Rivista Anarchica Online


Due approcci alla psichiatria

Bene ha fatto Elèuthera a ristampare il libro di Giorgio Antonucci, Il pregiudizio psichiatrico, e a pubblicare in contemporanea quello di Paolo Algranati, Voci dal silenzio. Rappresentano infatti due esperienze parallele, che invogliano a una lettura sinottica per capire che cosa le rende apparentemente così vicine e tuttavia non coincidenti. Sono parallele nell'evidenza di un risultato comune - lo smantellamento delle strutture manicomiali con l'apertura dei reparti "chiusi" - ma non si incontrano nelle premesse, soprattutto su un punto: il giudizio sulla malattia mentale. In realtà Algranati e Antonucci ripropongono i due filoni interpretativi del cambiamento sociale, presenti - non a caso - anche nell'approccio alla psichiatria: il riformismo e la rivoluzione. Anticipando il contenuto dei due libri, diciamo che Algranati vuole riformare l'istituzione psichiatrica liberandone le vittime per curarle meglio mentre per Antonucci l'unica alternativa alla psichiatria è la soppressione della psichiatria (anche quella "democratica").
Paolo Algranati: il riformismo. "A tre anni di distanza dall'approvazione nel 1978 della "180", la legge Basaglia, iniziavo a lavorare nel manicomio di Roma con l'incarico di assistente psichiatra. Assegnato al padiglione 22, il più grande dei reparti 'chiusi' dell'ospedale, mi accingevo, con l'animo combattivo ed entusiasta del ventiseienne, a verificare, nell'impatto concreto con l'istituzione manicomiale, i miei anni precedenti di formazione teorica".
Comincia così il libro di Algranati, un rapporto dall'interno del manicomio Santa Maria della Pietà, scritto con l'immediatezza di un diario di bordo. Algranati, che si definisce "psichiatra anomalo" descrive, anno per anno, il lungo cammino dallo smantellamento del padiglione 22, definito la "fossa dei serpenti" (1981) al lavoro di riabilitazione in un "zona autogestita" (1983) al passaggio nel padiglione 8, completamente aperto (1987), che prefigura il concetto di Comunità Terapeutica come "un continuo training tra gli operatori e poi tra questi e i pazienti, e infine tra tutti noi e il mondo esterno".
Ecco alcune tappe di questo cammino: l'incontro con la caposala "una suora bassa e corpulenta, vestita di bianco" che gli apre il cancello di ferro e lo immette nelle corsie del padiglione 22 come nei gironi dell'inferno dantesco (i dannati sono i pazienti con le loro storie di segregazione); lo scontro immediato con la suora sulla cosiddetta "ergoterapia": un sistema di lavoro per cui 60 pazienti, con ruoli e mansioni tutt'altro che trasparenti "tenevano in piedi, o comunque contribuivano in maniera decisiva al funzionamento della struttura che li segregava"; la conoscenza, uno per uno, di tutti i 114 pazienti, il 70% dei quali - attraverso un sistema di sfruttamento capillare, basato su ricatti, favori, intimidazioni - era adibito "senza alcun compenso ai lavori più umili, di pertinenza, teoricamente, di infermieri e ausiliari di pulizia"; la messa in discussione dei mezzi di contenzione (camicie di forza, sbarre alle finestre, porte chiuse a chiave) e dell'abuso degli psicofarmaci; l'analisi del comportamento degli infermieri in base alla loro appartenenza alle tre categorie dei "sottomessi", dei "ribelli" e dei "neutrali ricattati" (senza contare "i cani sciolti"); l'inizio della collaborazione con alcuni infermieri che porta alla prima timida uscita dalle mura del manicomio (un soggiorno di 15 giorni per 12 pazienti in una località di montagna del Lazio); la formazione di una "zona autogestita", due corsie, con 14 pazienti e 6 infermieri (la cronaca di questa "zona liberata" è ricostruita in "un poderoso quaderno utilizzato indifferentemente dai pazienti e dagli operatori", di cui sono pubblicati ampi stralci); la guerra aperta con la suora caposala fino al suo trasferimento nel 1984 ad un altro reparto ("finiva al 22 l'epoca arcaica del potere religioso sulla pazzia").
