Rivista Anarchica Online


Guerra
di Cristina Valenti


La scena finale di Guerra: Bobò e Gianluca Ballaré. Insieme a loro, lavorano nello spettacolo: Piero Corso, Armando Cozzuto, Pippo Delbono (regista e drammaturgo), Lucia Della Ferrera, Fausto Ferraiuolo, Gustavo Giacosa, Simone Goggiano, Elena Guerrini, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Marina Mondini, Mr Puma, Tomaso Olivari, Pepe Robledo.

Si intitola "Guerra" e mette in scena una rivoluzione: l’affermazione della poesia e della bellezza in esistenze emarginate o offese. Parliamo dell’ultimo spettacolo di Pippo Delbono.

 

Prologo sul Disertore

Guerra, l’ultimo spettacolo della Compagnia Barboni di Pippo Delbono, è stato presentato in anteprima l’estate scorsa, quando ancora non si immaginava che, nel breve trascorrere di pochi mesi, questo titolo - tanto più in quanto privato dell’articolo - sarebbe suonato come un urlo, un allarme, un’esclamazione attonita nell’estremo volgere di un secolo che credeva di aver detto "mai più" all’orrore delle guerre.
Mentre mi accingo a scrivere, leggo un articolo sul Corriere della Sera di martedì 25 maggio. A Parigi due allieve della scuola media di Clermont-Ferrand, al termine della cerimonia ufficiale di commemorazione della vittoria sulla Germania Nazista, sono avanzate nella grande piazza e sull’attenti, di fronte al monumento ai caduti e ai generali col petto decorato di medaglie, hanno intonato la canzone di Boris Vian intitolata Le Déserteur, (le cui parole figuravano fra l’altro nella copertina del numero 254 di questa rivista), vero inno internazionale del pacifismo, scritta nel 1954 contro la guerra francese in Indocina. In seguito a questo gesto, che il cronista definisce "riuscitissimo colpo di teatro", e descrive come straordinariamente interpretato dalle due giovani allieve, la direttrice della scuola è stata sospesa a vita. Commenta il giornale: "Affidato ai bambini, il pacifismo è sempre inattaccabile", per questo la punizione è stata "terribile e rabbiosa".
Le accuse di strumentalizzazione rivolte alla responsabile di questa iniziativa sono talmente immaginabili che par di sentirle. Penso ad analoghe accuse rivolte a Pippo Delbono al debutto di Barboni, nel 1997, lo spettacolo che inaugurava il lavoro della compagnia allargata, che univa per la prima volta attori professionisti e persone incontrate per strada o in occasione di laboratori tenuti in strutture riabilitative o psichiatriche. Paragono i due fatti perché sollevano interrogativi analoghi e ricorrenti. Perché - chiedo - tutte le volte in cui il teatro (sempre più spesso, ma sempre troppo poco) accoglie individui normalmente esclusi non solo dall’universo artistico ma anche dalla partecipazione attiva alla sfera dei rapporti umani e sociali, si parla di strumentalizzazione del disagio, della sofferenza, dell’handicap, fino ad accuse più o meno velate di manipolazione e sfruttamento, mentre non suscita normalmente scandalo la quotidianità della loro condizione, che è di emarginazione quando non di reclusione e spossessamento? E perché l’indottrinamento deve essere quello dell’insegnante pacifista e non quello normalmente impartito dall’educazione scolastica? Domande.
Il teatro di Pippo Delbono non cessa di rivelare la contraddizione di un sistema che denuncia possibili strumentalizzazioni di individui "disagiati" e tace sulla loro normale condanna al silenzio, e inoltre suscita lo spaesamento, forse l’imbarazzo e il fastidio di quanti - abitualmente tranquillizzati dalla finzione teatrale - vedono la vita entrare nel teatro e ne scoprono la verità incontrovertibile. Come incontrovertibile è la voce dei bambini.

