"...Forse ci servono proprio coloro che temiamo tanto,
perché sono stranieri e perché hanno un aspetto
straniero. Quelli che, per paura, affrontiamo con odio, che
ormai si trasforma quotidianamente in violenza. Forse quelli
di cui abbiamo più bisogno sono proprio quelli che consideriamo
stare al livello più basso i Rom e i Sinti, gli zingari.
Che non hanno alleati. Che non sono rappresentati da alcun politico,
al parlamento europeo come al bundestag. Non esiste Stato cui
possano appellarsi perché sostenga la loro richiesta
di risarcimento - patetico, no? - per Auschwitz, o che possa
fare di loro una questione nazionale prioritaria. I Rom e i
Sinti sono i più miserabili fra i miserabili. "Espelleteli",
dice il signor Seiters mentre si mette in viaggio per la Romania.
"Bruciamo le loro tane come si fa per cacciare i topi!"
gridano gli skinheads. Ma anche in Romania, e da ogni altra
parte, gli zingari sono all'ultimo gradino della società.
Perché? Perché sono diversi. Perché rubano,
non hanno una dimora fissa, sono nomadi, hanno negli occhi una
luce cattiva e ci colpiscono con la loro bellezza che ci fa
sembrare brutti. Perché il fatto stesso che esistano
mette in dubbio i nostri valori. Perché vanno bene a
tutti nelle opere e nelle operette, ma nella realtà -
suona orribile, ci ricorda l'orrore - sono antisociali, bizzarri,
e non sono compatibili. "Facciamo delle torce!" gridano
gli skinheads.
Quando fu sepolto Heinrich Böll, otto anni fa, c'era una
orchestrina di zingari che conduceva i portatori della sua bara
- Lev Kopelev, Günter Walraff, io e i figli di Böll
- e il resto del corteo al cimitero. Era stato un suo desiderio.
Quella musica gaia, così disperatamente tragica, era
ciò che Böll aveva voluto che lo accompagnasse mentre
la sua bara veniva calata dentro la terra. Solo ora capisco
il perché. Lasciate che mezzo milione o più di
Rom e Sinti vivano fra noi. Ne abbiamo bisogno. Potrebbero aiutarci
a scompigliare un po' il nostro ordine così rigido. Qualcosa
del loro stile di vita potrebbe venirci trasmesso. Potrebbero
insegnarci quanto prive di significato sono le frontiere: incuranti
dei confini, i Rom e i Sinti sono di casa in tutta Europa. Sono
ciò che noi proclamiamo di voler essere: cittadini d'Europa".
È la parte finale di un articolo dello scrittore tedesco
Günter Grass pubblicato nella pagina di Cultura e Spettacoli
del Corriere della Sera del febbraio 1993, in polemica
con il governo della Germania da poco unificata, che in accordo
economico (cioè di migliaia di marchi) con quello rumeno,
rispediva in Romania migliaia di Rom fuggiti da questo paese
e dalle persecuzioni della nuova democrazia succedutassi con
una continuità impressionante al regime comunista. E
nello stesso periodo avrebbe polemicamente restituito la tessera
socialdemocratica in dissenso con il suo partito che in sintonia
con quello democristiano di governo aveva votato per il restringimento
di asilo nella costituzione tedesca, che dal secondo dopoguerra
era e dovrebbe ancora essere la più ampia in materia.
Nel 1999 il settantaduenne Günter Grass ha ricevuto il
Nobel per la letteratura e sembra abbia fatto sapere che parte
della somma vinta sarà devoluta alla fondazione per i
Sinti e i Rom, da lui fondata e in cui da diversi anni è
impegnato.
Se dunque l'azione e l'impegno dello scrittore tedesco nei confronti
e in sostegno delgi zingari è notoria ai più (almeno
si spera!) da diversi anni, il 1999 ha portato nelle librerie,
a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro, due libri sui Rom,
di due scrittori che vanno per la maggiore. Di Antonio Tabucchi,
Gli Zingari e il Rinascimento con il sottotitolo Vivere
da Rom a Firenze, edito dalla Feltrinelli. Di Marco Revelli,
Fuori luogo con sottotitolo Cronaca da un campo Rom,
edito dalla Bollati Boringhieri.
