Rivista Anarchica Online


 

 

Nosotros anarcosindicalistas

L'intervista al segretario della CGT Spagnola ("Nosotros de la CGT"), condotta da S. d'Errico e F. Iacchetta, pubblicata sul n. 259 della Rivista "A" cerca di spacciare per vere alcune pericolose falsità che pongo all'attenzione dei lettori.
Dall'inizio alla fine dell'articolo si cerca infatti di accreditare (con calcolata insistenza) come "anarcosindacalista" un'organizzazione sindacale, la CGT appunto, che nella realtà non lo è affatto. Ritengo opportuno, quindi, precisare alcune cose che intervistato ed intervistatori non vi hanno detto, non amano che si sappia e probabilmente non vi direbbero mai. Tralascio le vicende dell'ambigua nascita della CGT (attraverso scissioni, di fatto favorite dall'allora governo socialista, per colpire la CNT in rapida ascesa alla fine degli anni settanta e agli inizi degli ottanta).
Tralascio anche la parte che riguarda i tentativi degli scissionisti di voler usurpare la storica sigla dell'anarcosindacalismo spagnolo per poter mettere le mani sull'enorme patrimonio confiscato dai fascisti alla CNT e che un giorno il governo spagnolo dovrà restituire alla Confe-derazione. Sono vicende complesse di un passato pur recente.
Vorrei invece soffermarmi su che cos'è la CGT di oggi. Si tratta di un sindacato che progressivamente si è allontanato sempre più dai contenuti del sindacalismo di base (pur continuando ad esserci all'interno lavoratori in buona fede e realtà interessanti, così come avviene nell'arcipelago dei sindacati alternativi italiani). Fortemente burocratica la sua struttura interna, gestita da un corpo di funzionari pagati, la CGT ha, in questi anni, tessuto solidi legami di reciproci interessi con partiti politici della sinistra spagnola (ben presenti all'interno dei vertici sindacali) che, di fatto, ne condizionano la linea. La strategia di intervento di questa organizzazione ha quindi ben poco di "base" o di "alternativo" visti i sempre più numerosi compromessi col padronato e lo stato, le scelte cogestionarie e le frequenti svendite di lotte. Si arriva al limite a casi in cui la CGT ha accettato licenziamenti di lavoratori. Tutto questo è facilmente riscontrabile seguendo la stampa spagnola di questi anni.
Ma il fatto più preoccupante ed oggettivamente assai pericoloso, su cui invito tutto il movimento libertario a ben riflettere, è l'ormai diffusa "apertura" di questo sindacato verso le forze della repressione. Sin dal 1992 la CGT ha costituito al suo interno sindacati (SAP) in cui si sono organizzati i membri della famigerata polizia catalana per poi passare ad altri "corpi" tra cui anche gli agenti carcerari. È del Giugno di quest'anno la "lotta" (si fa per dire!), che ha avuto molta eco localmente, intrapresa dalla CGT ad Almeria, unita ad alcuni sindacati gialli, in favore delle richieste corporative dei carcerieri di quella città.
Ora, mi rendo conto che come redazione di "A" è vostro sacrosanto diritto pubblicare quello che vi pare ma, per favore, nell'editoriale del n. 259 ("Bomba o non bomba" pag.4), dopo aver messo le mani in avanti affermando che sulla situazione spagnola non sposate nessuno (si sa, coi costi delle separazioni!) potevate almeno evitare di dire, riferendovi all'intervista in questione, che comunque fornite ai vostri lettori "informazioni valide". In questo caso le informazioni non erano vere e comunque risultava evidente che lo scopo di intervistatori ed intervistato era solo quello di propagandare il tentativo in atto di creare una nuova internazionale di sindacati europei. Cosa questa legittima per chiunque, a patto che non si tenti di far passare per "anarcosindacalismo" quello che è l'esatto opposto. (NB: i sindacati rivoluzionari ed anarcosindacalisti di tutto il mondo già hanno la loro internazionale: l'AIT Associazione Internazio-nale dei Lavoratori.
Qui non si tratta di dare o togliere patenti a nessuno. Si tratta di essere logici e coerenti. Vi sono dei paletti che delimitano il che cos'è e cosa non è una determinata cosa. L'Anarcosindacalismo è stare coi lavoratori ma anche con gli antimilitaristi, i nonsottommessi e i tanti proletari in carcere. Stare coi poliziotti e coi carcerieri vuol dire stare contro l'Anarcosindacalismo. Gli uni, sempre e comunque contro gli altri.

