Rivista Anarchica Online


dossier militarismo

Una guerra di carta
di Vittorio Giacopini

Il ruolo degli intellettuali durante il recente conflitto balcanico nell'analisi di un giornalista di Radio Rai e de "Lo Straniero". Stralci dalla sua introduzione all'omonimo volume in uscita per Elèuthera.

 

"E quelli, la cui testa è vuota come una scuola in agosto"

Tra il 24 marzo e l'11 giugno del 1999, per la prima volta in vita mia mi sono trovato a scrivere un diario. Sono la data d'inizio della guerra in Serbia e il giorno della fine ufficiale dei bombardamenti, decretata alle 15,30 del pomeriggio (ora italiana) dal segretario generale della Nato Solana.
Per tutto questo periodo la guerra in Kosovo mi ha accompagnato come un'ossessione. (...) La scelta obbligata, l'impulso spontaneo di tenere un diario, di registrare nel modo più asettico possibile il succedersi incerto degli eventi, è stato forse un tentativo minimo di reazione, probabilmente un riflesso meccanico ma impotente di far fronte a un'irruzione improvvisa della "Storia mondiale" nella mia vita; nella nostra vita. Una guerra: qui; fatta da noi. Non c'ero, non c'eravamo abituati. In qualche modo, non c'era alternativa: l'unica possibilità stava nel limitarsi a prendere atto di quanto stava succedendo di fuori; laggiù. Probabilmente, quel "diario di guerra" era soltanto questo: un tentativo di convivere in modo per quanto possibile consapevole con l'orrore e con il disgusto, il precipitato neutro di quanto si andava depositando nella mia immaginazione, il reperto oggettivo di una paralisi mentale imbarazzante. (...) Avvertivo di trovarmi in un vicolo cieco ma intuivo, oscuramente, la necessità di mettere da parte qualcosa di concreto: del "materiale" utile per poter giudicare, per costruire e mantenere saldo un "punto di vista" sulle cose; senza l'ausilio di nessuna teoria, senza nessuna sofisticata forma di interpretazione.
Ma giudicare che cosa? E giudicare chi? Non la guerra, ovviamente, le sue ragioni equivoche, le sue modalità inaccettabili. Da subito, infatti, da quella prima sera di bombardamenti su Belgrado, questa guerra mi era sembrata inutile, sostanzialmente sbagliata, controproducente. La cosa in sé, mettiamola così, era abbastanza evidente dall'inizio. Ma già dopo pochi giorni di raid aerei, con l'intensificarsi delle distruzioni, con la moltiplicazione - assolutamente speculare - della tragedia della pulizia etnica, la strategia "umanitaria" della Nato si rivelava fallimentare in modo incontestabile. Era la conferma di un'intuizione abbastanza ovvia. Non sarebbero bastati i pochi giorni di guerra promessi dalla Albright; Milosevic non sarebbe stato piegato in una settimana. Era un dato di fatto: la guerra stava producendo danni peggiori, guasti più gravi. Non era come l'ultima volta a Sarajevo; non poteva esserlo. Però il problema non si esauriva nella negazione decisa di un evento. Schierarsi contro questa guerra, dire di "no": non era sufficiente, non poteva bastare. Lo vedo adesso, lo sapevo anche allora: non esistono giudizi definitivi, validi sempre, una volta per tutte. Meglio comunque mantenere sempre aperto uno spiraglio per il dubbio, uno spazio critico per la perplessità. Ogni mattina, lo stesso "rito" in qualche modo riapriva il campo del giudizio: potevo sbagliare, potevo essere stato precipitoso, dovevo essere disposto a rivedere il mio punto di vista, correggerlo, adeguarlo ai fatti concreti, alle circostanze. Non ce n'è stato bisogno, ma solo per caso. L'ostinazione omicida di Milosevic, l'ottusità arrogante della Nato, alla lunga hanno finito per confermare in modo definitivo quell'intuizione ancora imprecisa e vaga formatasi spontaneamente nei primissimi giorni di conflitto. È stata una guerra inutile e controproducente. Uno sbaglio voluto, una porcheria. (...)

