Nosotros
anarcosindicalistas
L'intervista al segretario della CGT Spagnola ("Nosotros de
la CGT"), condotta da S. d'Errico e F. Iacchetta, pubblicata
sul n. 259 della Rivista "A" cerca di spacciare per vere alcune
pericolose falsità che pongo all'attenzione dei lettori.
Dall'inizio alla fine dell'articolo si cerca infatti di accreditare
(con calcolata insistenza) come "anarcosindacalista" un'organizzazione
sindacale, la CGT appunto, che nella realtà non lo è affatto.
Ritengo opportuno, quindi, precisare alcune cose che intervistato
ed intervistatori non vi hanno detto, non amano che si sappia
e probabilmente non vi direbbero mai. Tralascio le vicende dell'ambigua
nascita della CGT (attraverso scissioni, di fatto favorite dall'allora
governo socialista, per colpire la CNT in rapida ascesa alla
fine degli anni settanta e agli inizi degli ottanta).
Tralascio anche la parte che riguarda i tentativi degli scissionisti
di voler usurpare la storica sigla dell'anarcosindacalismo spagnolo
per poter mettere le mani sull'enorme patrimonio confiscato
dai fascisti alla CNT e che un giorno il governo spagnolo dovrà
restituire alla Confe-derazione. Sono vicende complesse di un
passato pur recente.
Vorrei invece soffermarmi su che cos'è la CGT di oggi. Si tratta
di un sindacato che progressivamente si è allontanato sempre
più dai contenuti del sindacalismo di base (pur continuando
ad esserci all'interno lavoratori in buona fede e realtà interessanti,
così come avviene nell'arcipelago dei sindacati alternativi
italiani). Fortemente burocratica la sua struttura interna,
gestita da un corpo di funzionari pagati, la CGT ha, in questi
anni, tessuto solidi legami di reciproci interessi con partiti
politici della sinistra spagnola (ben presenti all'interno dei
vertici sindacali) che, di fatto, ne condizionano la linea.
La strategia di intervento di questa organizzazione ha quindi
ben poco di "base" o di "alternativo" visti i sempre più numerosi
compromessi col padronato e lo stato, le scelte cogestionarie
e le frequenti svendite di lotte. Si arriva al limite a casi
in cui la CGT ha accettato licenziamenti di lavoratori. Tutto
questo è facilmente riscontrabile seguendo la stampa spagnola
di questi anni.
Ma il fatto più preoccupante ed oggettivamente assai pericoloso,
su cui invito tutto il movimento libertario a ben riflettere,
è l'ormai diffusa "apertura" di questo sindacato verso le forze
della repressione. Sin dal 1992 la CGT ha costituito al suo
interno sindacati (SAP) in cui si sono organizzati i membri
della famigerata polizia catalana per poi passare ad altri "corpi"
tra cui anche gli agenti carcerari. È del Giugno di quest'anno
la "lotta" (si fa per dire!), che ha avuto molta eco localmente,
intrapresa dalla CGT ad Almeria, unita ad alcuni sindacati gialli,
in favore delle richieste corporative dei carcerieri di quella
città.
Ora, mi rendo conto che come redazione di "A" è vostro sacrosanto
diritto pubblicare quello che vi pare ma, per favore, nell'editoriale
del n. 259 ("Bomba o non bomba" pag.4), dopo aver messo le mani
in avanti affermando che sulla situazione spagnola non sposate
nessuno (si sa, coi costi delle separazioni!) potevate almeno
evitare di dire, riferendovi all'intervista in questione, che
comunque fornite ai vostri lettori "informazioni valide". In
questo caso le informazioni non erano vere e comunque risultava
evidente che lo scopo di intervistatori ed intervistato era
solo quello di propagandare il tentativo in atto di creare una
nuova internazionale di sindacati europei. Cosa questa legittima
per chiunque, a patto che non si tenti di far passare per "anarcosindacalismo"
quello che è l'esatto opposto. (NB: i sindacati rivoluzionari
ed anarcosindacalisti di tutto il mondo già hanno la loro internazionale:
l'AIT Associazione Internazio-nale dei Lavoratori.
Qui non si tratta di dare o togliere patenti a nessuno. Si tratta
di essere logici e coerenti. Vi sono dei paletti che delimitano
il che cos'è e cosa non è una determinata cosa. L'Anarcosindacalismo
è stare coi lavoratori ma anche con gli antimilitaristi, i nonsottommessi
e i tanti proletari in carcere. Stare coi poliziotti e coi carcerieri
vuol dire stare contro l'Anarcosindacalismo. Gli uni, sempre
e comunque contro gli altri.
Gianfranco Careri
(Ancona)
Il
peso del comunismo
Ho letto con interesse, sul numero 259 di "A Rivista Anarchica",
la lettera di Cristiano Valente sulla libera sperimentazione
e la risposta di Pietro Adamo.
Condivido gran parte di quanto sostiene Valente e, di conseguenza,
non ritengo opportuno tornare sulle sue considerazioni in questa
sede. La risposta di Pietro Adamo, forse anche perché caratterizzata
dall'esigenza di essere concisa, mi sembra decisamente singolare.
Cercherò, di conseguenza, di far rilevare alcune questioni che
mi sembrano meritevoli di approfondimento.