Dove non v’è certezza

Vedendo, di recente, il video dello spettacolo Il Muro, che Pippo Delbono ha creato nel 1990, ho avuto una sensazione analoga a quella che provo ogni volta che rivedo The Brig del Living Theatre (il tema ritorna: uno degli spettacoli più radicalmente antimilitaristi realizzati a teatro). Spettacoli che, a mio parere, concludevano un ciclo e preludevano alla svolta. The Brig, nel 1963, rappresentava una realizzazione insuperabile nel territorio dello spettacolo formalizzato, ossia dell’interpretazione. Poi il Living azzerò la forma e non volle più che gli attori fossero interpreti, abolì il concetto di personaggio e il lavoro sui ruoli. Lo spettacolo successivo fu Mysteries and smaller pieces. Gli attori portavano direttamente loro stessi sulla scena. Eseguivano piccoli misteriosi rituali che li conducevano in una zona di comunicazione extraquotidiana, alla ricerca di una maggiore profondità nei rapporti fra gli individui. Anche Mysteries fu un risultato insuperato, ma questa volta al di fuori del teatro di rappresentazione. Per spiegare questo passaggio occorre riferirsi ad Artaud. Il teatro, egli diceva, non deve imitare la vita ma ricrearla. In questo senso voleva che la rappresentazione cedesse il posto alla rivelazione: il teatro non doveva fingere la vita, ma essere gesto di vita e perciò esorcizzazione dello spettacolo.
Fili si riannodano, si sciolgono e si riallacciano per vie a volte misteriose nelle vicende del teatro. Il Living ha dato vita al teatro che Artaud aveva immaginato sotto forma di scritti e visioni folgoranti, e Pippo Delbono riprende il filo lasciato dai Mysteries del Living - che lui non credo abbia mai visto - e spinge più avanti l’esperienza di un’ulteriore penetrazione nei territori della non rappresentazione.
Ma seguiamo il filo analogamente dipanato da Pippo. Anche Il Muro - dicevo - ha rappresentato un punto di arrivo: lo spettacolo riuniva una serie di attori e danzatori fra i più significativi della generazione, ed elaborava in forma di drammaturgia collettiva le diverse tecniche e quindi i rispettivi percorsi formativi. Personaggi solitari disegnavano storie di solitudine, violenza, separazione in un luogo che poteva essere "una prigione o forse anche un cortile di gioco", utilizzando il linguaggio del teatro e della danza. L’insieme dei riferimenti costruiva l’affresco di un’epoca della ricerca teatrale che aveva scelto i suoi maestri in Pina Bausch, Carolyn Carlson, Maria Escudero e il Libre Teatro Libre, Iben Nagel Rasmussen e l’Odin Teatret. Rivedendo oggi quel video è evidente (ma non lo era allora) che l’elaborazione dei materiali tecnici e poetici appresi dai maestri non poteva procedere oltre quella sintesi di consapevolezza. I maestri sono un punto di arrivo, non di partenza. Poi, si tratta di ripartire da sé. Pippo, fortunatamente, l’ha compreso - incoraggiato anche dalla stessa Pina Bausch che invitava lui, giovane allievo, a "seguire la sua libertà". Così, dopo Enrico V (1993), realizzato come spettacolo fissato e non fissato insieme, in quanto frutto di un lavoro da ricominciare ogni volta in forma di laboratorio con attori non professionisti, è La rabbia ad inaugurare la svolta, siglando l’avvenuto azzeramento della forma spettacolo appena perfezionata. Scrive Pippo citando Pasolini, cui lo spettacolo è dedicato: "Ricominciare daccapo, da dove non v’è certezza". A teatro il daccapo, ossia il grado zero, l’incertezza assoluta corrisponde alla negazione della condizione primaria dell’attore in scena: l’investirsi di un personaggio. Rinunciare all’involucro del personaggio, ossia alla definizione di un’identità scenica.
Scena e fuori scena si mescolano e si tengono da questo spettacolo in poi. Gli attori occupano lo spazio dell’azione (non della rappresentazione) e se ne sottraggono senza soluzione di continuità. Tutto avviene a vista: le entrate e le uscite, i cambi d’abito, la direzione della fonica e delle luci, con la consolle in primo piano a lato della scena… Pippo inizia lo spettacolo in forma di racconto personale, poi introduce via via gli attori, che entrano col loro nome, la loro vita, le loro parole. Una struttura che resterà in Barboni e in Guerra, radicalizzandosi in senso antiretorico. Così, se nei Mysteries gli attori interpretavano gli attori, ossia mettevano al centro della loro azione la profondità della comunicazione teatrale, nel teatro di Pippo Delbono sono gli individui a portare loro stessi direttamente sulla scena, e la loro condizione diventa contenuto della comunicazione. L’essere persone ferite è parte della comunicazione. Con, in più, l’allargamento prospettico del teatro che non consente la dimensione dell’individualità. Le ferite degli individui si riflettono in quelle dell’umanità e le chiamano in causa. Per questa via entra il tema della guerra, già presente in Enrico V e Barboni. Insieme all’urlo.