Gianfranco Careri
(Ancona)

Il peso del comunismo

Ho letto con interesse, sul numero 259 di "A Rivista Anarchica", la lettera di Cristiano Valente sulla libera sperimentazione e la risposta di Pietro Adamo.
Condivido gran parte di quanto sostiene Valente e, di conseguenza, non ritengo opportuno tornare sulle sue considerazioni in questa sede. La risposta di Pietro Adamo, forse anche perché caratterizzata dall'esigenza di essere concisa, mi sembra decisamente singolare.
Cercherò, di conseguenza, di far rilevare alcune questioni che mi sembrano meritevoli di approfondimento.
In primo luogo è evidente che il termine "comunismo", anche se accompagnato dall'aggettivo "libertario", è caratterizzato dal peso della vicenda del blocco orientale e dei partiti comunisti storicamente esistiti ed esistenti. Io per primo, pur ritenendomi comunista, sono consapevole di quanto sia faticoso e, a volte, inutile stare a spiegare la differenza fra ciò che il senso comune chiama comunismo e il comunismo come progetto di radicale emancipazione sociale.
Un mio conoscente ha affermato una volta che la parola "comunismo" è sputtanata per i secoli futuri e proponeva di sostituirlo con la circonlocuzione "autogoverno dei produttori associati". Per parte mia, non avrei problemi a chiamare il comunismo libertario "Pier Ferdinando" se questa nuova definizione ci facesse fare un solo passo avanti ma ritengo che il modificare la parola non risolva nulla e che la questione sia di altro tipo e riguardi quello che si ritiene caratterizzi un programma di emancipazione sociale radicale.
Detto ciò, mi sembra evidente che, almeno quando di questi argomenti si occupa un compagno della preparazione di Pietro Adamo, non ci si aspetterebbe una liquidazione del problema quale quella che possiamo leggere nelle ultime righe della sua lettera. Quando, infatti egli afferma: "anarco-comunisti e anarco-capitalisti appaiono condividere in fondo la stessa prospettiva gnostico-millennaristica: per entrambi il regno della libertà finale - comunista o capitalista che sia - non è mai comparso nel regno della storia; è, nella sua perfezione assoluta, sempre di là a venire" compie un operazione intellettuale decisamente interessante.
In primo luogo pone sullo stesso piano la tradizione classista e rivoluzionaria dell'anarchismo con correnti liberiste radicali di derivazione statunitense (per evitare equivoci, se fossero di derivazione bengalese non le riterrei più condivisibili) che sono estranee, sino a prova contraria, alla teoria, alla pratica, alla cultura anarchica. Adamo potrà sostenere che non vi è chi ha il diritto di escludere dalla nostra variopinta famiglia nessuno ed io non posso che essere d'accordo con lui ma ritengo che chi difende la proprietà privata, il lavoro salariato ecc. sia appartenente ad un altra corrente di pensiero per propria scelta e, di conseguenza, si sia escluso, ammesso che se ne curi, da sé. In realtà, le mie limitate letture della letteratura anarco-capitalista mi confermano nell'idea che i suoi esponenti di tutto si curino fuorché dell'anarchismo. A questo proposito, infine, vorrei porre una domanda: gli anarco-capitalisti sono capitalisti anarchici o anarchici (si fa per dire) ansiosi di diventare capitalisti? Nel primo caso potremmo chiedere loro un cospicuo finanziamento al movimento, nel secondo fare loro i migliori auguri e lasciarli andare per la loro strada.
In secondo luogo, attribuisce ai comunisti anarchici una prospettiva religiosa che non mi risulta avere alcuno spazio nella tradizione anarchica se si escludono alcune sfumature della propaganda elementare e nelle canzoni di un secolo addietro (sfumature peraltro suggestive e, perché nasconderlo?, sovente commoventi nella loro semplicità). Basta leggere le opere di Fabbri e Malatesta, autori che Adamo mostra di conoscere ed apprezzare, per tranquillizzarsi nel merito. Il comunismo anarchico è proposto come un programma razionalmente condivisibile e storicamente realizzabile e non come l'età dell'oro. Questo programma si può condividere o meno ma certo non prevede alcun atto di fede né alcun percorso settario.
Infine Adamo fa una scoperta che trovo conturbante: il comunismo libertario non si è mai realizzato. Un argomento del genere è notevole per non dire bizzarro. Infatti se il comunismo libertario si fosse realizzato non sarebbe un programma ma una realtà sociale e noi non ci proporremmo di agire per favorirne la realizzazione ma, casomai, per viverlo al meglio. Se, insomma, la rivoluzione sociale si fosse compiuta non vi sarebbero, almeno nel senso attuale, dei rivoluzionari e ragioneremmo d'altro.