In primo luogo è evidente che il termine "comunismo", anche
se accompagnato dall'aggettivo "libertario", è caratterizzato
dal peso della vicenda del blocco orientale e dei partiti comunisti
storicamente esistiti ed esistenti. Io per primo, pur ritenendomi
comunista, sono consapevole di quanto sia faticoso e, a volte,
inutile stare a spiegare la differenza fra ciò che il senso
comune chiama comunismo e il comunismo come progetto di radicale
emancipazione sociale.
Un mio conoscente ha affermato una volta che la parola "comunismo"
è sputtanata per i secoli futuri e proponeva di sostituirlo
con la circonlocuzione "autogoverno dei produttori associati".
Per parte mia, non avrei problemi a chiamare il comunismo libertario
"Pier Ferdinando" se questa nuova definizione ci facesse fare
un solo passo avanti ma ritengo che il modificare la parola
non risolva nulla e che la questione sia di altro tipo e riguardi
quello che si ritiene caratterizzi un programma di emancipazione
sociale radicale.
Detto ciò, mi sembra evidente che, almeno quando di questi argomenti
si occupa un compagno della preparazione di Pietro Adamo, non
ci si aspetterebbe una liquidazione del problema quale quella
che possiamo leggere nelle ultime righe della sua lettera. Quando,
infatti egli afferma: "anarco-comunisti e anarco-capitalisti
appaiono condividere in fondo la stessa prospettiva gnostico-millennaristica:
per entrambi il regno della libertà finale - comunista o capitalista
che sia - non è mai comparso nel regno della storia; è, nella
sua perfezione assoluta, sempre di là a venire" compie un operazione
intellettuale decisamente interessante.
In primo luogo pone sullo stesso piano la tradizione classista
e rivoluzionaria dell'anarchismo con correnti liberiste radicali
di derivazione statunitense (per evitare equivoci, se fossero
di derivazione bengalese non le riterrei più condivisibili)
che sono estranee, sino a prova contraria, alla teoria, alla
pratica, alla cultura anarchica. Adamo potrà sostenere che non
vi è chi ha il diritto di escludere dalla nostra variopinta
famiglia nessuno ed io non posso che essere d'accordo con lui
ma ritengo che chi difende la proprietà privata, il lavoro salariato
ecc. sia appartenente ad un altra corrente di pensiero per propria
scelta e, di conseguenza, si sia escluso, ammesso che se ne
curi, da sé. In realtà, le mie limitate letture della letteratura
anarco-capitalista mi confermano nell'idea che i suoi esponenti
di tutto si curino fuorché dell'anarchismo. A questo proposito,
infine, vorrei porre una domanda: gli anarco-capitalisti sono
capitalisti anarchici o anarchici (si fa per dire) ansiosi di
diventare capitalisti? Nel primo caso potremmo chiedere loro
un cospicuo finanziamento al movimento, nel secondo fare loro
i migliori auguri e lasciarli andare per la loro strada.
In secondo luogo, attribuisce ai comunisti anarchici una prospettiva
religiosa che non mi risulta avere alcuno spazio nella tradizione
anarchica se si escludono alcune sfumature della propaganda
elementare e nelle canzoni di un secolo addietro (sfumature
peraltro suggestive e, perché nasconderlo?, sovente commoventi
nella loro semplicità). Basta leggere le opere di Fabbri e Malatesta,
autori che Adamo mostra di conoscere ed apprezzare, per tranquillizzarsi
nel merito. Il comunismo anarchico è proposto come un programma
razionalmente condivisibile e storicamente realizzabile e non
come l'età dell'oro. Questo programma si può condividere o meno
ma certo non prevede alcun atto di fede né alcun percorso settario.
Infine Adamo fa una scoperta che trovo conturbante: il comunismo
libertario non si è mai realizzato. Un argomento del genere
è notevole per non dire bizzarro. Infatti se il comunismo libertario
si fosse realizzato non sarebbe un programma ma una realtà sociale
e noi non ci proporremmo di agire per favorirne la realizzazione
ma, casomai, per viverlo al meglio. Se, insomma, la rivoluzione
sociale si fosse compiuta non vi sarebbero, almeno nel senso
attuale, dei rivoluzionari e ragioneremmo d'altro.
A proposito del comunismo libertario Adamo propone una confutazione
precisa: "le sue imperfezioni nel mondo reale sono sempre spiegabili
con le contingenze storiche; le realizzazioni storiche - l'unico
metro di giudizio concreto a disposizione di uomini mediamente
razionali - sono sempre contaminate e mai eleggibili a modello
di raffronto e valutazione".
In poche e secche parole Adamo colloca i comunisti anarchici
al di fuori dell'ambiente degli uomini mediamente razionali
e li arruola (ci arruola) nel campo degli gnostici millennaristi.
Ora, il fatto che dovrebbe essere mediamente noto anche ad uomini
razionali quale è Adamo è che, nel corso del secolo che volge
alla fine, le rivoluzioni proletarie storicamente esistenti
sono state schiacciate nel sangue e che le loro realizzazioni
storiche (se non vogliamo chiamarle comunismo chiamiamole autogoverno
dei produttori associati) che pure non sono mancate non hanno
potuto essere sottoposte a verifica approfondita per il semplice
motivo che hanno avuto poco spazio e tempo per svilupparsi.
Non voglio essere polemico ma ritengo che, nonostante le "contingenze
storiche" (se Adamo vuole chiamare così, per fare un esempio,
l'Armata Bianca e quella Rossa in Russia, i franchisti e gli
staliniani in Spagna ecc.) qualche realizzazione positiva non
sia mancata.