La guerra e l’urlo

Judith Malina parla spesso di urlo (in inglese outcry) per dire di un gesto teatrale che spezza il patto di finzione instaurato fra attori e spettatori, producendo uno shock emotivo destinato a trasformarsi in momento di conoscenza. E Pippo scrive: "La creazione di Barboni è stato un totale atto di libertà, ma paradossalmente è nata da un urlo di disperazione. […] Quando hai toccato il fondo della sofferenza, stai bene solo con le persone che hanno toccato il fondo, come te. Per loro l’arte, come per me in quel periodo, non era una questione di mestiere, era un’esperienza umana fondamentale per la nostra sopravvivenza, non una routine, ma una necessità di vita".
In Barboni Pippo Delbono ripete al microfono una frase che - ricorrendo - diventa grido, percossa, lacerazione: "Devi danzare nella guerra". La prima volta la frase è riferita al racconto di alcuni ricordi personali: la guerra in Bosnia e l’immagine di Lima durante il coprifuoco, la sera, quando la polizia sparava nelle strade e la gente organizzava feste e ballava tutta la notte.
Nell’urlo c’è la denuncia della sofferenza, ma anche la ribellione, in nome di un diritto alla felicità rivendicato con forza. Esattamente questo sono gli spettacoli di Pippo Delbono, in particolare da Barboni in poi, da quando cioè la vita vi ha fatto irruzione senza filtri: schegge di una disperazione non rassegnata ed esplosioni di una felicità possibile, semplice, infantile, a portata di mano, come nella poesia di Bernardo Quaranta, il poeta barbone ("Oggi sono al mare / gatti al sole / barche calme / io solo, senza nome / come il vento / oggi sono felice").
Pippo Delbono non ama si parli in modo pietistico o indulgente di teatro dell’handicap o del disagio. Le persone che portano le loro ferite sulla scena portano anche una battaglia personale, combattuta in nome della gioia e della libertà di esprimersi, contro un mondo che eleva barriere e steccati, che esclude e toglie la parola. "Danzare nella guerra" significa opporre un gesto di poesia e di bellezza alla guerra che il mondo quotidianamente dichiara alle diversità e che le persone sofferenti o "un po’ perse per le strade" si trovano, loro malgrado, a combattere. ("Faccio teatro perché questa è la bellezza che ho da offrire contro la distruzione del mondo", scriveva Julian Beck nei suoi ultimi giorni di vita). E questa guerra non violenta e gioiosa è vinta, sulla scena, dalla tribù nomade dei senza diritti, che dimostrano come una straordinaria possibilità di bellezza possa essere espressa da individui che vivono una mancanza, un disequilibrio, un limite o, anche, che scelgono consapevolmente la follia di disertare dall’esistente. In Guerra Pippo legge una poesia che ha imparato in India, da una tribù libera, che non appartiene a nessuna casta: "Sono diventato un folle. / Non obbedisco a maestri e ingiunzioni, non osservo nessun costume. / Le regole create dall’uomo non hanno presa su di me. / Godo del canto e danzo con ognuno e con tutti. / Ecco perché, fratello, sono considerato un folle".

 


Bobò e Pippo Delbono in Barboni.

