contrasto fra natura e cultura. Abbiamo elaborato nel corso di milioni di anni degli strumenti che, per il gusto di cedere all'enfasi, d'inchinarci al nuovo, per assecondare le leggi del mercato della comunicazione o, in altre parole, per farci del male con la nostra capacità di produrre cultura, contraddiciamo, mettiamo in difficoltà, mettiamo in condizione di non funzionare come dovrebbero, buttiamo via, facciamo ammalare. È così. Ma non è soltanto così.
In questo corrompimento sistematico delle condizioni percettive - un lusso, evolutivamente parlando - sta una svalutazione politica di ciò che si comunica con immagini e parole.
Come si svaluta il quadro ideologico, così si svaluta il sistema di segni cui il quadro ideologico è affidato per la sua riproduzione sociale. Se si crea ad arte difficoltà di lettura è anche perché non c'è niente da leggere. Se chi comunica avesse davvero qualcosa di importante da comunicare non inserirebbe, fra le sue soluzioni espressive, né caratteri sfocati, né palline che girano, né parole che pulsano, né frasi che transitano velocemente per tutti i versi - come in internet, o sugli schermi televisivi -; avrebbe invece cura di affidare il proprio pensiero a qualcosa di stabile e di ben percepibile per favorire un rapido passaggio dai designanti ai designati, ovvero dalle forme della sua comunicazione al pensiero. Lo stato di salute del pensiero, o il suo asservimento, è già misurabile nel linguaggio.

Felice Accame