Si può trarre da queste vicende la conclusione che la rivoluzione
sociale non è possibile e sarebbe un tesi razionale ma non mi
sembra simpatico collocare fuori dalla razionalità ogni teoria
della rivoluzione sociale.
A mio parere, il punto è, se assumiamo come possibile e desiderabile
un superamento dell'attuale società, preciso e cercherò di riassumerlo
nei limiti delle mie limitate capacità.
L'abolizione dello stato e della proprietà e la conseguente
negazione di ogni gerarchia sociale implica, per molti compagni,
la proprietà collettiva dei mezzi di produzione. Le forme di
organizzazione della vita associata in una società di questo
genere non possono essere definite a priori per la contraddzione
che nol consente visto che l'autogestione non può che prevedere
la libera sperimentazione di stili di vita e di attività straordinariamente
diversificati. Di conseguenza, in linea di principio, non ripugna
alla ragione che vi siano individui che trarranno piacere dalla
conduzione individuale di qualche attività e non si vede che
problema possa porre una scelta del genere in assenza di sfruttamento
del lavoro altrui. La discussione su questo problema ha più
di un secolo e non mi sembra che Adamo abbia aggiunto elementi
particolarmente nuovi a quanto altri hanno detto in passato
sull'argomento.
Il fatto che si sia affermata in Unione Sovietica, prima, ed
in altre aree del pianeta, poi, un regime che si è definito
socialista e che vedeva al governo un partito che si definiva
comunista ha reso necessaria una critica puntuale al loro modo
di intendere e, soprattutto, di praticare l'espropriazione della
proprietà privata. Per la verità, questa critica era piuttosto
una conferma che un superamento della precedente valutazione
anarchica sul ruolo dello stato ma era, ed è, necessaria una
riflessione sulle difficoltà della rivoluzione sociale, sui
totalitarismi, sullo stravolgimento del socialismo. Sarebbe
sbagliato negare che l'anarchismo come corrente di pensiero
ed azione ha vissuto una crisi profonda soprattutto per quel
che riguarda alcune ottimistiche aspettative nelle capacità
di autoemancipazione delle classi subalterne.
Sarebbe ancora più sbagliato evitare una discussione serrata
su questi temi.
Detto ciò, ritengo che le ragioni che inducono molti compagni
a desiderare l'autogoverno dei produttori associati ed a battersi
per realizzarlo restino sostanzialmente valide ed anzi, di fronte
ai caratteri attuali dell'oppressione e dello sfruttamento,
siano rafforzate.
Quali siano i mezzi migliori d'azione, quali le difficoltà,
quali gli errori passati e presenti è argomento meritevole di
confronto nel rispetto delle diverse sensibilità ma non trovo
utile offrire un'immagine caricaturale dei punti di vista che
non si condividono per garantirsi una facile ma inutile, ai
fini di una crescita comune, vittoria dialettica.
Cosimo Scarinzi
(Torino)
MAQROLL
È PARTITO
a Fabrizio De André
Le labbra di un canto migratore
premono sulla corale del sogno
in un concerto monozigoto
che ci evoca gemelli
a tutto dissonanti
e per sempre libertari
un Gesù travestito da passeur
in fuga dal marchio divino
inciampa tra le sirene del porto
cade tre volte e per tre volte
ti bacia le dita
perché l'hai schiodato
dalla croce virtuale
del figlio del padre
e dello spirito santo
e quel salice piangente
che ti spiove sulla fronte
fa ombra al mio rimpianto
sui declivi rottamati
alla semina sinale
dove il bulbo che fiorisce
in un juke-box provenzale
spande l'eco germogliata
di te sciamano dei cenciosi
Precario del vento
con il futuro cingolato
che sbarca nell'oblio
lasciate che canti
la sua frenesia morale
di mezzadro del cielo
spremere grappoli di relitti
e vendemmiare resurrezioni
in una cattedrale di memorie
Mauro Macario
(Levanto)
|
Comunisti
e orgogliosi
La querelle Adamo-Valente (estesa internettisticamente
ad altri compagni) mi sollecita ad una serie di considerazioni
che investono in varia misura alcuni "luoghi" del pensiero politico
rivoluzionario, di recente poco e mal frequentati: comunismo,
comunismo anarchico, anarchismo, libertarismo, libera sperimentazione
e così via.
Potrò, nello spazio di questa lettera, accennare ad alcuni di
essi, ma solo per sommi capi, spero di essere compreso.
Innanzi tutto occorre porre una certa considerazione alla questione
del rapporto, irrisolto, tra pratiche sociali "antagoniste"
all'ordine del mondo dato e teorie critiche e rivoluzionarie
che ambiscono ad esserne la "giustificazione" dapprima, la guida
e il progetto, in seguito. Lo stesso vale, è appena il caso
di notarlo, se sostituiamo idee a teoria.
Il rapporto tra prassi e idee rivoluzionarie, è stato dibattuto
ad nauseam e spesso risolto superficialmente nella categoria
del dialettico (che tutto spiega e nulla spiega), o in un rapporto
univoco di dipendenza, in un verso o nell'altro. Ristabilire
un corretto rapporto significa riconoscere il primato dei movimenti
di lotta delle classi subalterne tesi all'emancipazione dalle
proprie condizioni di sottomissione, che metabolizzati e distillati
dalla riflessione ed elaborazione della "intellettualità rivoluzionaria"
spesso ritornano in forma di suggestioni, idee, teorie rivoluzionarie
o ideologia ad influenzare quelli stessi movimenti. In ultima
analisi dunque le idee - e segnatamente quelle rivoluzionarie
- non nascono dalla testa di Giove, ma dal fuoco delle lotte
sociali di classe.