Debbo confessare che fino ad oggi non avevo letto alcun libro
di questi autori anche se Tabucchi lo conoscevo solo per fama
considerato i suoi numerosi libri di narrativa, alcuni dei quali
premiati a livello europeo; mentre Revelli, autore di saggi
politici e consigliere di Rifondazione Comunista a Torino, era
per me uno sconosciuto fino a quando il suo libro sui Rom non
ha suscitato dibattiti e polemiche amplificate dalla stampa,
non ho neppure mancato di andare a vederlo, ascoltarlo, conoscerlo
(mi ha fra l'altro confessato che prima della vicenda che narra
nel libro non aveva mai avuto contatto o conosciuto gli zingari)
quando è venuto alla libreria Tikkun di Milano per un
dibattito sui Rom e presentare il suo libro.
Anche se diversi, forse nello stile, forse nell'impostazione,
più un diario quello di Tabucchi, più una minuziosa
cronaca che non lascia spazi ad intellettualismi di sorta quello
di Revelli, presentano entrambi delle forti similitudini. Non
hanno scritto due libri sugli zingari ma due denunce di certe
sistuazioni che i Rom sono costretti a subire. Entrambi hanno
vissuto in prima persona tale situazione. Entrambi, intellettuali
di sinistra, si sono trovati di fronte, contro, le amministrazioni
di due grosse città governate dal centro-sinistra (o
meglio sarebbe dire sinistra-centro), Firenze e Torino, con
la loro cecità, indifferenza, burocrazia. Ed entrambi
l'hanno fatto in maniera totale, militante, di parte, di chi
sposa una causa di libertà contro l'ingiustizia e il
sopruso. Hanno saputo con questi due libretti mettere a nudo,
per quel che riguarda le discriminazioni contro i Rom, i mali
non solo a Firenze e Torino ma anche di Milano e della Roma
del Giubileo, perché in ogni grossa città dove
ci sono campi nomadi "ufficiali", "tollerati",
o "abusivi", ci sarebbero, ci sono vicende simili
da denunciare.
Nel chiudere queste brevi note recensive (brevi perché
preferisco sia il lettore a leggersi i libelli e trarne le conclusioni)
voglio segnalare un'altro libro uscito in Italia nel '99, un
viaggio della giornalista Isabel Fonseca, fra i Rom dei paesi
dell'est, dal titolo Seppellitemi in piedi, Sperling&Kupfer
Editori.
testo e foto
di Franco Pasello
Alle origini dell'anarchismo
"L'Alleanza in Italia non è un "fascio operaio"
ma un ammasso di spostati. Tutte le pretese sezioni dell'Internazionale
italiana sono dirette da avvocati senza cause, da medici senza
ammalati e senza scienza, da studenti frequentatori di bigliardi,
da commessi viaggiatori e altri impiegati di commercio e principalmente
dai giornalisti della stampa minuta, d'una reputazione più
o meno equivoca". Con questo ottuso, tronfio e sostanzialmente
falso giudizio espresso nelle pagine de L'Alleanza della
democrazia socialista e l'Associazione Internazionale
dei lavoratori, Marx ed Engels pensavano di aver liquidato,
o esorcizzato, quello che per loro era un vero e proprio assillo,
ossia la profonda influenza che la predicazione bakuniniana
esercitava sulle forze del nascente socialismo italiano. Per
anni questo apodittico giudizio, dettato dalla presuntuosa incomprensione
della situazione sociale del nostro paese, anche se evidentemente
non poteva reggere di fronte a qualsiasi indagine storica (era
sufficiente, per inficiarlo, ricostruire negli archivi di Stato
la composizione sociale degli Internazionalisti processati),
è stato condiviso con superficialità, se non con
malafede, da gran parte della scuola storica di ispirazione
marxista, ben felice di trovare così un autorevole precedente
alla sua opera di riscrittura storica del socialismo e del movimento
operaio italiano.
Pier Carlo Masini, che ha attraversato complesse vicende politiche
per poi finire lontano dall'anarchismo, ha nondimeno dedicato
la sua feconda vita di studioso al tentativo di contrastare,
con impegno ed efficacia, l'arroganza della storiografia togliattiana.