Il racconto fin troppo minuzioso, scritto con amore e un grado di partecipazione e di simpatia umana eccezionali, interrotto dalle bellissime (e illuminanti) "storie di vita" degli internati, ha il merito di portare il lettore dentro la realtà manicomiale. Paolo Algranati, con l'attenzione costante ai concreti problemi di gestione, dimostra di avere la stoffa del riformatore e registra con la pignoleria del cronista tutti i cambiamenti: l'apertura del manicomio ai parenti dei ricoverati "reclusi"; l'importanza del lavoro in una cooperativa; la logistica dei reparti dopo i vari traslochi; le sorti dei pazienti dimessi con tutti i problemi di inserimento sociale al di fuori del manicomio; la vita quotidiana nel padiglione 8 aperto senza "nessuna sbarra, nessun cancello, nessuna chiave"; l'iniziativa di un laboratorio di pittura.
Tutto preso dalla passione anti-istituzionale, dal fervore organizzativo per rendere più umana e vivibile la condizione dei segregati nel manicomio, Algranati si abbandona, forse con eccessiva frequenza, a riflessioni teoriche sulla malattia mentale che rivelano le contraddizioni e la debolezza della posizione riformista in campo psichiatrico. Da un lato infatti, onesto fino in fondo, Algranati vede (e denuncia, nel lavoro con gli operatori) gli effetti devastanti degli "stereotipi universali" sulla pazzia (pericolosità, incomprensibilità, inguaribilità); dall'altro non rinuncia all'approccio clinico, al giudizio psichiatrico e alle classificazioni diagnostiche dei comportamenti (psicosi maniaco-depressiva, eccitazione submaniacale ecc) e al recupero terapeutico con interventi psicofarmacologici. In fondo ripropone, in modo meno schematico e più contradditorio, il vecchio errore di ritenere che i ricoverati siano diversi non perché segregati ma perché "malati", non perché privati della libertà personale ma perché hanno nel cervello qualcosa che non va.
Il discorso "basato sull'impalpabilità del confine normali-folli e sul profondo radicamento dei pregiudizi sulla follia" è ritenuto "indispensabile per prendere le distanze dalla propria 'follia' personale e per controllare con continuità e consapevolezza la propria paura di impazzire", che percorre come un leit-motiv tutto il libro (pagg. 14, 43-44, 156-57, 162-63). Rimane cioè a livello strumentale. E annota come un vittoria il fatto che "i pazienti miglioravano in modo evidente senza che, al di là di crisi evolutive, impazzissero gli operatori" (sic).
Algranati è sicuramente uno "psichiatra anomalo" nel senso che non fa ricorso soltanto al criterio patologico (diagnosi/terapia) per giudicare uomini e comportamenti (di questi tempi è già molto!) e arriva a porsi (e a porre alla sua équipe) le domande giuste: "L'intervento migliore per la pazzia è forse quello di lasciarla vivere? Di osservarla da lontano con discreta protezione, senza interferire pesantemente in un suo qualche sviluppo 'fisiologico'? E ancora: come definire la 'normalità'? Possiede nuclei pazzi, psicotici? Non è forse ora che la psichiatria punti maggiormente la sua attenzione sulla normalità piuttosto che sulla pazzia? Infine, come definire la 'sanità'?"
Ma queste domande rimangono senza risposta.
Giorgio Antonucci: la rivoluzione. Il libro di Antonucci parte proprio dalla risposta a queste domande, cioè dalla critica alla psichiatria come scienza. La sua esperienza professionale a Cividale del Friuli (1968), a Gorizia (1969), a Reggio Emilia (1970-72) e dal 1973 a Imola per più di 20 anni (ora è in pensione), è una lunga battaglia all'interno dei reparti manicomiali per la liberazione delle vittime del pregiudizio psichiatrico. Solo in parte il libro riflette il significato fulminante della "lunga marcia" di Antonucci attraverso le istituzioni manicomiali, un'esperienza che non ha eguali al mondo (fra gli "addetti ai lavori" l'unico che la pensa come lui è il professore americano Thomas Szasz, che ha scritto la prefazione del libro).