Veniamo all'anarchismo. Il giochino del pendolo tra concezioni
estreme di questo - nel caso nostro quella "anarco-capitalista"
e quella comunista, libertaria o anarchica che sia - mi sembra
formalmente stucchevole, metodologicamente scorretto, politicamente
mistificante e storicamente sbagliato. Stucchevole perché usa
il principio del "in medio stat virtus". Scorretto perché il
fulcro del bilancino è sempre la mia posizione e sul braccio
antagonista rispetto a quello delle posizioni che avverso, metto
qualsiasi paccottiglia di segno opposto. Mistificante perché
fa assurgere la paccottiglia alla dignità di sistema di pensiero.
Sbagliato perché nessun movimento, nessuna prassi antagonista
si sono mai alimentati di questa paccottiglia.
Un esempio di questa paccottiglia è, ad esempio, l'anarchismo
da Far-West degli anarco-capitalisti, che rimuove il problema
dello Stato (ovvero lo allontana fisicamente in terre lontane),
ridicolizza quello dell'eguaglianza economica nell'insensatezza
di "pari opportunità" e conseguentemente mistifica quello della
libertà nell'indipendenza incondizionata del singolo, contrapponibile
a tutte le forme di Gemeinwesen possibili.
Ma veniamo alle cose serie, ovvero al recupero in chiave anarchica
di certi topoi del liberalismo, sia in chiave di ethos che di
progetto. Faccio grazia ad Adamo del banale giudizio che il
liberalismo altro non è che ideologia borghese tout-court. Non
è questo infatti il punto.
Il liberalismo, anche nelle sue forme più radicali, antiburocratiche,
antistataliste e, per così dire, libertarie, è strutturalmente
inadeguato a rendere conto delle istanze di liberazione delle
classi subalterne. Non può infatti prescindere, altrimenti non
è più tale, dalla proprietà; sia questa quella dei mezzi di
produzione o dei frutti della stessa; sia essa individuale o
di una "classe di individui", ovvero cementata dalla condivisione
delle forme di dominio e di sfruttamento, e non dalla solidarietà
che deriva dal patire comune dell'oppressione e dell'espropriazione
e dal sentire, altrettanto comune, di essere gli artefici, veri,
dell'edificio sociale. La proprietà allude necessariamente all'esclusione,
alla separatezza, al privilegio, così come il mercato (per quanto
esso possa essere libero) allude, da un lato alla merce (con
tutte le valenze ineludibili che questo termine comporta) e,
dall'altro, comunque, allo scambio ineguale. Ineguale proprio
perché - anche nella sua versione di "libero gioco" - propone
la contabilizzazione di un'asettica "giusta" equivalenza tra
entità incommensurabili: il mio superfluo / il tuo bisogno;
il mio necessario / il tuo bisogno. Proprietà e mercato, dietro
la loro forma giuridico-istituzionale, rivelano un ventaglio
semantico assai ristretto e tutto interno all'apparato concettuale
e normativo di una società divisa in classi. Ethos e progetto
si fondano dunque sull'autonomia dell'individuo rispetto al
corpo sociale ed alla classe d'appartenenza che però è proprio
possibile (in termini di ricchezza materiale ed intellettuale)
in quanto egli gode dei benefici dell'appartenenza ad un determinato
segmento di quel corpo sociale, dell'appartenenza a quella classe
sociale. Libertà per tutti dalla libertà dei singoli? Anche
se così fosse bisognerebbe rammentare che i talenti da impegnare
in quanto individui in questa "intrapresa" sono molti e che
quando il buon Dio li ha distribuiti, la maggior parte dell'umanità
è rimasta fuori della porta.
Non c'è possibilità di disvelamento d'altre qualità intrinseche
in queste categorie, non c'è possibilità di sdoganamento: fuori
dai confini di quella società e del suo universo di significati,
i pezzi d'oro ridiventano carta straccia, o meglio grezzi anelli
di una robusta catena.
Infine il problema del comunismo anarchico. L'anar- chismo -
o meglio quella sua centrale componente che si rifà al comunismo
anarchico o libertario che dir si voglia - nasce nel crogiolo
delle lotte di classe, tra il proletariato, come ipotesi di
emancipazione radicale e totale dalla società dello sfruttamento,
del dominio e dell'oppressione. La componente antistatalista
e antiautoritaria, che si sostanzia in queste lotte in opposizione
alle forme istituzionali della dominazione di classe, completa
l'aspirazione all'uguaglianza economica tipica già di forme
di comunismo primitivo. La comunità proletaria che si cementa
in antagonismo e in subordinazione ai processi di industrializzazione
e concentrazione capitalistici, fornisce l'humus ad alcune straordinarie
esperienze rivoluzionarie di segno libertario, tra le due guerre
mondiali, che tutti conosciamo. Esperienze presto drasticamente
stroncate dallo strapotere borghese proprio perché alludevano
concretamente - tramite pratiche sociali antagoniste e non integrabili
- al rovesciamento totale dell'esistente e non a pulsioni millennaristiche
dell'avvento di un mondo nuovo. Tagliamo una sessantina d'anni
(possiamo farlo perché ci muoviamo su linee interne) e arriviamo
all'oggi. Il capitalismo, nella sua fase imperialistica, ha
metabolizzato, integrato, triturato e digerito una miriade di
"forme di vita", di modelli economico-sociali, di rappresentazioni
del mondo, anche sedicenti antagoniste dell'ordine sovrano.