A proposito del comunismo libertario Adamo propone una confutazione precisa: "le sue imperfezioni nel mondo reale sono sempre spiegabili con le contingenze storiche; le realizzazioni storiche - l'unico metro di giudizio concreto a disposizione di uomini mediamente razionali - sono sempre contaminate e mai eleggibili a modello di raffronto e valutazione".
In poche e secche parole Adamo colloca i comunisti anarchici al di fuori dell'ambiente degli uomini mediamente razionali e li arruola (ci arruola) nel campo degli gnostici millennaristi.
Ora, il fatto che dovrebbe essere mediamente noto anche ad uomini razionali quale è Adamo è che, nel corso del secolo che volge alla fine, le rivoluzioni proletarie storicamente esistenti sono state schiacciate nel sangue e che le loro realizzazioni storiche (se non vogliamo chiamarle comunismo chiamiamole autogoverno dei produttori associati) che pure non sono mancate non hanno potuto essere sottoposte a verifica approfondita per il semplice motivo che hanno avuto poco spazio e tempo per svilupparsi. Non voglio essere polemico ma ritengo che, nonostante le "contingenze storiche" (se Adamo vuole chiamare così, per fare un esempio, l'Armata Bianca e quella Rossa in Russia, i franchisti e gli staliniani in Spagna ecc.) qualche realizzazione positiva non sia mancata.
Si può trarre da queste vicende la conclusione che la rivoluzione sociale non è possibile e sarebbe un tesi razionale ma non mi sembra simpatico collocare fuori dalla razionalità ogni teoria della rivoluzione sociale.
A mio parere, il punto è, se assumiamo come possibile e desiderabile un superamento dell'attuale società, preciso e cercherò di riassumerlo nei limiti delle mie limitate capacità.
L'abolizione dello stato e della proprietà e la conseguente negazione di ogni gerarchia sociale implica, per molti compagni, la proprietà collettiva dei mezzi di produzione. Le forme di organizzazione della vita associata in una società di questo genere non possono essere definite a priori per la contraddzione che nol consente visto che l'autogestione non può che prevedere la libera sperimentazione di stili di vita e di attività straordinariamente diversificati. Di conseguenza, in linea di principio, non ripugna alla ragione che vi siano individui che trarranno piacere dalla conduzione individuale di qualche attività e non si vede che problema possa porre una scelta del genere in assenza di sfruttamento del lavoro altrui. La discussione su questo problema ha più di un secolo e non mi sembra che Adamo abbia aggiunto elementi particolarmente nuovi a quanto altri hanno detto in passato sull'argomento.
Il fatto che si sia affermata in Unione Sovietica, prima, ed in altre aree del pianeta, poi, un regime che si è definito socialista e che vedeva al governo un partito che si definiva comunista ha reso necessaria una critica puntuale al loro modo di intendere e, soprattutto, di praticare l'espropriazione della proprietà privata. Per la verità, questa critica era piuttosto una conferma che un superamento della precedente valutazione anarchica sul ruolo dello stato ma era, ed è, necessaria una riflessione sulle difficoltà della rivoluzione sociale, sui totalitarismi, sullo stravolgimento del socialismo. Sarebbe sbagliato negare che l'anarchismo come corrente di pensiero ed azione ha vissuto una crisi profonda soprattutto per quel che riguarda alcune ottimistiche aspettative nelle capacità di autoemancipazione delle classi subalterne.
Sarebbe ancora più sbagliato evitare una discussione serrata su questi temi.
Detto ciò, ritengo che le ragioni che inducono molti compagni a desiderare l'autogoverno dei produttori associati ed a battersi per realizzarlo restino sostanzialmente valide ed anzi, di fronte ai caratteri attuali dell'oppressione e dello sfruttamento, siano rafforzate.
Quali siano i mezzi migliori d'azione, quali le difficoltà, quali gli errori passati e presenti è argomento meritevole di confronto nel rispetto delle diverse sensibilità ma non trovo utile offrire un'immagine caricaturale dei punti di vista che non si condividono per garantirsi una facile ma inutile, ai fini di una crescita comune, vittoria dialettica.

Cosimo Scarinzi
(Torino)

 

MAQROLL È PARTITO
a Fabrizio De André

Le labbra di un canto migratore
premono sulla corale del sogno
in un concerto monozigoto
che ci evoca gemelli
a tutto dissonanti
e per sempre libertari
un Gesù travestito da passeur
in fuga dal marchio divino
inciampa tra le sirene del porto
cade tre volte e per tre volte
ti bacia le dita
perché l'hai schiodato
dalla croce virtuale
del figlio del padre
e dello spirito santo
e quel salice piangente
che ti spiove sulla fronte
fa ombra al mio rimpianto
sui declivi rottamati
alla semina sinale
dove il bulbo che fiorisce
in un juke-box provenzale
spande l'eco germogliata
di te sciamano dei cenciosi

Precario del vento
con il futuro cingolato
che sbarca nell'oblio
lasciate che canti
la sua frenesia morale
di mezzadro del cielo
spremere grappoli di relitti
e vendemmiare resurrezioni
in una cattedrale di memorie

Mauro Macario
(Levanto)

 