La tesi di fondo di Antonucci è dura e perentoria: i manicomi stanno alla psichiatria come nella conchiglia il guscio sta all'animale. Se elimini l'animale, il guscio inaridisce e muore. Per quanto possa sembrare paradossale, se non esistesse la psichiatria, non esisterebbe la cosiddetta malattia mentale. "Ritengo - scrive Antonucci - che a ben poco serve attaccare l'istituto del manicomio se non si porta un attacco radicale allo stesso giudizio psichiatrico che ne è alla base, mostrandone l'insussistenza scientifica. Finché non sarà abolito il giudizio psichiatrico, la realtà della segregazione continuerà a fiorire dentro e fuori le pareti del manicomio". E quindi - malgrado i lodevoli sforzi di Algranati per umanizzare l'intervento psichiatrico - la segregazione si riproduce in altre forme anche nelle varie Comunità terapeutiche, nei Centri di igiene mentale e così via.
La "rivoluzione" di Antonucci non nasce da una teoria elaborata a tavolino ma dal contatto diretto con uomini e donne, vittime dei trattamenti psichiatrici. Storie e volti che ritroviamo nelle cartelle cliniche pubblicate nel libro: prove documentali, impressionanti e inconfutabili, della funzione repressiva della psichiatria. C'è un baratro tra le diagnosi (più fantasiose) di malattie mentali, che leggiamo nelle cartelle cliniche, e la realtà di sofferenza dei cosiddetti pazienti. Nel ripercorrere tutta la sua esperienza, Antonucci ci offre anche preziosi documenti sulle lotte popolari contro il manicomio S. Lazzaro di Reggio Emilia all'inizio degli anni '70, sulle difficoltà da lui incontrate nell'apertura dei reparti chiusi e nella liberazione dei "segregati" a vita, sull'esperimento di Rosenham che introdusse degli pseudopazienti in alcuni ospedali psichiatrici americani (nessuno fu identificato come sano di mente!).
Antonucci rifiuta il cosiddetto Trattamento sanitario obbligatorio (TSO), slega i matti, abolisce le terapie psichiatriche (strumenti di contenzione e psicofarmaci) e li lascia liberi di uscire dal manicomio, di disporre dei propri soldi, li porta in giro per il mondo, al mare e in montagna, a Venezia e a Parigi, al parlamento europeo di Strasburgo e dal Papa in Vaticano. Per la sua attività è stato perseguitato dall'autorità giudiziaria subendo diversi processi che meriterebbero una trattazione a parte.
Antonucci ha tenuto conferenze in diverse città d'Italia accompagnato spesso dai suoi "matti", ha diffuso le sue idee soprattutto fra i giovani sensibili al pericolo rappresentato dalla psichiatria. Solo ma non isolato è stato invece emarginato dall'establishment psichiatrico malgrado le numerose interviste alla stampa e alla radio e le sue apparizioni in TV.
Un pensiero come quello di Antonucci, molto critico anche nei confronti dell'impostazione autoritaria della medicina, implica una rivoluzione culturale che chiama in causa scienza e politica, religione e filosofia. Tanto più che oggi - ma questa è una mia opinione - l'intensificarsi dei fenomeni di emarginazione accresce nei non-emarginati il bisogno di difesa e protezione estendendo a tutti i livelli il ricorso a quella che io ormai chiamo la psichica - comprendendo la psichiatria, la psicanalisi, la psicologia (e annesse pseudoscienze) - per oscurare e manipolare le coscienze, attutire e fuorviare i conflitti personali e sociali.
Alla psichica come instrumentum regni, penetrata ormai in tutte le strutture sociali: nella scuola e nella famiglia, nelle aziende e nei media, nei tribunali e nelle carceri; alla psichica utilizzata di volta in volta per il dominio culturale, come supporto dei modelli omologanti o in funzione repressiva per la difesa dello stato di cose presente; alla psichica si addice quello che scriveva Bakunin nel Narodnoe delo (1866): "Partigiani della rivoluzione noi siamo nemici non solo di tutti i preti religiosi ma anche dei preti della scienza". Bakunin alludeva alla scienza positivista, quella "specie di chiesa privilegiata della mente e della conoscenza superiore" che allora schiacciava i fermenti di rivolta del "popolo stupido e ignorante" ostacolando "la liberazione mentale" e che ora continua "in versione psichica" come ideologia della conservazione e dell'oppressione sociale.