Resta poco: il solco di una tradizione politica non contaminata
e la necessit di verificare se l'avvio di un nuovo ciclo di
lotte generalizzate - reso probabile dal progredire devastante
della crisi capitalistica - esprimerà, nella sua spontaneità,
contenuti ed aspirazioni congruenti con quella tradizione oppure
no. Io credo di sì, come credo che sia necessario fin da oggi
cominciare a disincrostare da tutte le sedimentazioni improprie
la parola "comunismo" riportandola nel suo naturale contesto
anarchico. Non mi pare che lo stesso si possa fare con "liberismo".
Non c'è parentela, non c'è rapporto, non c'è congruenza.
Mi sorge un sospetto: non è che Pietro Adamo ci ha teso un tranello?
Intendo a noi, anziani e miti residuati dell'anarchismo di classe,
restii ad entrare in questi argomenti per pudore, stanchezza,
battaglie perse, anni consumati? Non è che volesse farci uscire
allo scoperto per poter sorridere ironicamente e commentare:
"Vedete, sempre gli stessi, sempre le stesse cose"? Accetto
il rischio e nel frattempo lo ringrazio di avermi ridato l'occasione
(e l'orgoglio) di potermi definire comunista (e anarchico, ovviamente).
Guido Barroero
(Genova)
A
propostito di terminator
Quello che Maria Matteo ha detto, che ogni essere umano capace
di intendere e di volere per conto suo con un minimo di speranze
e di probabilità di permanere su questa terra deve sapere è
che (come riportato dallo stesso Manifesto più volte
nella rubrica "Terra terra", l'ultima volta oggi, 10 novembre)
Terminator ha già cominciato ad annientare ogni forma di biodiversità,
non ci sono solo i semi destinati alla alimentazione umana ad
essere modificati geneticamente, ma anche le colture arboree.
In una parola, i signori delle multinazionali, le stesse, Monsanto,
Novartis, Shell Forestry, etc. stanno letteralmente facendo
terra bruciata di ciò che la lenta evoluzione ha generato nel
corso di milioni di anni, per mettere a dimora alberelli necessari
alla produzione, ad esempio, di quei milioni di tonnellate di
carta che servono per fornire ai newyorchesi la lettura del
Time della domenica: ogni copia un chilo di carta. Sapendo
che per il Medio Evo al centro della visione del mondo c'era
Dio, nel Rinascimento l'Uomo, nel Settecento la Ragione, oggi,
semplicemente al centro di tutto non ci sono neanche i banalissimi
soldi (da sempre "l'argent fait la guerre, pecunia non olet",
e simili) ma i pacchetti azionari determinano se un popolo deve
o non vivere, oppure essere spazzato via da una diga, se puoi
o no parlare una lingua, per esempio i disgraziati Kurdi devono
solo alla presenza dell'acqua e del petrolio nel loro territorio,
se non possono neanche chiamarsi tali. Non dice che il polline
diffuso dagli organismi geneticamente modificati induce sterilità
su tutti gli altri semi circostanti: in una parola, questi stanno
desertificando il mondo, ci stanno massacrando, ammazzando,
letteralmente, tutti. Assassini e ladri di futuro, ecco cosa
sono. Questa lotta è l'ultima lotta, persa questa ci rimangono
prospettive lunari. Vorrei chiedere alla Maria Matteo in quale
caso, poi, la manipolazione genetica effettuata in laboratorio
è stata un vantaggio per l'umanità e se mi può fare il nome
di qualche organizzazione ecologista "integralista", la Legambiente,
forse, che inalbera sulla propria Goletta Verde il marchio Omnitel,
tranne a dover tacere sull'inquinamento da antenne dei telefonini?
O forse il WWF, nato nel segno del conservazionismo borghese?
I verdi di partito? Integralisti solo di poltrona "naturalmente"
loro appiccicata al culo?
Te lo faccio io il nome di un ecologista integralista, Ken Saro
Wiwa, impiccato dai generali nigeriani per conto della Shell.
Qualche altro? Chico Mendes, qualcuno ancora vivo? Marco Camenish.
Per chi non ci sta a rivendicare il prorpio ecologismo "integralista"
la propria tenace, irriducibile passione per la vita e per tutte
le creature, a partire dai propri figli, ed estendendo questo
amore ad ogni essere vegetale ed animale, in odio alle logiche
di morte e di profitto, faccio il nome di una organizzazione
che si muove in questo senso, è Earth First!
Earth First!
c/o Cornerstone Resource Center 16 Sholebroke Ave. Leeds LS7
HB England
"Nessuna libertà senza natura, nessuna natura senza libertà".