Comunisti e orgogliosi

La querelle Adamo-Valente (estesa internettisticamente ad altri compagni) mi sollecita ad una serie di considerazioni che investono in varia misura alcuni "luoghi" del pensiero politico rivoluzionario, di recente poco e mal frequentati: comunismo, comunismo anarchico, anarchismo, libertarismo, libera sperimentazione e così via.
Potrò, nello spazio di questa lettera, accennare ad alcuni di essi, ma solo per sommi capi, spero di essere compreso.
Innanzi tutto occorre porre una certa considerazione alla questione del rapporto, irrisolto, tra pratiche sociali "antagoniste" all'ordine del mondo dato e teorie critiche e rivoluzionarie che ambiscono ad esserne la "giustificazione" dapprima, la guida e il progetto, in seguito. Lo stesso vale, è appena il caso di notarlo, se sostituiamo idee a teoria.
Il rapporto tra prassi e idee rivoluzionarie, è stato dibattuto ad nauseam e spesso risolto superficialmente nella categoria del dialettico (che tutto spiega e nulla spiega), o in un rapporto univoco di dipendenza, in un verso o nell'altro. Ristabilire un corretto rapporto significa riconoscere il primato dei movimenti di lotta delle classi subalterne tesi all'emancipazione dalle proprie condizioni di sottomissione, che metabolizzati e distillati dalla riflessione ed elaborazione della "intellettualità rivoluzionaria" spesso ritornano in forma di suggestioni, idee, teorie rivoluzionarie o ideologia ad influenzare quelli stessi movimenti. In ultima analisi dunque le idee - e segnatamente quelle rivoluzionarie - non nascono dalla testa di Giove, ma dal fuoco delle lotte sociali di classe.
Veniamo all'anarchismo. Il giochino del pendolo tra concezioni estreme di questo - nel caso nostro quella "anarco-capitalista" e quella comunista, libertaria o anarchica che sia - mi sembra formalmente stucchevole, metodologicamente scorretto, politicamente mistificante e storicamente sbagliato. Stucchevole perché usa il principio del "in medio stat virtus". Scorretto perché il fulcro del bilancino è sempre la mia posizione e sul braccio antagonista rispetto a quello delle posizioni che avverso, metto qualsiasi paccottiglia di segno opposto. Mistificante perché fa assurgere la paccottiglia alla dignità di sistema di pensiero. Sbagliato perché nessun movimento, nessuna prassi antagonista si sono mai alimentati di questa paccottiglia.
Un esempio di questa paccottiglia è, ad esempio, l'anarchismo da Far-West degli anarco-capitalisti, che rimuove il problema dello Stato (ovvero lo allontana fisicamente in terre lontane), ridicolizza quello dell'eguaglianza economica nell'insensatezza di "pari opportunità" e conseguentemente mistifica quello della libertà nell'indipendenza incondizionata del singolo, contrapponibile a tutte le forme di Gemeinwesen possibili.
Ma veniamo alle cose serie, ovvero al recupero in chiave anarchica di certi topoi del liberalismo, sia in chiave di ethos che di progetto. Faccio grazia ad Adamo del banale giudizio che il liberalismo altro non è che ideologia borghese tout-court. Non è questo infatti il punto.
Il liberalismo, anche nelle sue forme più radicali, antiburocratiche, antistataliste e, per così dire, libertarie, è strutturalmente inadeguato a rendere conto delle istanze di liberazione delle classi subalterne. Non può infatti prescindere, altrimenti non è più tale, dalla proprietà; sia questa quella dei mezzi di produzione o dei frutti della stessa; sia essa individuale o di una "classe di individui", ovvero cementata dalla condivisione delle forme di dominio e di sfruttamento, e non dalla solidarietà che deriva dal patire comune dell'oppressione e dell'espropriazione e dal sentire, altrettanto comune, di essere gli artefici, veri, dell'edificio sociale. La proprietà allude necessariamente all'esclusione, alla separatezza, al privilegio, così come il mercato (per quanto esso possa essere libero) allude, da un lato alla merce (con tutte le valenze ineludibili che questo termine comporta) e, dall'altro, comunque, allo scambio ineguale. Ineguale proprio perché - anche nella sua versione di "libero gioco" - propone la contabilizzazione di un'asettica "giusta" equivalenza tra entità incommensurabili: il mio superfluo / il tuo bisogno; il mio necessario / il tuo bisogno. Proprietà e mercato, dietro la loro forma giuridico-istituzionale, rivelano un ventaglio semantico assai ristretto e tutto interno all'apparato concettuale e normativo di una società divisa in classi. Ethos e progetto si fondano dunque sull'autonomia dell'individuo rispetto al corpo sociale ed alla classe d'appartenenza che però è proprio possibile (in termini di ricchezza materiale ed intellettuale) in quanto egli gode dei benefici dell'appartenenza ad un determinato segmento di quel corpo sociale, dell'appartenenza a quella classe sociale. Libertà per tutti dalla libertà dei singoli? Anche se così fosse bisognerebbe rammentare che i talenti da impegnare in quanto individui in questa "intrapresa" sono molti e che quando il buon Dio li ha distribuiti, la maggior parte dell'umanità è rimasta fuori della porta.
Non c'è possibilità di disvelamento d'altre qualità intrinseche in queste categorie, non c'è possibilità di sdoganamento: fuori dai confini di quella società e del suo universo di significati, i pezzi d'oro ridiventano carta straccia, o meglio grezzi anelli di una robusta catena.
Infine il problema del comunismo anarchico. L'anar- chismo - o meglio quella sua centrale componente che si rifà al comunismo anarchico o libertario che dir si voglia - nasce nel crogiolo delle lotte di classe, tra il proletariato, come ipotesi di emancipazione radicale e totale dalla società dello sfruttamento, del dominio e dell'oppressione. La componente antistatalista e antiautoritaria, che si sostanzia in queste lotte in opposizione alle forme istituzionali della dominazione di classe, completa l'aspirazione all'uguaglianza economica tipica già di forme di comunismo primitivo. La comunità proletaria che si cementa in antagonismo e in subordinazione ai processi di industrializzazione e concentrazione capitalistici, fornisce l'humus ad alcune straordinarie esperienze rivoluzionarie di segno libertario, tra le due guerre mondiali, che tutti conosciamo. Esperienze presto drasticamente stroncate dallo strapotere borghese proprio perché alludevano concretamente - tramite pratiche sociali antagoniste e non integrabili - al rovesciamento totale dell'esistente e non a pulsioni millennaristiche dell'avvento di un mondo nuovo. Tagliamo una sessantina d'anni (possiamo farlo perché ci muoviamo su linee interne) e arriviamo all'oggi. Il capitalismo, nella sua fase imperialistica, ha metabolizzato, integrato, triturato e digerito una miriade di "forme di vita", di modelli economico-sociali, di rappresentazioni del mondo, anche sedicenti antagoniste dell'ordine sovrano. Resta poco: il solco di una tradizione politica non contaminata e la necessitˆ di verificare se l'avvio di un nuovo ciclo di lotte generalizzate - reso probabile dal progredire devastante della crisi capitalistica - esprimerà, nella sua spontaneità, contenuti ed aspirazioni congruenti con quella tradizione oppure no. Io credo di sì, come credo che sia necessario fin da oggi cominciare a disincrostare da tutte le sedimentazioni improprie la parola "comunismo" riportandola nel suo naturale contesto anarchico. Non mi pare che lo stesso si possa fare con "liberismo". Non c'è parentela, non c'è rapporto, non c'è congruenza.
Mi sorge un sospetto: non è che Pietro Adamo ci ha teso un tranello? Intendo a noi, anziani e miti residuati dell'anarchismo di classe, restii ad entrare in questi argomenti per pudore, stanchezza, battaglie perse, anni consumati? Non è che volesse farci uscire allo scoperto per poter sorridere ironicamente e commentare: "Vedete, sempre gli stessi, sempre le stesse cose"? Accetto il rischio e nel frattempo lo ringrazio di avermi ridato l'occasione (e l'orgoglio) di potermi definire comunista (e anarchico, ovviamente).

