Rivista Anarchica Online


dossier immigrazione

Il nemico n°1 del nuovo ordine postmoderno
di Salvatore Palidda

 

Come gli zingari e i vagabondi, i migranti sono da molto tempo oggetto di speciali attenzioni poliziesche.

 

 

Se com'è noto gli zingari e i vagabondi sono stati considerati antitetici al disciplinamento sociale già prima dello sviluppo della società industriale, i migranti (nell'accezione contemporanea) diventano invece un oggetto privilegiato dell'attività delle polizie a partire dalla fine del XVIII e soprattutto con l'urbanizzazione massiccia e rapida del XIX e ancora del XX secolo. A parte i periodi e i contesti in cui l'emigrazione era considerata come un atto sovversivo in quanto diserzione, exit o fuga verso l'emancipazione rispetto ad un ordine sociale tradizionale, in genere essa non è stata oggetto di politiche repressive; a volte è stata lasciata libera e altre volte è stata incoraggiata e incanalata a beneficio del paese di origine e più spesso del paese di arrivo e innanzitutto di privati dei due paesi. A sua volta, tranne i momenti delle crisi cicliche in cui era scacciata, l'immigrazione non è mai stata considerata un atto sovversivo, ma al contrario un fenomeno indispensabile allo sviluppo industriale. La polizia aveva dunque la missione di disciplinare gli immigrati per farne dei lavoratori docili usando la forza nei confronti di chi non si disciplinava.
È a partire dagli anni '70, con il declino della società industriale e poi lo sviluppo dell'assetto liberista e la globalizzazione che, per la prima volta nella storia dell'umanità, le migrazioni sono diventate un fenomeno considerato in quanto tale antagonista rispetto al nuovo ordine economico, sociale e politico. Il modello di sviluppo che si è imposto nelle società dominanti, a differenza di quello della società industriale, non necessita più né di manodopera di massa, né di riprodurre questa, né di espansione demografica, né di "carne da cannoni", ma tutt'al più di una ridotta quantità di lavoratori inferiorizzati e precari per attività da servitù dei cittadini dominanti o come manodopera per segmenti produttivi non ancora adattati o che non conviene adattare al modello post-moderno, o ancora per un ricambio di manodopera che tuttavia riguarda dimensioni limitate. Mi sembra infatti assai discutibile la tesi assai pubblicizzata, tratta dallo studio demografico dell'ONU del dic. 1999, secondo cui l'Europa avrebbe bisogno entro il 2050 di circa 160 milioni di immigrati e l'Italia di 17, se si vuole mantenere l'attuale livello demografico e le attuali capacità economiche. A parte la visione meccanicistica e utilitarista su cui poggia questa tesi, trascurando che le migrazioni sono un "fatto sociale totale", mi pare evidente che si fondi innanzi tutto su un'idea dello sviluppo ancorata al modello tradizionale. Nulla permette di affermare che lo stesso mantenimento della posizione dominante dei paesi ricchi implichi la stabilità demografica. Inoltre una diminuzione della popolazione e dell'intensità delle strutture produttive in Europa non sarebbe auspicabile dal punto di vista di uno sviluppo ecologicamente sostenibile, tanto più se a questo ne corrispondesse uno simile nelle società oggi condannate al degrado? Sulla base dei risultati di alcuni studi, si potrebbe anche dire che la domanda di manodopera immigrata possa tendere a ridursi man mano che si supera la congiuntura di passaggio al nuovo assetto post-moderno. È anche probabile che essa finirà con l'attestarsi su quantità piuttosto limitate a particolari segmenti ed attività, rimanendo sempre soggetta alla precarietà, all'inferiorizzazione e ad un forte ricambio, mentre si svilupperà ancora l'esternalizzazione delle delocalizzazioni di ogni sorta d attività. L'accesso effettivo all'integrazione regolare resterà limitato e non costituirà più, come è stato in passato, il "modello di riuscita" a cui concretamente la maggioranza degli aspiranti alla migrazione possa ispirarsi. Persino la stessa logica della chirurgia sociale che il governo italiano pretende