Giuseppe Gozzini

 


Tutti quei blues. Alberto Lecca, poeta

"A rigore non c'è per me che una sola vera consolazione, e questa mi dice che sono un uomo libero, un individuo inviolabile, una persona sovrana entro i miei limiti" (Stig Dagerman)

Esistono sonni senza sogni? A guardare questo fine secolo, questo paradossale paesaggio desertico pavesato a fiera, il capitalismo monopolitisco imperante, il controllo e lo sfruttamento telematico e militare sempre più profondo d'ogni risorsa, dalle stelle alle cellule, c'è da credere di sì. Ad una povertà utopica e spirituale che ormai sperimento da anni, si è contrapposta, come un fiume in moto contrario, una grande escavazione nella parola, una pioggia di suoni, una vorace e costante lettura di Poeti, noti e non. La poesia mi ha restituito il suono degli uomini e il desiderio a mia volta di raggiungerli con la parola, con/dividere vita con chi è attorno e con coloro che verranno. La Poesia e il Teatro restano, per il sottoscritto, un luogo, l'isolato baluardo di una irriducibile testimonianza umana: l'individuo, la sua traettoria, possibilmente la speranza solidaristica, di lotta e di com/passione. Non tutta la Poesia, va da sè.
Alberto Lecca abita a Cagliari. Scrive poesia, legge i suoi testi in reading, collabora/organizza una rivista (splendida) dal nome Erbafoglio e il Festival "Lingue di Nuvole". Il suo nuovo libro, pubblicato dalla CUEC (Cooperativa Universitaria Editrice Cagliari) si intitola Blue Blues-lacrime profonde di un malinconico cormorano pazzo.
La sua poesia è una pioggia benedetta, il suono fraterno d'un grande orgoglio: la solidarietà di fronte a onde della realtà indecifrabili, a notturni esistenziali ai quali siamo spesso assuefatti. Farò uso abbondantemente di citazioni dal bellissimo saggio critico di Antonello Zanda, poeta, pubblicato in coda nel volume: "Il viaggio di A.L. procede... sulle ali di altre parole, ricorrrenti come colori fondamentali nel suo quadro: la morte, il mare, il profondo, l'uomo, la solitudine, l'ombra, le lacrime, il silenzio, la pioggia. Ognuna di questa parole... è un'immagine che si impone allo sguardo, diventa dominio dell'occhio, ambiente dei sensi"
Io ascolto in questi versi il fiato roco e terribilmente dolce del blues, del jazz, figure iconiche (Il poeta, il Pazzo, la Puttana e altre) che tornano ad essere presenze, nuovamente. L'imbattersi nella giovinezza libertaria di parole usualmente incrostate di giustificazioni e compromessi mi riporta a quel "peggio di un bastardo" di Charlie Mingus, all'uomo "venuto da un'altra solitudine", Leo Ferré, due dei riferimenti certi di Alberto.
Qui non c'è alcuna compiacenza verso la mistica del solitario incompreso. Tutto è a un livello, anzi ad uno strato più profondo, più evocativo. "Non c'è nulla di consolatorio nei versi di A.L., ma c'è una energia umana che nasce dalla vita stessa davanti allo specchio. La Malinconia del cormorano pazzo si propone come un momento di partenza e non come punto di arrivo, come il presupposto di quel continuare che è il riprendersi. Nella stessa posizione clandestina di un nativo americano alla ricerca di una fuga che non sia solo una scappatoia, bisogna ritrovarsi e riconoscersi nel disordine naturale delle cose". Ne rende testimonianza il poeta/musicista Roberto Belli che, in una sezione del libro, raccoglie scritti suoi e di altri, in un tessuto connettivo che amplifica il raggio di riferimenti e suggestioni.
Le parole di Alberto Lecca, lasciate così quasi sole a scavare, come oggetti tolti dal quotidiano contesto mediatico, tornano "a cantare", hanno la forza di un urlo. Come il tuono segue il lampo, la lettura richiama la musica di Coltrane, Om, A love Supreme, l'ancestrale e intricato ritmare di Max Roach, la Donna Solitaria di Ornette Coleman e quell'altro Urlo, il Ginsberg che mai come oggi manca a noi tutti. "La denuncia dell'orrore della nostra condizione umana è sottesa ad ogni verso. Anche quando l'autore ricorre al registro più delicato e tenero, quando parla d'amore e di amicizia, anche in ciò c'è l'ombra della denuncia. Non bisogna pensare a quell'orrore come a qualcosa di titanico e oppressivo. L'orrore di cui parla Lecca è qualcosa che è entrato nel sangue, nel metabolismo del genere umano. È un orrore che, proprio perché immersi nella consuetudine, non riusciamo più a vedere".