Guido Barroero
(Genova)

A propostito di terminator

Quello che Maria Matteo ha detto, che ogni essere umano capace di intendere e di volere per conto suo con un minimo di speranze e di probabilità di permanere su questa terra deve sapere è che (come riportato dallo stesso Manifesto più volte nella rubrica "Terra terra", l'ultima volta oggi, 10 novembre) Terminator ha già cominciato ad annientare ogni forma di biodiversità, non ci sono solo i semi destinati alla alimentazione umana ad essere modificati geneticamente, ma anche le colture arboree. In una parola, i signori delle multinazionali, le stesse, Monsanto, Novartis, Shell Forestry, etc. stanno letteralmente facendo terra bruciata di ciò che la lenta evoluzione ha generato nel corso di milioni di anni, per mettere a dimora alberelli necessari alla produzione, ad esempio, di quei milioni di tonnellate di carta che servono per fornire ai newyorchesi la lettura del Time della domenica: ogni copia un chilo di carta. Sapendo che per il Medio Evo al centro della visione del mondo c'era Dio, nel Rinascimento l'Uomo, nel Settecento la Ragione, oggi, semplicemente al centro di tutto non ci sono neanche i banalissimi soldi (da sempre "l'argent fait la guerre, pecunia non olet", e simili) ma i pacchetti azionari determinano se un popolo deve o non vivere, oppure essere spazzato via da una diga, se puoi o no parlare una lingua, per esempio i disgraziati Kurdi devono solo alla presenza dell'acqua e del petrolio nel loro territorio, se non possono neanche chiamarsi tali. Non dice che il polline diffuso dagli organismi geneticamente modificati induce sterilità su tutti gli altri semi circostanti: in una parola, questi stanno desertificando il mondo, ci stanno massacrando, ammazzando, letteralmente, tutti. Assassini e ladri di futuro, ecco cosa sono. Questa lotta è l'ultima lotta, persa questa ci rimangono… prospettive lunari. Vorrei chiedere alla Maria Matteo in quale caso, poi, la manipolazione genetica effettuata in laboratorio è stata un vantaggio per l'umanità e se mi può fare il nome di qualche organizzazione ecologista "integralista", la Legambiente, forse, che inalbera sulla propria Goletta Verde il marchio Omnitel, tranne a dover tacere sull'inquinamento da antenne dei telefonini? O forse il WWF, nato nel segno del conservazionismo borghese? I verdi di partito? Integralisti solo di poltrona "naturalmente" loro appiccicata al culo?
Te lo faccio io il nome di un ecologista integralista, Ken Saro Wiwa, impiccato dai generali nigeriani per conto della Shell. Qualche altro? Chico Mendes, qualcuno ancora vivo? Marco Camenish.
Per chi non ci sta a rivendicare il prorpio ecologismo "integralista" la propria tenace, irriducibile passione per la vita e per tutte le creature, a partire dai propri figli, ed estendendo questo amore ad ogni essere vegetale ed animale, in odio alle logiche di morte e di profitto, faccio il nome di una organizzazione che si muove in questo senso, è Earth First!
Earth First!
c/o Cornerstone Resource Center 16 Sholebroke Ave. Leeds LS7 HB England
"Nessuna libertà senza natura, nessuna natura senza libertà".
Saluti e libertà

Teodoro Margarita
(CO)