Il saggio che vede oggi la luce, a un anno dalla sua morte,
esprime la passione e la serietà professionale che hanno
sempre contraddistinto tutti i lavori di Pier Carlo Masini (La
Prima Internazionale, in M. Antonioli e P.C. Masini, Il
Sol dell'avvenire. L'anarchismo in Italia dalle origini alla
prima guerra mondiale, Pisa, BFS Edizioni, 1999). Se indubbiamente
anche solo pochi anni fa il suo lavoro avrebbe difficilmente
trovato il meritato riscontro fuori dagli angusti limiti della
pubblicistica anarchica, oggi osserviamo come la preclusione
di un certo mondo accademico nei confronti della ricerca storica
svolta in ambito libertario sia venuta a cadere, o perlomeno
abbia dovuto forzatamente attenuare la propria vis polemica,
costretta a riservarla a chi sta giudicando, e condannando,
l'intera storia del comunismo mondiale. E le vicende, e la fortuna,
della giovane "Rivista Storica dell'Anarchismo", tanto
tenacemente voluta dagli autori di questo libro, stanno a testimoniare
quanto sia mutato questo atteggiamento.
Del resto, ora che finalmente non fa più velo alla rigorosità
della ricerca lo zelo di studiosi che, partendo da ipotesi preconcette,
erano soliti strumentalizzare le fonti per dimostrare le proprie
tesi, sembra impossibile che studi fondamentali come quelli
di Masini sulla Prima Internazionale non siano mai stati pienamente
accolti nel ristretto ed esclusivo ambito della storiografia
"militante". Eppure una ragione c'è. Il principale
merito di Masini infatti, al di là del suo lavoro di
riscoperta e sistematizzazione delle fonti, sta nell'essere
riuscito a dimostrare che la Prima Internazionale non era affatto
quel grottesco insieme di disgraziati di cui, come si è
visto, usavano sproloquiare Marx ed Engels, ma una organizzazione
capillare formata dalle avanguardie coscienti di un proletariato
urbano in gestazione, organizzazione che conteneva al suo interno
le migliori energie di una nuova generazione di protagonisti
sociali, operai ed artigiani, decisi ad uscire dall'eredità
risorgimentale per aprire la strada alla modernizzazione del
paese. Non si trattava solo, quindi, secondo Masini, di un madornale
errore di analisi, ma anche di una evidente incapacità
di cogliere le peculiarità della situazione, perché
"gli "spostati" sono [...] coloro che con un
atto di volontà escono dal loro posto "sociale",
dal posto che la famiglia, il censo, l'istruzione, la professione
hanno loro procurato, e scelgono un altro posto - di lotta,
di sacrificio, di rinunce - a fianco dei lavoratori. Il fenomeno
si ripeterà in tutto il corso della storia del movimento
operaio italiano: da Turati a Gramsci, da Prampolini a Matteotti,
e stupisce l'incomprensione intellettuale di taluni storici
che spesso formalmente sono stati e sono anch'essi parte di
questo fenomeno".
Ma in epoche di "storiografia militante", quando era
impensabile sottrarsi alla dittatura della ideologia, non si
poteva neppure ipotizzare che l'evoluzione del socialismo italiano
avesse una continuità logica e coerente e, di conseguenza,
che anche il glorioso Partito comunista d'Italia dovesse contare,
tra i propri avi, un "ammasso di spostati". Questo
spiega le frequenti manifestazioni di superficialità,
di ingenerosità, di sostanziale falsità che hanno
caratterizzato la produzione di studiosi altrimenti ben capaci
di fare il proprio mestiere. E poco male se il danno provocato
da questi metodi si fosse limitato a semplici errori di valutazione
storica, con conseguenze ristrette all'ambito del dibattito
intellettuale: purtroppo gli ostacoli frapposti a una comprensione
non ideologicizzata delle radici del movimento socialista italiano
hanno fatto dimenticare la dimensione profondamente etica che
lo ha caratterizzato, e si sa che quando un progetto di trasformazione
sociale mette l'etica in secondo piano apre la strada al totalitarismo.