"Le Cose Non Annegano.
Verdi Trasparenze Caduche.
Implicano I Fondali Della Nostra
Rovinosa Coscienza.
Piccole Incomprensioni Nascoste.
Seguono Lentamente Il Tramonto
Dei Nostri Ideali"

(Presumo che il volume si possa richiedere alla CUEC, via Is Mirrionis 1, 09123 Cagliari, tel/fax 070-291077 e-mail: info@cuec.it)

Stefano Giaccone

 


Gli occhi del potere

Nessun altra espressione dello stato suscita curiosità, sgomento e, per quanto mi riguarda, inquietudine come gli apparati informativi polizieschi.
Essi sono la quintessenza del potere: gli strumenti più raffinati, più intelligenti, più arbitrari a disposizione dell'autorità costituita. Non mi risulta che esista (o sia mai esistito) uno stato capace di fare a meno di questa risorsa, tanto meno le democrazie parlamentari come cupamente insegna la storia italiana degli ultimi cinquant'anni, costellata da incidenti strani, persone suicide o meglio fatte suicidare, stragi, nelle quali non manca mai lo zampino di servizi troppo generosamente definiti 'deviati'.
Pochi anni fa gli adamantini svizzeri si scandalizzarono di scoprire che gli apparati della Confederazione avevano schedato 900.000 connazionali, quasi un decimo della popolazione complessiva. Se questo è lo standard delle democrazie europee, fatte le dovute proporzioni, significa che in Italia - paese infinitamente meno attento ai diritti alla riservatezza dei propri cittadini - vi sono almeno cinque o sei milioni di persone che hanno il loro bel fascicolo aggiornato.
Questa incredibile capacità informativa non si costruisce dall'oggi al domani, così come qualsiasi nuovo inquilino del potere politico si guarda bene da smantellarla, anzi, ne garantisce la continuità e l'efficacia. Giacché la forza di un regime sia esso autoritario o pseudo democratico, si misura nella capacità di controllo dei propri cittadini: ogni informazione di carattere politico, affettivo, finanziario, financo medico può sempre tornare utile per costruire, distruggere o manipolare.
Non credo di essere un paranoico ad affermare queste semplici verità, agli scettici consiglio un giro presso il Casellario Politico Centrale dell'Archivio di Stato per verificare come già nell'Italia liberale e poi ancor più in epoca fascista, gli organi preposti avessero affinato le loro capacità spionistiche.
Anzi, gli estimatori dell'efficienza fascista, più che i treni in orario, dovrebbero apprezzare il salto di qualità che il regime seppe dare agli organi di controllo e repressivi come si può evincere dalla monumentale opera di Mimmo Franzinelli I tentacoli dell'Ovra (Bollati Boringhieri, Torino, 1999. Pagg. 745, Lire 75.000), un lavoro di grande respiro storico che finalmente getta uno spiraglio di luce sul 'fiore all'occhiello' della dittatura, giustamente segnalato negli ultimi tempi dai maggiori quotidiani per la serietà della documentazione proposta, frutto di un certosino lavoro negli archivi di stato che impietosamente denuncia la vastità dell'infiltrazione in tutte le organizzazioni antifasciste.