Risponde: Maria Matteo

Devo confessare che ad una prima lettura la lettera che precede mi ha un po' stupita: infatti mi si accusa di ignorare fatti quale l'eliminazione della biodiversità o la sterilità delle sementi transgeniche che invece costituiscono l'ossatura dell'articolo che scrissi per A rivista anarchica. Ma ho subito notato che il mio nome è stato aggettivato al femminile, com'è abitudine assai diffusa tra i sessisti che amano far rilevare che chi parla non è un uomo. O forse anche questa aggettivazione fa parte della strenua difesa della biodi- versità? Non insisto: può darsi che la discriminazione di cui sono oggetto le donne mi renda un po' suscettibile. Vado quindi al sodo. Infatti, al di là della letteratura, mi pare evidente che l'oggetto del contendere, quello che ha suscitato l'indignazione del lettore sia il riferimento critico all'ecologismo integralista e, contestualmente, la mancata condanna aprioristica delle modificazioni genetiche.
Ebbene sì lo ammetto: mi risulta sempre difficile accettare o rifiutare a priori una pratica o un'ipotesi teorica di cui non siano im- mediatamente evidenti le implicazioni etiche e politiche. Credo che in qualsiasi ambito sia doveroso pretendere ma anche effettuare verifica di qualsivoglia prospettiva ci venga presentata. Un atteg- giamento diverso, il rifiuto della verifica, l'assunzione o la negazione a priori di una teoria o di una prassi sono indice inequivocabile di un atteggiamento integralista. Perché cos'altro è l'inte- gralismo se non la presunzione di possedere un criterio di verità e giustizia indiscusso e indiscutibile perché fondato su una qualche credenza di tipo fideistico? Caratteristica comune a ogni tipo di integralismo è la pretesa di conoscere ed incarnare una verità valida in se e, in quanto tale, non suscettibile di sperimentazione. Anzi, l'idea stessa di sperimentazione risulta del tutto aliena all'atteggiamento integralista, perché chi sa già tutto considera inutile, dannosa e fonte di ogni male ogni attitudine critica nei confronti di una verità che non può sopportare l'onere della prova perché si pretende assoluta. Assoluto, in latino absolutus, ossia sciolto, slegato, non dipendente da alcunché ne costituisca un senso che non sia autofondato. Nella nostra epoca abbiamo di fronte due tipi di integralismo che seppure apparentemente antitetici appaiono alla fin fine complementari. Da un lato v'è l'integralismo di chi, sia pure trincerandosi dietro un atteggiamento scientista, crede in modo assoluto al primato della tecnica e, nonostante i ripetuti fallimenti e gli innumeri disastri, ritiene che dalla tecnica non possa che derivare inevitabilmente un progresso per l'umanità. Dall'altro vi sono coloro che, sia in una prospettiva immediatamente religiosa sia con atteggiamento formal- mente laico, si rifanno ad un assoluto che può assumere le vesti di dio o quelle di una natura divinizzata.
Nel mio articolo sulle sementi geneticamente modificate ho tentato di mostrare come la ricerca e la sperimentazione biotec- nologica, volute e finanziate dalle grandi multinazionali dell'agrochimica, servano gli interessi di queste ultime e siano nocive per l'ambiente e per la salute di noi tutti. In questo contesto la ricerca e la tecnica sono al servizio del profitto, le cui ragioni sono un assoluto di fronte al quale l'ulteriore immiserimento dei contadini del sud del mondo, i pericoli per la salute e per l'ambiente sono del tutto irrilevanti. Non è certo un caso che i sostenitori della massiccia introduzione di questa tecnica rifiutino qualsiasi accordo interna- zionale che consenta il diritto alla verifica, al controllo, alla semplice possibilità di ac- certare tramite un'etichetta la provenienza dei cibi che vengono messi in commercio. La distruzione della biodi- versità, conseguente alla massiccia introduzione delle sementi e delle colture geneticamente modificate rappresenta un impove- rimento irreversibile sia sul piano sociale sia su quello culturale, significa che l'unica logica vincente a livello planetario è quella del profitto, destinata a vedere sempre più ricchi i ricchi e sempre più poveri i poveri. Oggi è del tutto evidente che la ricerca scientifica deve essere guardata con estrema circospezione perché l'unica prova cui si piega è quella dei possibili interessi per la committenza. Ma questo non implica in alcun modo il ritenere che la modificazione genetica in quanto tale sia sempre e comunque un fatto negativo. Facciamo un esempio in altro contesto. Noi tutti sappiamo che la ricerca che ha portato alla nascita delle reti telematiche è stata in origine promossa e finanziata dal Pentagono per esigenze di tipo militare, tuttavia questa stessa tecnica ha consentito la creazione di una rete internazionale di collegamento orizzontale. Questa rete nel dicembre scorso ha messo in comunicazione movimenti di base nei cinque continenti che hanno dato vita ad una protesta su scala planetaria che è stata in grado di mettere in serio imbarazzo i potenti della terra riuniti a Seattle. È stato anche grazie a quest'accresciuta capacità comunicativa che il vertice di Seattle è fallito e la questione degli alimenti geneticamente modificati è balzata all'attenzione di tutti.
La lotta dura contro i signori della terra e dell'uso che fanno della tecnica non può tradursi in un acritico rifiuto della tecnica in quanto tale. Posso capire che tale posizione sia fatta propria dal papa o da altri integralisti del suo tipo: in fondo continuano a combattere una battaglia che è da secoli è sempre la medesima. Oggi Wojtila non può permettersi di negare la rotazione dei pianeti, ma si oppone alle modificazioni della vita perché mettono in discussione l'ordine del "creato". Ma mi pare francamente incomprensibile che da un punto di vista libertario vi sia chi si erge a difensore della sacralità della natura. Se la tracotanza della tecnica rischia di portarci alla catastrofe, nondimeno il considerare la natura come una sorta di santuario inviolabile mi pare altrettanto pericoloso. Occorre saper osservare con occhi laici e disincantati la realtà senza soggiacere né alla tentazione romantica di antropomorfizzare la natura né alla follia di una tecnica che realizza i propri "progressi" devastando irreversibilmente il pianeta. L'ambiente naturale è in costante mutamento e non vive di un equilibrio statico. Attraverso continue modi- ficazioni si costituiscono nuovi scenari e nuovi equilibri. Paradossalmente la tecnica ed i suoi nemici integralisti finiscono con il prefigurare panorami altrettanto desolanti. La tecnica agisce senza in alcun modo preoccuparsi degli effetti del proprio procedere, che appaiono tanto più incontrollabili e tendenzialmente irreversibili quanto più cresce la potenza della tecnica stessa. Come un gigante dai piedi di argilla la tecnica, mirando al controllo totale dell'esistente è tuttavia del tutto incapace di controllare i disastri che genera. Il rischio non è solo quello di un paesaggio lunare ma anche il delinearsi di un paesaggio unidimensionale in cui la pluralità e la varietà sono cancellate. La molteplicità dei colori, degli odori e dei sapori è un piacere cui sarebbe stolto rinunciare. Il peperone quadrato di Asti, ormai in via di estinzione, ha un gusto suo proprio che non troveremo più in un altro peperone. Tuttavia l'idea di "natura" tipica di tanto ecologismo integralista finisce con l'essere parimenti unidimensionale, perché in modo altrettanto antro- pocentrico pretende di definire un "equilibrio" e di stabilire che tale equilibrio rappresenta una fatto intangibile. È il mito dell'Eden, il giardino perfetto nel quale l'uomo e la donna portano il disordine e il caos. La difesa della biodiversità non si realizza immaginando un mondo simile ad una gigantesca oasi protetta, in cui oggi e per sempre vi saranno gli stessi fiori, le stesse piante, gli stessi animali, tutti nella stessa posizione, nello stesso numero, con la stessa "funzione". Sarebbe come scattare una foto e pretendere che essa rappresenti e realizzi il presente, il passato e il futuro. Anche questa è una forma di tracotanza, la pretesa arrogante di definire una volta per tutte il "giusto" ordine del mondo. La madre terra di cui spesso leggo sulle pagine del CIR mi pare non troppo dissimile dalle tante madonne amate dagli integralisti cristiani.
Ben altro è la difesa e la promozione della biodiversità o, anzi, della diversità tout court, che parte dal riconoscimento e non dalla negazione del relativismo culturale e trova nella sperimentazione il proprio fecondo terreno di crescita.