 

Con armi molto diverse

Ma non esistono soltanto le amicizie, le relazioni immediate, i rapporti concreti, face to face. E poi non ci sono soltanto i "fatti", il seguito incerto e confuso degli eventi. I bollettini di guerra riportavano novità smozzicate, verità provvisorie, affermazioni date per certe smentite in due giorni o in una notte. Cercavo di non perdere niente, di segnare tutto. Non bastava. Attorno alla guerra, sopra alla guerra - come un guscio d'uovo, come un liquido amniotico - iniziavano a depositarsi le prime letture, le smaliziate spiegazioni degli "opinionisti", le teorie degli esperti: problem solver, giornalisti, teste d'uovo, grandi intellettuali & compagnia cantante. Una guerra di carta avvolgeva impercettibilmente la guerra vera. Lo scenario tendeva a duplicarsi ma lo spettacolo restava quello che era: disgustoso. La sequenza dei bombardamenti e un lento, capillare, bombardamento di parole vuote, di congetture colte, di discettazioni. Un'altra guerra iniziava a vivere di vita propria. Chiuso, senza volerlo, nella mia ossessione, cominciavo inconsapevolmente a registrare anche questo secondo livello di "crisi". Persino gli scabrissimi appunti del mio diario iniziavano a prenderne atto, in modo del tutto casuale, senza intenzione, senza nessun programma specifico. Era inevitabile, del resto, ed era ovvio. Tra un "fatto" e l'altro, si inserivano (non so bene come, non so bene perché) brevi note di lettura, appunti per così dire di "secondo grado", commenti quasi sempre irritati, infastiditi. Niente di strano. Leggevo i giornali, li guardavo. Gli inviati al fronte, quando potevano, facevano il loro lavoro con serietà, decenza, con coraggio spesso, sempre con un certo impegno. Era utile leggere i giornali; era utile anche la televisione. Per quanto in qualche misura sempre vittima dei meccanismi della propaganda, bene o male l'informazione si rivelava all'altezza della prova. Del resto non avevo gli strumenti per giudicare, non potevo farlo.
Loro stavano là: vedevano quello che erano in grado (o gli era consentito) di vedere; scrivevano quello che sapevano. Spesso i loro articoli smentivano le versioni ufficiali, le dichiarazioni del regime serbo, le balle della Nato: mi bastava. Ma questa guerra - si vedeva in modo sempre più chiaro col passare del tempo, dopo i primi momenti di stasi e di sorpresa, passato lo sgomento iniziale - veniva combattuta anche con armi molto diverse, più infide e sottili, meno nette. La "persuasione e la retorica", le questioni di immagine, una forma di propaganda o, per essere più precisi, proprio di retorica: queste forme di controllo e di guida latente dell'opinione pubblica, questi modelli di costruzione occulta del consenso (e del dissenso), prendevano piede in forma sempre più regolare e più massiccia. Leggevi i giornali, guardavi la televisione, ascoltavi la radio. A un certo punto è diventato ovvio. Il lavoro "sporco" dovevano farlo politici, militari, giornalisti. Il sofisticato compito di indirizzo e di interpretazione, la rete di ragno mentale che avrebbe dovuto spiegare il conflitto era invece stato affidato (non so fino a che punto in modo consapevole e coerente) a una categoria diversa e specifica: agli intellettuali, agli opinionisti. (...) Questa guerra, forse, è stata diversa dalle altre. Combattuta e legittimata su basi "umanitarie" - la tutela dei diritti umani, la difesa degli oppressi, la stessa lotta per la libertà - questa guerra doveva trovare un vocabolario per esprimersi, una formula per "giustificarsi", una retorica. Gli intellettuali sono serviti, dovevano servire, a questo. A dare un senso ad azioni stupide e insensate, a vedere un fine, uno scopo e una meta, in un meccanismo quasi automatico, palesemente privo di obbiettivi definiti, costantemente incerto, poco chiaro. Oltre alla politica-politica e alle armi è diventata essenziale questa "politica delle relazioni pubbliche", una strategia verbale, la disperata ricerca di una "filosofia politica" a presa rapida, da consumo immediato, metabolizzabile subito, senza incertezze, esitazioni, dubbi, ripensamenti. Per chi, come me, come (quasi) tutti noi, restava distante e separato dal centro dei fatti, lontano dal vortice vivo degli eventi, questo conflitto di "secondo grado" è diventato molto presto il nodo vero di tutta la faccenda e il problema più serio. Chi non è in grado di agire resta sempre coinvolto sul piano del giudizio ma il giudizio era sistematicamente inquinato, ostruito, preconfezionato da questo autentico fuoco di sbarramento di parole vuote, analisi faziose, amenità. (...)