applicare sbandierando l'equilibrio tra misure per l'integrazione e misure per la repressione dell'immigrazione clandestina finisce col tradursi in una prassi che di fatto è dominata dalla gestione poliziesca dell'immigrazione. Come mostrano vari indicatori, l'Italia è il paese in cui la regolarità è spesso precaria a causa delle difficoltà di accesso all'alloggio e al lavoro regolari e a causa della prassi spesso arbitraria da parte delle polizie. L'integrazione che una minoranza di immigrati riesce faticosamente a conquistare è dovuta innanzitutto ai costi morali e materiali che essa stessa ha sostenuto e all'intesa, a volte interessata, con una minoranza di italiani.
In generale, il primo elemento che ormai caratterizza le migrazioni dell'era post-moderna è che esse sono proibite, sono cioè perseguite sia dai paesi d'origine, sia dai paesi di immigrazione (con sempre più numerosi appositi accordi di cooperazione poliziesca tra i due). La violazione di questo divieto implica innanzitutto i rischi della migrazione clandestina, ossia il rischio di morte durante il tragitto, quello di essere alla mercé di trafficanti a volte improvvisati, altre volte criminali; quello di essere oggetto della repressione delle polizie dei paesi d'origine e dei paesi di arrivo, quello di essere costretti ad accettare condizioni di neo-schiavitù, oltre che di essere costantemente soggetti alla minaccia di repressione ed espulsione. Di fronte a tali rischi, oltre che a costi morali e materiali a volte particolarmente elevati, la scelta di migrare viene presa solo da una ristretta minoranza di persone singole e famiglie particolarmente motivate dalla necessità e dal desiderio di fuga dalla situazione in cui vivono. Non è un caso che la stragrande maggioranza degli immigrati clandestini di questi ultimi anni sono appunto persone che fuggono la guerra, le violenze, sistemi dittatoriali o il degrado più orribile che nelle società d'emigrazione si aggrava a conseguenza degli effetti della globalizzazione del liberismo e della protezione dei privilegi dei paesi dominanti. Si tratta cioè di Kossovari, Kurdi e originari di vari paesi dell'Est, dei Balcani e dell'Africa o anche dell'Asia, intere famiglie che migrando perdono tutto, o spesso anche giovani o addirittura giovanissimi incitati a mettersi in salvo. Il volto brutale della logica di dominio dei paesi cosiddetti democratici si manifesta anche nel negare a queste persone il diritto all'asilo umanitario o politico e nel trattarle come delinquenti, alla mercé dell'ampia discrezionalità delle polizie e di "norme amministrative" che di fatto creano nuove situazioni di non-diritto quali sono i centri per espellendi. Ed è emblematico che dopo la "guerra umanitaria" in nome del soccorso e della protezione dei Kossovari in realtà rinchiusi militarmente nei campi, essi sono oggi rinchiusi nei centri espellendi e rischiano di essere espulsi, cioè consegnati alla polizia di Milosevic!
L'azione di polizia nei confronti dei migranti non riguarda solo la repressione dei clandestini, ma anche una costante sorveglianza e persecuzione nei confronti di tutti gli immigrati sia nel quotidiano urbano, sia nella gestione della regolarità. Ed è il trattamento quasi esclusivamente poliziesco riservato innanzi tutto ai giovani migranti originari delle società situate nell'immediata periferia dell'Unione Europea a mostrare come si stia costruendo un continuum della "guerra alle migrazioni" che nei paesi di "vecchia" immigrazione come la Francia colpisce "les enfants illégitimes" 1 e nei paesi di immigrazione recente quei giovani delle periferie europee sollecitati a conformarsi ai modelli dei paesi ricchi, ma assai spesso destinati ad essere criminalizzati o a finire per autocriminalizzarsi se non a distruggersi con la droga, così come è stato ed in parte è ancora per i giovani soprattutto delle classi subalterne europee.

Salvatore Palidda

1. Cfr. A. Sayad, "Les enfants illégitimes", Actes de la Recherche en Sciences Sociales, 1979, 25, pp. 61-81 (1a parte), 26-27, pp.117-132 (2a parte)