Credo che su questi temi sarebbe importante aprire un dibattito a tutto campo, capace di aprire uno spazio di discussione culturalmente approfondita ed aperta, che purtroppo l'urgenza dei problemi immediati spesso non ci consente di attuare.
Un saluto libertario e laico,

Maria Matteo

IL 2000 NON MERITA POESIA

care sorelle e fratelli, Il fatto che non esista il Tempo

Il fatto che il calendario ne sia la sua ulteriore falsificazione

Il fatto che 2.500.000.000 di persone sulla terra non abbiano il vostro calendario

Il fatto che proprio questi 2.500.000.000 di persone appartengano a quella enorme parte del mondo che mangia solo il 10% delle risorse

Il fatto che io appartenga solo anagraficamente e burocraticamente al restante 10% della popolazione mondiale che divora il 90% delle risorse

Il fatto che io mi dissoci eticamente da questa appartenenza come Julian Beck quando affermava "not in my name" riguardo alla pena di morte

Il fatto che esista ancora su questa terra la pena di morte, e la tortura, e lo sfruttamento, e le armi, e gli eserciti, e la pulizia etnica, e la discriminazione razziale e sessuale Il fatto che gli indios Yanomami si stiano estinguendo, che ogni giorno scompaiano un popolo e un lingua, o un animale, o un fiore, o una cultura che conosce popoli, lingue, animali e fiori

Il fatto che proprio in questi giorni qualcuno stia sterminando impunemente i ceceni, ultimo elemento di una teoria di massacri che ha aperto, percorso e chiuso questo 'secolo', il più sanguinoso e crudele della storia umana Il fatto che la poesia e l'arte non si oppongano a tutto questo facendo il gioco dei sistemi di controllo sociale che, servendosi degli artisti e poeti che si 'prestano al gioco', simulano un mondo pacificato e libero dove 'tutto-è-possibile', ma solo virtualmente.