Saluti e libertà
Teodoro Margarita
(CO)
Risponde:
Maria Matteo
Devo confessare che ad una prima lettura la lettera che precede
mi ha un po' stupita: infatti mi si accusa di ignorare fatti
quale l'eliminazione della biodiversità o la sterilità delle
sementi transgeniche che invece costituiscono l'ossatura dell'articolo
che scrissi per A rivista anarchica. Ma ho subito notato che
il mio nome è stato aggettivato al femminile, com'è abitudine
assai diffusa tra i sessisti che amano far rilevare che chi
parla non è un uomo. O forse anche questa aggettivazione fa
parte della strenua difesa della biodi- versità? Non insisto:
può darsi che la discriminazione di cui sono oggetto le donne
mi renda un po' suscettibile. Vado quindi al sodo. Infatti,
al di là della letteratura, mi pare evidente che l'oggetto del
contendere, quello che ha suscitato l'indignazione del lettore
sia il riferimento critico all'ecologismo integralista e, contestualmente,
la mancata condanna aprioristica delle modificazioni genetiche.
Ebbene sì lo ammetto: mi risulta sempre difficile accettare
o rifiutare a priori una pratica o un'ipotesi teorica di cui
non siano im- mediatamente evidenti le implicazioni etiche e
politiche. Credo che in qualsiasi ambito sia doveroso pretendere
ma anche effettuare verifica di qualsivoglia prospettiva ci
venga presentata. Un atteg- giamento diverso, il rifiuto della
verifica, l'assunzione o la negazione a priori di una teoria
o di una prassi sono indice inequivocabile di un atteggiamento
integralista. Perché cos'altro è l'inte- gralismo se non la
presunzione di possedere un criterio di verità e giustizia indiscusso
e indiscutibile perché fondato su una qualche credenza di tipo
fideistico? Caratteristica comune a ogni tipo di integralismo
è la pretesa di conoscere ed incarnare una verità valida in
se e, in quanto tale, non suscettibile di sperimentazione. Anzi,
l'idea stessa di sperimentazione risulta del tutto aliena all'atteggiamento
integralista, perché chi sa già tutto considera inutile, dannosa
e fonte di ogni male ogni attitudine critica nei confronti di
una verità che non può sopportare l'onere della prova perché
si pretende assoluta. Assoluto, in latino absolutus, ossia sciolto,
slegato, non dipendente da alcunché ne costituisca un senso
che non sia autofondato. Nella nostra epoca abbiamo di fronte
due tipi di integralismo che seppure apparentemente antitetici
appaiono alla fin fine complementari. Da un lato v'è l'integralismo
di chi, sia pure trincerandosi dietro un atteggiamento scientista,
crede in modo assoluto al primato della tecnica e, nonostante
i ripetuti fallimenti e gli innumeri disastri, ritiene che dalla
tecnica non possa che derivare inevitabilmente un progresso
per l'umanità. Dall'altro vi sono coloro che, sia in una prospettiva
immediatamente religiosa sia con atteggiamento formal- mente
laico, si rifanno ad un assoluto che può assumere le vesti di
dio o quelle di una natura divinizzata.
Nel mio articolo sulle sementi geneticamente modificate ho tentato
di mostrare come la ricerca e la sperimentazione biotec- nologica,
volute e finanziate dalle grandi multinazionali dell'agrochimica,
servano gli interessi di queste ultime e siano nocive per l'ambiente
e per la salute di noi tutti. In questo contesto la ricerca
e la tecnica sono al servizio del profitto, le cui ragioni sono
un assoluto di fronte al quale l'ulteriore immiserimento dei
contadini del sud del mondo, i pericoli per la salute e per
l'ambiente sono del tutto irrilevanti. Non è certo un caso che
i sostenitori della massiccia introduzione di questa tecnica
rifiutino qualsiasi accordo interna- zionale che consenta il
diritto alla verifica, al controllo, alla semplice possibilità
di ac- certare tramite un'etichetta la provenienza dei cibi
che vengono messi in commercio. La distruzione della biodi-
versità, conseguente alla massiccia introduzione delle sementi
e delle colture geneticamente modificate rappresenta un impove-
rimento irreversibile sia sul piano sociale sia su quello culturale,
significa che l'unica logica vincente a livello planetario è
quella del profitto, destinata a vedere sempre più ricchi i
ricchi e sempre più poveri i poveri. Oggi è del tutto evidente
che la ricerca scientifica deve essere guardata con estrema
circospezione perché l'unica prova cui si piega è quella dei
possibili interessi per la committenza. Ma questo non implica
in alcun modo il ritenere che la modificazione genetica in quanto
tale sia sempre e comunque un fatto negativo. Facciamo un esempio
in altro contesto. Noi tutti sappiamo che la ricerca che ha
portato alla nascita delle reti telematiche è stata in origine
promossa e finanziata dal Pentagono per esigenze di tipo militare,
tuttavia questa stessa tecnica ha consentito la creazione di
una rete internazionale di collegamento orizzontale. Questa
rete nel dicembre scorso ha messo in comunicazione movimenti
di base nei cinque continenti che hanno dato vita ad una protesta
su scala planetaria che è stata in grado di mettere in serio
imbarazzo i potenti della terra riuniti a Seattle. È stato anche
grazie a quest'accresciuta capacità comunicativa che il vertice
di Seattle è fallito e la questione degli alimenti geneticamente
modificati è balzata all'attenzione di tutti.
