Più viene accolto l'invito suadente
a considerare checchessia come sintomo, più riscuote (successo,
denaro, prestigio) chi, presentandosi come terapeuta, si offre
per farlo sparire. Va da sé, dunque, che all'imperialismo culturale
della psicoanalisi, in questo Novecento appena trascorso, abbiano
contribuito in varie misure gli strumenti più diversi: dall'associazionismo
protettivistico di casta ai giornali più e meno specializzati.
Va da sé, anche, che, più l'espansione riesce, più si rende
disponibile la teoria. Ecco che, allora, la psicoanalisi diventa
anche a buon mercato: asseverando se stessa e, al contempo,
recuperando nuovi clienti, magari fra quelli della concorrenza.
Sfoglio una di queste riviste e mi imbatto nel preoccupante
caso della "assidua lettrice". Da anni soffre di epistassi alla
narice sinistra, ha provato di qua e di là ma con nessun risultato.
Neppure l'omeopatia e l'agopuntura hanno potuto fermare le sue
crisi emorragiche ormai giornaliere. Che fare ? La risposta
del "medico terapeuta" (la dichiarazione di una laurea è sempre
di conforto, sia a chi la rilascia che a chi la riceve) è un
capolavoro dell'ingegno umano: l'epistassi, cara lettrice, "parla
di una libido femminile bloccata, imprigionata nelle maglie
di una razionalità di marca maschile, troppo forte per essere
vissuta con equilibrio". La poverina si barricherebbe "dietro
un muro impenetrabile, sordo agli attacchi che provengono dall'esterno
e alle pulsioni" che sorgerebbero dal suo "Sé profondo". Ciò
premesso, si arriva al sangue dal naso. Questa struttura cartilaginea
che già Laurence Sterne (ben prima di Freud ma certo non per
primo, nella storia di Slawkenbergius del Tristram Shandy,
pubblicato nel 1760) aveva messo in rapporto con l'organo sessuale
maschile, sarebbe la "parte più maschile" del volto della lettrice
e inizierebbe a sanguinare per rappresentare simbolicamente
un "utero mestruato". Così "tutta la sofferenza" che deriverebbe
dal "blocco" delle sue "componenti femminili morbide e delicate"
risulterebbe esternata. Dimenticando il fatto che l'epistassi
riguarda soltanto la narice sinistra (e così non dovendo trovare
l'analoga differenza nell'utero mestruato), prima dei cari saluti
finali, inutile dire che si indirizza il cliente al primo psicoterapeuta
con un'ora buca. Non perdo tempo per sparare sulla Croce Rossa
(anche se prima o poi occorrerà pur farlo) e passo ad un'altra
pagina della medesima rivista. Qui, ohibò, c'è il preoccupante
caso del bambino che si mangia le unghie. Mamma disperata chiede
lumi. Qui credo di saperla lunga. L'onicofagia è una patologizzazione
classica e appartiene da molti anni al repertorio del buon psicoanalista.
La pronipote di Napoleone, Marie Bonaparte, nel 1933, ha pubblicato
un saggio dove, nella categoria degli autoerotismi più e meno
aggressivi, include svariate attività che vanno dallo sferruzzare
con l'uncinetto al rosicchiarsi unghie e pellicine e interpreta
il tutto come "un tentativo, talora abbastanza riuscito, di
adattamento all'ambiente culturale oppressivo in cui siamo costretti
a vivere e a soffrire" (cfr. M. Bonaparte, Psicoanalisi e
antropologia, Bologna 1971). Mi immagino, dunque, che il
terapeuta di turno attinga a piene mani a questo sapere - indugiando
magari sui suoi ulteriori sviluppi - e lo ammannisca alla mamma
disperata. E, invece, niente affatto. Consiglia di spremere
sulle unghie del bambino una goccia di aloe, che è una pianta
grassa esotica dalle cui cellule parenchimatiche è ricavabile
un succo aromatico, amaro, usato dai medici o come stimolante
per lo stomaco o come purgante. Non sfuggirà a nessuno il neppur
tanto vago sapore di mera repressione. Ma, soprattutto, non
sfuggirà a nessuno quanto il paradigma culturale della "soluzione
dell'aloe", sia contraddittorio rispetto al paradigma culturale
chiamato in causa per risolvere il problema dell'epistassi.
C'è chi ci riesce. A convivere serenamente con le proprie contraddizioni,
presumibilmente grazie ai quattrini che nonostante ciò - e forse
proprio in grazia di ciò - guadagna.
Felice Accame
P.s.: Nella fretta delle odierne comunicazioni di massa, a
volte, la contraddizione cade perfino nel medesimo articolo.
Il settimanale di pubblicità illustrata del Corriere della
Sera dedica un "servizio" al rapporto fra il filosofo Giorello
e la sua mamma. Il sottotitolo recita: "Ha litigato con le maestre
per difendere il figlio che a Manzoni preferiva Joyce". Ci facciamo
subito non soltanto l'idea di una mamma moderatamente coraggiosa,
ma anche quella di un filosofo enormemente precoce: alle elementari
già leggeva Joyce (e già aveva letto Manzoni, perché una preferenza
nasce da un confronto). Leggendo l'articolo, invece, ci si deve
render conto che il contrasto non avvenne alla scuola elementare,
bensì al ginnasio. E i conti tornano. Ma intanto la contraddizione
resta e la distribuzione dei valori cui dà adito suggerisce
di non considerarla un banale errore. Mai che nel titolo si
parli del ginnasio per poi scoprire, nell'articolo, che la vicenda
si svolse alle scuole elementari.
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