 

Inganno e controinganno

In modo abbastanza paradossale questa guerra ci ha offerto l'occasione davvero unica di vedere una classe intellettuale impegnata in un sistematico lavoro di mistificazione, di verificare un'intera "cultura"at work. Uno spettacolo desolante ma istruttivo. Bastava guardare le colonne degli editoriali, sfogliare le pagine dei commenti, le rubriche culturali di tutti i giornali. Senza essere al "soldo" di nessuno, gli intellettuali si sono distinti in una gara di esibizionismo, di vanteria, di stolida saccenza, in un grande concorso di verbosità futile e dannosa, in un inutile sfoggio di cultura colta. Questi bonzi, questi sepolcri imbiancati, questi filistei (non tutti, naturalmente, quasi tutti1). Ci siamo sempre chiesti a cosa servissero gli intellettuali, che significato avesse ancora una parola logora come impegno. La lezione (e la risposta) di questa drole de guerre è stata tutto sommato esemplare. (...)
Leggevi e ti imbattevi sempre nello stesso "stile" uniforme, inevitabile: un clima di inganno e di autoinganno, uno spettacolo penoso di falsa intelligenza, di arroganza mentale, di presunzione vuota. Una guerra "di carta" altrettanto cattiva e velenosa della guerra vera: anche questa stava diventando una questione privata, un conto da regolare e una specie di sfida. È cambiato qualcosa. La rabbia e l'insofferenza hanno cominciato a prendere il posto dello sgomento, a scandire i tempi di un'ossessione finora passiva, senza sbocco. A questa guerra di carta - intuivo - almeno si poteva reagire. Su questo piano era ancora possibile fare qualcosa, dire qualcosa. Doppiamente coinvolto - da cittadino italiano, da "intellettuale" - mi sono sentito colpito e offeso anche nella mia intelligenza, nell'intimo delle reazioni istintive, delle opzioni personali, sul piano pubblico-privato della capacità di pensare le cose che stavano succedendo, di giudicare il nostro "mondo comune", la sua logica. Da cittadino… da intellettuale. Non c'è poi tanto da spiegare. Per quanto mi riguarda, scrivere significa solo seguire un itinerario interiore, cercare in qualche modo la propria "voce" attraverso la voce degli altri, in un dialogo muto con modelli, figure, situazioni di vita e di pensiero capaci di allargare la tua esperienza, il tuo sguardo sul mondo, sulle cose. Può accadere che questo lavoro di scavo, questa esplorazione vagabonda, ti portino lontano dal presente, tra le ombre del passato, nei libri degli altri e in altre vite. Spesso sei costretto a guardare "il futuro alle spalle". Voltarsi indietro, parlare coi morti. Strana faccenda: devi trovarti guardando fuori di te, dietro di te. Sempre le stesse domande, la medesima ansia ricorrente: "dove andrei, se potessi andare, cosa sarei, se potessi essere, cosa direi, se avessi una voce, chi parla così dicendosi me?" (S. Beckett). Ma l'attualità ha le sue ragioni - urgenti - e a volte è necessario lasciarsi distogliere dagli eventi, rispondere subito, mettere da parte se stessi, trascurare le proprie idiosincrasie, i propri gusti. This is no time for inner searching… canta Lou Reed. Non è tempo; non c'è tempo. A volte devi restare attaccato alle cose così come sono, giocare "di prima", installarti in uno scenario che non hai scelto tu, in un percorso deciso dal caso o dalla storia. Più che una forma di onestà è una questione di puro e semplice buon senso, di decenza, di curiosità. Non puoi fermare la guerra, non la puoi evitare. Ma puoi (e devi) discutere la sua "ideologia", protestare, criticare, tirartene fuori. Altrimenti non vali niente, non sei niente. Resti un parolaio, un chiacchierone fatuo, inconcludente. Dialogare con i "vivi" (con certi vivi) può essere molto più frustrante che parlare coi morti.