Ed è ciò che è successo, con conseguenze
disastrose, anche nel nostro paese. Studiosi come Masini sono
sempre stati perfettamente coscienti di questo, e anche così
si spiega come abbiano dedicato il proprio lungo e prezioso
lavoro per riabilitare gli aspetti più umani, la generosità,
la dedizione, l'entusiasmo, e forse anche l'ingenua fiducia
nell'uomo, di persone come Cafiero, Malatesta, Costa, Natta,
Pezzi, ecc., restituendo loro il posto fondamentale che gli
spettava di diritto, nella storia del nostro paese.
Nella seconda parte del volume, più corposa e altrettanto
interessante, Antonioli ripercorre la vicenda dell'anarchismo
italiano individuando gli elementi essenziali di quella sua
progressiva evoluzione (ma a tratti anche involuzione) che lo
porteranno, fra il 1890 e il 1920, da una fase di accentuazione
dell'individualismo antiorganizzatore all'affermarsi di un postulato
organizzativo che si realizzerà nel 1919 con la nascita
dell'Unione Anarchica Italiana.
Il valore dell'opera di Antonioli sta non solo nella consueta
serietà della ricerca e nella ricchezza delle informazioni,
ma soprattutto nel fatto di aver individuato e spiegato in senso
consequenziale tale evoluzione organizzativa, pur affrontandola
in tre saggi apparentemente autonomi. Lo storico spiega i criteri
ai quali si è attenuto, avendo "scartato l'idea
di scrivere una storia a tappe cronologiche del movimento anarchico
italiano tra la fine dell'Ottocento e la Prima Guerra mondiale
o l'inizio del ventennio. E [avendo] scelto la soluzione di
seguire alcuni filoni quasi isolandoli dal quadro generale ormai
ampiamente noto". La scelta dell'autore di sottrarsi alla
semplice ricostruzione evenemenziale per ricercare una tematizzazione
del periodo, ci appare particolarmente felice perché
permette al lettore di arrivare con immediatezza alla radice
delle tematiche proprie dell'attività e della vita stessa
dell'anarchismo italiano, e di individuare i tratti salienti
dei dibattiti ideologici dell'epoca. Al lettore si offre così
la possibilità di comprendere come, nell'apparente confusione
e accidentalità che caratterizzano la vita del movimento
anarchico, sia però individuabile una progressione logica
e coerente che, tra mille contraddizioni, tentennamenti e a
volte anche arretramenti, porterà gli anarchici italiani
ad uscire dall'isolamento in cui si erano venuti a trovare,
per riconquistare un ruolo da protagonisti nelle lotte e nelle
vicende del movimento rivoluzionario.
I tre saggi dello storico milanese (L'individualismo anarchico,
Anarchismo e sindacalismo, Gli anarchici e l'organizzazione)
ci offrono infatti la ricostruzione di un processo lineare,
in cui vengono descritte le riposte degli anarchici al mutare
delle condizioni sociopolitiche del paese. Conclusa ormai la
fase risalente all'esperienza della Prima Internazionale, assistiamo
al progressivo emergere di tendenze antiorganizzatrici ed individualistiche
che nascono dall'isolamento in cui l'offensiva parlamentarista
relega il movimento; parallelamente, il rafforzarsi delle misure
repressive promosse da Crispi contribuisce ad esasperare il
carattere illegalista che caratterizza l'azione anarchica a
cavallo del secolo. La tardiva scoperta di Stirner, accompagnata
alla lettura di Nietzsche, costringe gli esponenti dell'anarchismo
sociale a interrogarsi sull'uso della violenza e sugli strumenti
dell'intervento militante; da tale riflessione ne deriverà
un netto discrimine tra i fautori del superomismo amorale -
che vedono nella violenza una "legge inesorabile della
natura e contemporaneamente del progresso" - e quanti invece
considerano il ricorso alla violenza una "imprescindibile
necessità rivoluzionaria [alla quale vengono assegnati]
i precisi confini della legittima difesa, individuale e collettiva".