NON MI IMPEDISCE DI AVERE COMUNQUE VOGLIA DI AUGURARVI DI CUORE TUTTO IL BENE POSSIBILE E DI POTER CONTINUARE A COLTIVARE UTOPIA E DESIDERIO PER TENDERE VERSO QUELLO IMPOSSIBILE

bonos printzipios e menzus fines

Alberto Masala
(Bologna)

 

Elevato indice di vigilanza

Siamo i detenuti ristretti nella sezione ad Elevato Indice di Vigilanza del Carcere (E.I.V.) di Voghera e vogliamo fare presente che da alcuni giorni ci troviamo a dover vivere in una condizione di grave disagio; con la necessità di dover convivere in due dentro le celle che erano state predisposte per un singolo detenuto e dove le strutture e le disposizioni di sicurezza hanno imposto, da sempre, una forma di arredo esenziale e inamovibile. Anche gli spazi comuni risultano praticamente inutilizzabili a causa del sovraffollamento, per cui manca la possibilità di impegno lavorativo e di un minimo di attività per sfuggire all'ozio imposto dalle strutture.
Ma quel che più ci preme far presente (oltre ai vari disagi su cui non ci dilunghiamo) è che pur di triplicare il numero dei detenuti presenti nelle sezioni vengono mantenuti i posti di lavoro disposti in precedenza: e cioè 3 persone che lavorano per mezza giornata di paga ad assicurare le pulizie e la distribuzione del vitto. Questo, prima, ci consentiva di lavorare a rotazione un mese su tre con una paga mensile di circa 600.000 lire, sufficienti comunque per poter far fronte alle minime personali esigenze di mantenimento, cosa che ovviamente ora non è più possibile, dato che l'unica occasione lavorativa attualmente si presenta con una rotazione di oltre sei mesi, ovviamente con la medesima paga. Tenendo presente che i suddetti lavori non sono "lavori premiali" ma essenziali al funzionamento minimo della vita interna dell'istituto.
Per cui vorremmo far capire il disagio di molti di noi, che dopo lunghi anni di detenzione (oltre i 20) si trovano privi di qualsiasi risorsa economica. Considerando anche che, pur coscienti della propria condizione e delle lunghe condanne, dovrebbe essere comunque data la possibilità a chiunque, e soprattutto a chi ne ha più bisogno, di impegnarsi in attività lavorative, in vista anche di quella rieducazioneche è nei dettami della Costituzione e dello stesso Ordinamento Penitenziario (che evidenzia il lavoro come una delle prime e basilari forme di risocializzazione) e come in effetti si sente sempre ribadire nelle dichiarazioni della società Civile.
Consci del dibattito politico-giudiziario in seno all'attuale Governo, ribadiamo la nostra disponibilità al dialogo riguardo al miglioramento delle condizioni detentive, è evidente che queste generali restrizioni finiscano col gravare, maggiormente sulla vita carceraria pertanto chiediamo che venga preso in considerazione un riequilibrio dei posti di lavoro in base alle presenze.

I Detenuti del
Carcere di Voghera

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni Ronald Creagh (Montpellier - Francia), 20.000; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Alfonso Failla nel 13° anniversario della morte (26.1.1986), 1.000.000; Savino Valerio (Pistoia) dalla vendita di un quadro, per l'ideale, 50.000; Piero Borgo (Acerra), 30.000; a/m Mauro, un compagno (Sant'Angelo Lodigiano), 17.000; Misato Toda (Tokyo - Giappone), 300.000; Alberto Ciampi (San Casciano Val di Pesa), 50.000; I.G. (Milano), 10.000; Salvatore Esposito (Frankfurt am Main - Germania), 48.200; Gianni Magrì (Grosseto), 5.000; Diva Agostinelli Wieck (Troy - USA), 272.099; Renato Girometta (Vicobarone), 100.000; Paolo Friz (Mesagne), 10.000; a/m M. Pandin, ricavato da "Musica per 'A'", 1.500.000; Giuliano e suo figlio Valerio (Monteprandone), 10.000; Enzo Francia (Imola), 50.000; ricavato da un pranzo greco con Milena e Paolo (Paris - Francia), 117.000; Tiziana Ferrero (Brisbane - Australia), 60.000; Gino Perrone (Brindisi), 10.000; Piero Bertero (Savigliano), 50.000; Giordana Garavini (Castelbolognese) ricordando Aurelio Lolli, Emma e Nello Garavini, 100.000; Fabrizio Tognetti (Larderello), 20.000; Cesare Fuochi (Imola), 50.000; Gianluigi Paganelli (Monzuno), 50.000; Danilo Vallauri (Dronero), 50.000; Rino Ermini (Villa Cortese), 10.000; Silvano Branco (Sedico) "pago un abbonamento a chi volete voi", 50.000; Carla Caschetto (Bruxelles - Belgio), 200.000; Francois Argenziano (Imola), 20.000; Luca Todini (Brufa di Torgiano), 50.000.
Totale lire 4.309.299.

Abbonamenti sostenitori Renato Girometta (Vicobarone), 150.000. Antonio Ruju (Torino), 200.000; Massimo Regonesi (Spirano), 150.000; Giordana Garavini (Castelbolognese), 150.000; Carlo Ghirardato (Roma), 150.000; Stefano Vittori (Latina), 150.000; Enrico Sironi (Cusano Milanino), 150.000; Aimone Fornaciari (Nattari - Finlandia), 150.000; Arturo Schwarz (Milano), in ricordo di Miklòs Radnòti, il grande poeta ungherese vittima della Shoah, 200.000; Stefano Cempini (Ancona), 150.000.
Totale lire 1.600.000.