La distanza come valore

Nella parte centrale dello spettacolo, la guerra esplode in forma non solo privata e non solo metaforica, a distruggere la scena teatrale nell’unico momento in cui questa si fa descrittiva, alludendo a un ambiente umano volutamente standardizzato: una sorta di salottino borghese arredato con una poltrona, un attaccapanni, un tavolino e poco altro, popolato di scenette da interno come fossero una serie di sequenze estratte da telenovelas di bassa lega, un emporio di figurine così normali da apparire grottesche: la cameriera en travesti, la signora in abito da sera, il cameriere in frac, il ragazzino down vestito da marinaretto e guidato per mano da una sorta di istitutrice kapò, la cantante lirica, la danzatrice classica in tutù (ma si tratta di un uomo), l’uomo-statua immobile su una predella, e Bobò - l’uomo bambino strappato da quarant’anni di manicomio - in frac e scarpe da ginnastica che dirige il crescendo musicale. Il segnale di inizio della sarabanda è dato dall’ingresso di Pierino vestito da militare, con bastoni branditi come armi. La normalità produce in un attimo i propri mostri. La cameriera diventa un’altissima figura sui trampoli che semina morte. Corse pazze, sangue che imbratta cose e persone, urla mute, bocche spalancate, nudità esibita in una specie di frenesia sadomasochistica. Pippo urla nel megafono un brano del Buddha che descrive uno scenario da apocalisse e parla di come il mondo produrrà da se stesso la propria distruzione: "…più della metà della popolazione è stata falciata dalla morte, non c’è una sola persona che non pianga un lutto, ovunque si guarda si vedono mendicanti e morti, e cadaveri gettati uno sull’altro formano cataste alte come torri, o allineati a fianco a fianco in file lunghe come ponti… enormi incendi… inondazioni… piovono montagne di terriccio… il cielo e la terra sono colpiti da un caldo che arroventa l’aria, le erbe appassiscono, i cereali cessano di crescere… dappertutto esplodono conflitti, tutte le cose rovineranno al suolo, rami, radici, foglie, petali e frutti perderanno il sapore… Finché non rimarrà più niente in vita". Potrebbe essere la descrizione del disastro nucleare (ossia di ogni guerra a contenuto radioattivo oggi combattuta), come la descrizione della peste di Artaud (ossia di tutti gli scenari di morte in cui l’uomo aggiunge orrore ad orrore).
All’inizio dello spettacolo, prima di sbracare e inzuppare gli abiti, prima della danza sfrenata, del sudore, delle armi e del sangue, ancora in ordine nel suo completo distinto ("questo vestito è di Pierre Cardin"), Pippo aveva evocato immagini e racconti di guerra e di malattia. La descrizione di Sarajevo fattagli da un ragazzo che ha visto "il ferro diventato vulnerabile come carne" e poi "una città intera andata in collera" e "le persone diventate mostri". Il ricordo personale dell’ospedale: "Ho visto che io diventavo un mostro. Che potevo uccidere. Che potevo uccidermi".
Alla mostruosità della guerra che provoca distruzioni dentro e fuori gli individui la risposta è la pacifica battaglia quotidiana, combattuta da ciascuno per uno spazio di espressione gioiosa e autentica della propria diversità. E’ questo che fa più scandalo nel teatro di Pippo. Il suo teatro non dissimula la marginalità o il disagio, non rappresenta una forma di riscatto per gli attori, né un modo di accorciare le distanze fra la loro condizione e i normali modelli di vita e di espressione artistica. Piuttosto, la distanza è assunta come valore, lo spazio prezioso nel quale costruire un proprio stare, attraverso un linguaggio personale, poetico ed emozionante. Gianluca, il ragazzino down entrato nella compagnia dopo essere stato allievo della mamma di Pippo, canta in playback una canzone di Cristina D’avena dimenando una chitarra rosa di gomma ("Credi in te e va’ per la tua strada"); Armando, il ragazzo poliomielitico incontrato a vagabondare per le strade, nello spettacolo usa le stampelle come fossero un mitra, seduto per terra, per poi librarle nell’aria facendole danzare come ali, mentre pronuncia la frase del Che: "Una grande rivoluzione non può che nascere da un grande sentimento d’amore"; Nelson, il poeta barbone americano trovato a dormire in stazione, danza come gli piace e recita una sua poesia evocando le spiagge della California; Bobò, che è ormai diventato l’emblema della compagnia (e che Pippo, senza alcuna ironia, descrive come un maestro di teatro), il piccolo uomo "destinato ad essere sempre un bambino" - come hanno detto i medici del manicomio di Aversa nell’affidarlo alla compagnia - a un certo punto è seduto su una cassa attorno alla quale ha raccolto tutto il suo piccolo mondo di oggetti di cui per quarantacinque anni gli è stato vietato il possesso, e gioca con un aeroplano che fa volteggiare sul suo capo…
Si intitola guerra e mette in scena una rivoluzione: l’affermazione della poesia e della bellezza in esistenze emarginate o offese.
"Non voglio più sapere niente della guerra", concludeva Pippo in apertura, rivolgendosi idealmente al ragazzo di Sarajevo: "Ho visto una foto in un libro. Hiroshima era completamente coperta di fiori". Bobò commentava, portandosi sul proscenio con un’enorme composizione di fiori, ed era il segnale perché ciascuno potesse finalmente danzare la propria ferita… Alla fine di Barboni Mr Puma, il cantante rock ipercinetico, piantava rabbiosamente dei fiori sul bordo estremo della scena sulle note della canzone di De André: "…Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior…". La verità di questo teatro consente l’assenza di ogni pudore: spudorata l’introduzione di questa canzone, e spudorate - a modo loro - molte delle scene già descritte, ma soprattutto quella che chiude Guerra. Bobò vestito da Pierrot e Gianluca vestito da clown disegnano nell’aria le parole della canzone che cresce in sottofondo, Il vecchio e il bambino di Francesco Guccini, e così dialogano muti, raccontandosi con serietà cose antiche e future.
Il teatro è tutto in piedi ad applaudire il barbone, il piccolo uomo microcefalo, il poliomielitico, il ragazzo down, le attrici, gli attori, il regista. Un tempo sospeso nel ribaltamento di ogni regola. Qui si accetta la verità semplice espressa da una tribù di eterni bambini… Fino a quando durerà il cambiamento?
"Domani di buon mattino chiuderò la mia porta agli anni morti e me ne andrò per le strade… Sulle strade di Francia, dalla Bretagna alla Provenza dirò alla gente ‘rifiuta di obbedire’", hanno cantato le due allieve di Clermont-Ferrand.
La tribù di Pippo Delbono ha già scelto la propria diserzione, come a suo tempo il Living Theatre. Lo fa notare Franco Quadri nell’introduzione al libro appena uscito (Barboni. Il teatro di Pippo Delbono): "Recitare come si respira e per stare insieme, dopo che ci si è trovati: il complesso è e vuol essere l’espressione di un gruppo comunitario vagante, come il Living, in cui s’entrava per cambiare il mondo creando un nuovo alfabeto della scena, senz’altra casa che sei pulmini Volkswagen".