La lotta dura contro i signori della terra e dell'uso che fanno
della tecnica non può tradursi in un acritico rifiuto della
tecnica in quanto tale. Posso capire che tale posizione sia
fatta propria dal papa o da altri integralisti del suo tipo:
in fondo continuano a combattere una battaglia che è da secoli
è sempre la medesima. Oggi Wojtila non può permettersi di negare
la rotazione dei pianeti, ma si oppone alle modificazioni della
vita perché mettono in discussione l'ordine del "creato". Ma
mi pare francamente incomprensibile che da un punto di vista
libertario vi sia chi si erge a difensore della sacralità della
natura. Se la tracotanza della tecnica rischia di portarci alla
catastrofe, nondimeno il considerare la natura come una sorta
di santuario inviolabile mi pare altrettanto pericoloso. Occorre
saper osservare con occhi laici e disincantati la realtà senza
soggiacere né alla tentazione romantica di antropomorfizzare
la natura né alla follia di una tecnica che realizza i propri
"progressi" devastando irreversibilmente il pianeta. L'ambiente
naturale è in costante mutamento e non vive di un equilibrio
statico. Attraverso continue modi- ficazioni si costituiscono
nuovi scenari e nuovi equilibri. Paradossalmente la tecnica
ed i suoi nemici integralisti finiscono con il prefigurare panorami
altrettanto desolanti. La tecnica agisce senza in alcun modo
preoccuparsi degli effetti del proprio procedere, che appaiono
tanto più incontrollabili e tendenzialmente irreversibili quanto
più cresce la potenza della tecnica stessa. Come un gigante
dai piedi di argilla la tecnica, mirando al controllo totale
dell'esistente è tuttavia del tutto incapace di controllare
i disastri che genera. Il rischio non è solo quello di un paesaggio
lunare ma anche il delinearsi di un paesaggio unidimensionale
in cui la pluralità e la varietà sono cancellate. La molteplicità
dei colori, degli odori e dei sapori è un piacere cui sarebbe
stolto rinunciare. Il peperone quadrato di Asti, ormai in via
di estinzione, ha un gusto suo proprio che non troveremo più
in un altro peperone. Tuttavia l'idea di "natura" tipica di
tanto ecologismo integralista finisce con l'essere parimenti
unidimensionale, perché in modo altrettanto antro- pocentrico
pretende di definire un "equilibrio" e di stabilire che tale
equilibrio rappresenta una fatto intangibile. È il mito dell'Eden,
il giardino perfetto nel quale l'uomo e la donna portano il
disordine e il caos. La difesa della biodiversità non si realizza
immaginando un mondo simile ad una gigantesca oasi protetta,
in cui oggi e per sempre vi saranno gli stessi fiori, le stesse
piante, gli stessi animali, tutti nella stessa posizione, nello
stesso numero, con la stessa "funzione". Sarebbe come scattare
una foto e pretendere che essa rappresenti e realizzi il presente,
il passato e il futuro. Anche questa è una forma di tracotanza,
la pretesa arrogante di definire una volta per tutte il "giusto"
ordine del mondo. La madre terra di cui spesso leggo sulle pagine
del CIR mi pare non troppo dissimile dalle tante madonne amate
dagli integralisti cristiani.
Ben altro è la difesa e la promozione della biodiversità o,
anzi, della diversità tout court, che parte dal riconoscimento
e non dalla negazione del relativismo culturale e trova nella
sperimentazione il proprio fecondo terreno di crescita.
Credo che su questi temi sarebbe importante aprire un dibattito
a tutto campo, capace di aprire uno spazio di discussione culturalmente
approfondita ed aperta, che purtroppo l'urgenza dei problemi
immediati spesso non ci consente di attuare.
Un saluto libertario e laico,
Maria Matteo
IL
2000 NON MERITA POESIA
care sorelle e fratelli, Il fatto che non esista il
Tempo
Il fatto che il calendario ne sia la sua ulteriore falsificazione
Il fatto che 2.500.000.000 di persone sulla terra non
abbiano il vostro calendario
Il fatto che proprio questi 2.500.000.000 di persone
appartengano a quella enorme parte del mondo che mangia
solo il 10% delle risorse
Il fatto che io appartenga solo anagraficamente e burocraticamente
al restante 10% della popolazione mondiale che divora
il 90% delle risorse
Il fatto che io mi dissoci eticamente da questa appartenenza
come Julian Beck quando affermava "not in my name" riguardo
alla pena di morte
Il fatto che esista ancora su questa terra la pena di
morte, e la tortura, e lo sfruttamento, e le armi, e gli
eserciti, e la pulizia etnica, e la discriminazione razziale
e sessuale Il fatto che gli indios Yanomami si stiano
estinguendo, che ogni giorno scompaiano un popolo e un
lingua, o un animale, o un fiore, o una cultura che conosce
popoli, lingue, animali e fiori
Il fatto che proprio in questi giorni qualcuno stia
sterminando impunemente i ceceni, ultimo elemento di una
teoria di massacri che ha aperto, percorso e chiuso questo
'secolo', il più sanguinoso e crudele della storia umana
Il fatto che la poesia e l'arte non si oppongano a tutto
questo facendo il gioco dei sistemi di controllo sociale
che, servendosi degli artisti e poeti che si 'prestano
al gioco', simulano un mondo pacificato e libero dove
'tutto-è-possibile', ma solo virtualmente.
NON MI IMPEDISCE DI AVERE COMUNQUE VOGLIA DI AUGURARVI
DI CUORE TUTTO IL BENE POSSIBILE E DI POTER CONTINUARE
A COLTIVARE UTOPIA E DESIDERIO PER TENDERE VERSO QUELLO
IMPOSSIBILE
bonos printzipios e menzus fines
Alberto Masala
(Bologna)
|
Elevato
indice di vigilanza
Siamo i detenuti ristretti nella sezione ad Elevato Indice
di Vigilanza del Carcere (E.I.V.) di Voghera e vogliamo fare
presente che da alcuni giorni ci troviamo a dover vivere in
una condizione di grave disagio; con la necessità di dover convivere
in due dentro le celle che erano state predisposte per un singolo
detenuto e dove le strutture e le disposizioni di sicurezza
hanno imposto, da sempre, una forma di arredo esenziale e inamovibile.