In pratica, recuperando i caratteri essenziali degli internazionalisti
che improntarono sempre la loro azione ai principi della piena
solidarietà sociale. Non a caso - e Antonioli ce lo dimostra
con dovizia di argomentazioni - sarà soprattutto l'opera
di Malatesta, successivamente affiancata da quelle di Fabbri
e Gori (vale a dire di coloro che più di altri si ricollegarono
alle caratteristiche originali del libertarismo italiano), ad
operare questa riconversione dell'anarchismo italiano dalle
secche di uno sterile individualismo alle regole della solidarietà
e della lotta sociale.
Fabbri e Malatesta
Da questo acceso dibattito, che investe l'intero movimento,
discende come corollario il bisogno di confrontarsi e impegnarsi
col mondo del lavoro, che non è più frammentato
in piccole imprese e in laboratori artigianali, ma è
ormai un vero e proprio proletariato industriale di massa formatosi
in un'Italia che sta lentamente emergendo come piccola potenza
industriale; e discende quindi la ricerca degli approcci politici
e degli strumenti organizzativi necessari. La discussione sul
ruolo del sindacato e sulla posizione da tenere rispetto al
movimento operaio diventa ben presto, anche sull'onda dell'esperienza
francese, uno degli aspetti fondanti della riflessione collettiva
dell'anarchismo italiano nel primo decennio del secolo, che
trova il suo punto più alto nel Congresso internazionale
anarchico di Amsterdam del 1907. La collaborazione con i sindacalisti
rivoluzionari e la nascita dell'Unione Sindacale Italiana segnano
infatti una parte consistente dell'attività libertaria
del periodo. Fra i maggiori protagonisti ritroviamo Fabbri e
Malatesta, che più di altri riescono ad analizzare non
solo gli aspetti positivi - e in un certo senso "necessari"
- della presenza degli anarchici nelle lotte e nelle organizzazioni
sindacali, ma anche i limiti che un sindacalismo sufficiente
a se stesso rappresentava per lo sviluppo delle idee e delle
proposte anarchiche. Nel passaggio dal ruolo di avanguardia
che deve guidare il popolo a quello di educatore che "con"
il popolo deve lottare, si ritrova il valore originario dell'anarchismo
e, per dirla con le parole di Antonioli, "mentre la rivoluzione
prospettata dai sindacalisti si configurava come emancipazione
della classe operaia, la rivoluzione anarchica si allargava
a tutta l'umanità e all'intero ventaglio delle forme
di asservimento: economico, politico e morale".
Questo dibattito sulla partecipazione al movimento sindacale,
che resterà centrale nell'arco delle riflessioni dei
militanti libertari, si accompagna parallelamente a quello,
altrettanto importante, sulle forme organizzative di cui deve
dotarsi il movimento, stante la evidente inadeguatezza di una
struttura limitata a realtà locali che non rispecchia
più la consistenza effettiva dell'anarchismo. Si tratta
infatti di un movimento ormai cresciuto come capacità
analitiche e maturo per forme più alte d'intervento:
un movimento che comprende chiaramente come solo l'unione delle
forze libertarie su tutto il territorio, pur nel rispetto delle
autonomie dei gruppi locali, possa rendere più incisiva
l'azione degli anarchici. Finalmente, forse per la prima volta
dai tempi dell'Internazionale, gli anarchici italiani ritrovano
una capacità dialettica al loro interno, tale da trasformare
quelle che spesso erano polemiche personalistiche o fini a se
stesse in un dibattito ampio e costruttivo, finalizzato a dare
le risposte più incisive e rivoluzionarie agli stimoli
provenienti da una struttura sociale in completa trasformazione.
Dato per morto dai suoi detrattori ad ogni piè sospinto,
l'anarchismo "in realtà ritornava continuamente
a turbare i sonni dei suoi presunti esecutori testamentari;
l'anarchismo era in continua crisi ma comunque vitale; l'elemento
più importante dell'anarchismo era la sua influenza sociale
e culturale sulla società". La costituzione dell'Unione
Anarchica Italiana corona definitivamente questo processo organizzativo
e apre un nuovo periodo dell'anarchismo, quello che, nonostante
tutto e nonostante tutti, ancora oggi conosciamo.
Massimo Ortalli
Andrea Costa (1851 - 1910)
Amilcare Cipriani (1846-1892)
disegni di Fabio Santin
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