Questa organizzazione di polizia politica il cui nome Ovra oscilla tra Organizzazione di Vigilanza e Repressione dell'Antifascismo e più probabili frutti della fervida fantasia mussoliniana capace di unire Ochrana (la terribile polizia segreta zarista) con piovra a voler incutere già nel nome un alone di mistero e di terrore, fu lo strumento più sensibile del regime che ebbe come capi figure di grandi capacità quali Arturo Bocchini e Guido Leto. I quali potenziarono a tal punto la rete informativa da obbligarci a considerare l'Ovra ed i suoi dirigenti non come dei meri esecutori di ordini politici, ma una struttura capace di acquisire una relativa autonomia nella gestione delle informazioni, divenendo potere nel potere. In fondo basta guardare la parabola professionale di Guido Leto per comprendere come 'servire lo stato' lo si possa fare a prescindere dai mutamenti politici. Egli infatti fu capo per lunghi anni dell'Ovra durante il regime per poi tornare ad esserlo nel servizio informazioni della RSI, infine terminando la carriera come direttore tecnico delle scuole di polizia nell'Italia repubblicana.
Eppure l'aspetto a mio avviso più interessante dell'opera di Franzinelli è l'averci fornito una vasta casistica antropologica degli informatori.
Questi personaggi non sono quasi mai esclusivamente dei prezzolati a tutto tondo, così come è ancor più raro il caso del poliziotto infiltrato: sono più comunemente degli antifascisti che entrano in collaborazione con i servizi attraverso percorsi molto personali. Se la leva economica ha la sua indubbia importanza, non bisogna sottovalutare gli aspetti psicologici: spesso i primi approcci partono da rancori personali, disillusione politica dopo anni di esilio o confino, goffi tentativi di doppiogiochismo. Insomma una vasta zona grigia nella quale convivono comportamenti che partono da chi in modo sprovveduto parla troppo, al vero e proprio agente provocatore.
La capacità dell'Ovra è proprio quella di saper individuare il punto debole del potenziale informatore, attendere che le cose maturino da sé. Inoltre l'organizzazione si garantisce l'attendibilità delle notizie infiltrando più agenti nello stesso ambito senza che gli uni sappiano degli altri, in modo da avere un controllo incrociato: una tecnica che avrà dei risvolti paradossali in casi di informatori che spiano altri informatori.
Raramente una ricerca delimitata da un preciso contesto storico suscita nel lettore continui rimandi al presente come il lavoro di Franzinelli, indubbiamente un'opera ineludibile per gli storici del periodo ma anche un testo fondamentale per chi vuole comprendere l'abilità persuasiva del potere, quasi sempre in grado di trovare la via giusta per condizionare gli eventi.

Dino Taddei