Anche gli spazi comuni risultano praticamente inutilizzabili
a causa del sovraffollamento, per cui manca la possibilità di
impegno lavorativo e di un minimo di attività per sfuggire all'ozio
imposto dalle strutture.
Ma quel che più ci preme far presente (oltre ai vari disagi
su cui non ci dilunghiamo) è che pur di triplicare il numero
dei detenuti presenti nelle sezioni vengono mantenuti i posti
di lavoro disposti in precedenza: e cioè 3 persone che lavorano
per mezza giornata di paga ad assicurare le pulizie e la distribuzione
del vitto. Questo, prima, ci consentiva di lavorare a rotazione
un mese su tre con una paga mensile di circa 600.000 lire, sufficienti
comunque per poter far fronte alle minime personali esigenze
di mantenimento, cosa che ovviamente ora non è più possibile,
dato che l'unica occasione lavorativa attualmente si presenta
con una rotazione di oltre sei mesi, ovviamente con la medesima
paga. Tenendo presente che i suddetti lavori non sono "lavori
premiali" ma essenziali al funzionamento minimo della vita interna
dell'istituto.
Per cui vorremmo far capire il disagio di molti di noi, che
dopo lunghi anni di detenzione (oltre i 20) si trovano privi
di qualsiasi risorsa economica. Considerando anche che, pur
coscienti della propria condizione e delle lunghe condanne,
dovrebbe essere comunque data la possibilità a chiunque, e soprattutto
a chi ne ha più bisogno, di impegnarsi in attività lavorative,
in vista anche di quella rieducazioneche è nei dettami della
Costituzione e dello stesso Ordinamento Penitenziario (che evidenzia
il lavoro come una delle prime e basilari forme di risocializzazione)
e come in effetti si sente sempre ribadire nelle dichiarazioni
della società Civile.
Consci del dibattito politico-giudiziario in seno all'attuale
Governo, ribadiamo la nostra disponibilità al dialogo riguardo
al miglioramento delle condizioni detentive, è evidente che
queste generali restrizioni finiscano col gravare, maggiormente
sulla vita carceraria pertanto chiediamo che venga preso in
considerazione un riequilibrio dei posti di lavoro in base alle
presenze.
I Detenuti del
Carcere di Voghera
I
nostri fondi neri
|
Sottoscrizioni Ronald Creagh (Montpellier
- Francia), 20.000; Aurora e Paolo (Milano) ricordando
Alfonso Failla nel 13° anniversario della morte (26.1.1986),
1.000.000; Savino Valerio (Pistoia) dalla vendita
di un quadro, per l'ideale, 50.000; Piero Borgo (Acerra),
30.000; a/m Mauro, un compagno (Sant'Angelo Lodigiano),
17.000; Misato Toda (Tokyo - Giappone), 300.000; Alberto
Ciampi (San Casciano Val di Pesa), 50.000; I.G. (Milano),
10.000; Salvatore Esposito (Frankfurt am Main - Germania),
48.200; Gianni Magrì (Grosseto), 5.000; Diva Agostinelli
Wieck (Troy - USA), 272.099; Renato Girometta (Vicobarone),
100.000; Paolo Friz (Mesagne), 10.000; a/m M. Pandin,
ricavato da "Musica per 'A'", 1.500.000; Giuliano
e suo figlio Valerio (Monteprandone), 10.000; Enzo
Francia (Imola), 50.000; ricavato da un pranzo greco
con Milena e Paolo (Paris - Francia), 117.000; Tiziana
Ferrero (Brisbane - Australia), 60.000; Gino Perrone
(Brindisi), 10.000; Piero Bertero (Savigliano), 50.000;
Giordana Garavini (Castelbolognese) ricordando Aurelio
Lolli, Emma e Nello Garavini, 100.000; Fabrizio Tognetti
(Larderello), 20.000; Cesare Fuochi (Imola), 50.000;
Gianluigi Paganelli (Monzuno), 50.000; Danilo Vallauri
(Dronero), 50.000; Rino Ermini (Villa Cortese), 10.000;
Silvano Branco (Sedico) "pago un abbonamento a chi
volete voi", 50.000; Carla Caschetto (Bruxelles -
Belgio), 200.000; Francois Argenziano (Imola), 20.000;
Luca Todini (Brufa di Torgiano), 50.000.
Totale lire 4.309.299.
Abbonamenti sostenitori Renato Girometta (Vicobarone),
150.000. Antonio Ruju (Torino), 200.000; Massimo Regonesi
(Spirano), 150.000; Giordana Garavini (Castelbolognese),
150.000; Carlo Ghirardato (Roma), 150.000; Stefano
Vittori (Latina), 150.000; Enrico Sironi (Cusano Milanino),
150.000; Aimone Fornaciari (Nattari - Finlandia),
150.000; Arturo Schwarz (Milano), in ricordo di Miklòs
Radnòti, il grande poeta ungherese vittima della Shoah,
200.000; Stefano Cempini (Ancona), 150.000.
Totale lire 1.600.000.
|
|