 

La mia rappresaglia

Non importa. Il paesaggio è questo, il panorama mentale di un'epoca non te lo scegli: ti ci ritrovi dentro, ci fai i conti. Rispondere, dunque, criticare. Con una cautela: forse la cosa peggiore da fare era provare a rispondere colpo su colpo, accettare quel piano mentale, quei discorsi. Non ne valeva la pena, rischiava di essere una trappola. Più semplicemente mi sono accorto che era sufficiente lasciarli parlare, ascoltare e far ascoltare la loro "voce". (...)
La mia "rappresaglia" è stata semplice. Ho conservato le "tracce": montagne di carte, ritagli, foglietti smozzicati, pagine di giornale, fotocopie. È un'operazione elementare. Non ho lasciato scivolare via quel quotidiano rosario di idiozie. Mi sono accorto in fondo che sarebbe bastato questo: un paziente lavoro di "montaggio" e la critica implicita di un linguaggio, di un modo di essere, di uno stile. Leggere, assemblare, mettere in evidenza i punti chiave, escogitare una sorta di ordine. Fare la prova non costava niente. Tutte quelle vocine garrule, tutte quelle prese di posizioni petulanti, tendevano infatti a confluire in zone inerti ma identificabili, a raggrupparsi in categorie riconoscibili. Ricomposte in un insieme unitario, saldate insieme, quelle leziose performance fanno subito tutto un altro effetto. Non sono così ispirate, così ricche. Non hanno quell'originalità sussiegosa che pretendono o pensano di avere. Non sono tanto speciali o intelligenti. Metti insieme le tessere del puzzle e hai la tipica sorpresa che non ti sorprende: i pezzi si incastrano alla perfezione, il quadro si definisce, tutto torna. Affiora la solita "trama nel tappeto"; cogli le affinità sottili, i richiami interni e si impone sempre un tratto comune: un tono diffuso di ipocrisia, di arroganza mentale, di sufficienza fatua, presuntuosa. Un gergo tedioso, soffocante. Provare a lasciarli parlare con la loro voce - allora - non dimenticare. Non fargliela passare liscia. Senza rabbia, senza cattiveria: non dimenticare, semplicemente. Per una questione di "ecologia mentale"; per autodifesa. Non fargliela passare liscia.
Dopo un primo, breve capitolo, su cosa resta dopo questa guerra (per la sinistra, innanzi tutto, per la cultura, per una dimensione politica senza più respiro) questo pamphlet ha preso così in modo del tutto naturale la forma di un'antologia sarcastica e l'aspetto aggressivo di una parodia. Ma è una parodia senza invenzioni, senza simulazioni, ipotesi e illazioni. "È tutto vero, più o meno", come dice Vonnegut. Non ho avuto bisogno di inventare nulla. Bastavano le parole autentiche delle parti in causa, una selezione relativamente ampia e, appunto, un semplice lavoro di "montaggio", di giustapposizione mirata, ragionata. Lo stile di fondo, i punti di connessione, i criteri di scelta, le parti di raccordo ovviamente dipendono da me. Me ne rendo conto: prevale lo humour nero, prevale il sarcasmo. Non credo che sia un limite o un difetto. Non solo perché non avrei saputo fare in un altro modo. Ma anche perché mi sembra legittimo, corretto, inevitabile. Come si fa a discutere con certa gente? Come si può? Quest'asfissiante cultura, quest'atmosfera intrisa di malafede e di stupidità. Rischi sempre di restare paralizzato dalla Medusa dell'idiozia, dalla fata Morgana dell'imbecillità. L'ironia e il sarcasmo restano le armi (per quanto spuntate) di una possibile forma di resistenza, un modo per dire "no", per disertare.
La beffa finale forse sta tutta in questo bizzarro paradosso: l'ossessione della guerra non si è cristallizzata nel lutto senza parole della disperazione, nel mutismo obbligato di un'estraneità precaria e sofferta ma ha trovato la sua "uscita di sicurezza" nel lugubre sarcasmo e nell'ironia nera di una risata liberatoria. Tutto sommato, mi sembra anche giusto. Il lutto, il senso di perdita, l'angoscia: non interessano a nessuno, restano sempre cose private, riservate. Per criticare questa "guerra di carta" era necessario trovare un tono diverso. Torniamo sempre al solito punto, giriamo in tondo. Imagination dead imagine: inventarsi qualcosa: contro l'evidenza, contro la storia, contro tutto. Magari rimasticando tra sé e sé con un ostinato briciolo di speranza un vecchio slogan; una bella frase carica di fiducia ferita e di amara allegria. Una risata vi seppellirà.

Vittorio Giacopini

 

“Per una questione di
"ecologia mentale";
per autodifesa.
Non fargliela passare
liscia”