Cristina Valenti

P.S.
Poiché in questo scritto ho seguito in particolare l’esperienza della compagnia allargata, formatasi nel 1997 con lo spettacolo Barboni, mi sono trovata a trascurare molti dei componenti storici della compagnia, e soprattutto Pepe Robledo, l’attore argentino proveniente dal Libre Teatro Libre, che ha fondato con Pippo Delbono nel 1987 il primo nucleo della compagnia, allora denominata, per l’appunto, Robledo-Delbono. Pepe continua ad avere un ruolo fondamentale nel gruppo, nel quale lavora non solo come attore ma anche come tecnico delle luci e del suono; a lui è inoltre affidato gran parte del lavoro pedagogico. È nelle mie intenzioni scrivere, prossimamente, della conferenza-spettacolo di cui è autore, intitolata Cajas, nella quale racconta la sua esperienza di teatro politico in Argentina fino al colpo di stato militare e alla scelta dell’esilio in Europa. Insieme a Pepe Robledo, voglio qui ricordare soprattutto l’attore Gustavo Giacosa e il musicista e attore Piero Corso.

 

Sopra: la copertina del libro Barboni. Il teatro di Pippo Delbono, appena uscito presso la casa editrice Ubulibri di Milano. Il volume contiene un’Introduzione di Franco Quadri, una lunga intervista a Pippo Delbono realizzata da Alessandra Ghiglione (curatrice del libro), e un testo di Oliviero Ponte di Pino, a corredo delle bellissime fotografie di Guido Harari. Da questo volume sono tratte tutte le citazioni fra virgolette contenute nel presente articolo. Ringraziamo Franco Quadri per avercene fornito copia ancor prima che fosse in distribuzione.