Rivista Anarchica Online


Due imperativi
di Carlo Oliva

Per impedire un genocidio la guerra può essere indispensabile - sostiene Adriano Sofri. Qui Carlo Oliva spiega perché non è d’accordo.

Illustrazione di Natale Galli
Illustrazione di Natale Galli

 

Adriano Sofri, su Repubblica del 26 aprile, si schiera, con l’onestà intellettuale che lo caratterizza, dalla parte di chi, nella crisi balcanica, sostiene la guerra. Non ignora, naturalmente, i tanti argomenti in contrario, sa che la parola d’ordine del "mai più la guerra" è profondamente radicata nella coscienza della sinistra e che il ricordo degli orrori dell’ultimo conflitto mondiale, quello che si concluse con la bomba atomica, pervade ancora gran parte dell’opinione pubblica dei paesi democratici, determinando l’atteggiamento dei relativi governi, che non a caso, anche quando intraprendono delle azioni armate, tendono a negare che di guerra si tratti. Ma da quel conflitto, ricorda, non uscì soltanto quella parola d’ordine, ne uscì anche quella, altrettanto importante, del "mai più Auschwitz", l’imperativo di non permettere, per il futuro, che sui diversi, sui dissidenti, sulle minoranze si compissero nei singoli stati sovrani le atrocità che il nome di Auschwitz per tutti riassume. E anche se il diritto internazionale non ha mai posto le due problematiche sullo stesso piano (a Norimberga e a Tokyo i capi nazisti e i generali nipponici furono condannati per "crimini di guerra", non per "delitti contro l’umanità"), è evidente, almeno per l’ex leader di Lotta Continua, che questo secondo imperativo ha, per lo meno, la stessa dignità del primo, anzi, che si pone a un livello etico superiore, tanto è vero che in caso di conflitto tra i due è quello che bisogna scegliere. Per evitare altre Auschwitz, per porre fine - fuor di metafora - ai massacri del Kosovo, si può e si deve fare la guerra.

In condizione di prigionia

Stiamo parlando di guerra vera, eh, di quella che pone la vita dei "nostri" sullo stesso piano di quella degli avversari e non pretende di mettere fuori combattimento il nemico senza rischi per i propri concittadini-elettori. La "differenza fra una guerra che si vuole ‘giusta’ … e una ingiusta" - si legge in quell’articolo - non può "esaurirsi nel movente né nel fine: ma sta altrettanto nel modo in cui viene condotta". Non è possibile "sottovalutare il costo dello stereotipo della guerra asettica (per chi la conduce) dei raid e dei bombardamenti aerei senza faccia e senza nome." E ancora: come "ha scritto ferocemente Pierre Vidal-Nacquet" (che, confesso, personalmente non so chi sia) " ‘fare la guerra senza prendersi i propri rischi vuol dire aggravare il fossato fra il mondo dei ricchi e quello dei poveri: non è combattere, è praticare una specie di tortura aerea’ ".
Ora, Sofri si trova nella difficile situazione di chi, essendo in condizione di prigionia, sostiene degli argomenti che non possono che rallegrare chi in prigionia lo detiene. In queste circostanze, qualcuno potrebbe sentirsi tentato di fare con lui quello che si fa oggi, per dire, con un Rugova in mano dei serbi o si faceva ieri con un Moro prigioniero delle Brigate Rosse: dichiarare le sue tesi irricevibili. Ma è una tentazione che, per quanto allettante, va rapidamente dismessa. Sofri non si considera prigioniero dei suoi nemici; ritiene, per suoi eccellenti motivi, di essere vittima di un errore giudiziario, un errore che lotta per correggere. Per il rispetto che gli è dovuto, dei suoi argomenti bisogna proprio tener conto, augurandoci di poter presto riprendere a polemizzare con lui da liberi a libero.
Ed è difficile, perché Sofri, con quell’articolo, in pratica apre la via a una specie di campagna di promozione dell’attacco di terra, una campagna che, da allora, si è ripresentata sui media con molto minore onestà intellettuale. E lo fa mettendo in campo degli argomenti di ostensibile nobiltà, senza ricorrere, lui, uomo di cultura e pensatore fuori dagli schemi, alle baggianate di quanti al "limite invalicabile" dell’attacco di terra subordinano soltanto la propria permanenza negli aurei pascoli governativi. Da questo punto di vista, gli si può persino essere grati, per aver messo in luce, una buona volta, i termini reali del problema. È abbastanza ovvio, checché dicano i vari Manconi e Cossutta, per non menzionare la sinistra dei DS, i verdi e i centottanta e più parlamentari che hanno sottoscritto il solito lacrimevole appello in tal senso, che se uno pensa che quella scelta sia inevitabile e giusta, poi non può rifiutarsi di portarla fino in fondo per paura di farsi male. La giustizia, ahimè, va perseguita anche a proprio rischio e pericolo, compresi il rischio e pericolo di perdere una poltrona governativa o l’appoggio di un’opinione pubblica sagacemente sorda a certe suggestioni.

Fortissime identità

Tutto questo non toglie, naturalmente, che l’idea che una guerra fatta a piedi possa essere considerata, in un certo senso, più "morale" di quella che viene dal cielo (perché di imperativi morali, in definitiva, si tratta), a me sembri straordinariamente futile. E non solo perché è difficile considerare morale la guerra in genere. È chiaro che un’invasione della Serbia da parte degli eserciti delle massime potenze industriali del pianeta non sarebbe uno di quei duelli cavallereschi ad armi pari che nei bei tempi che non furono mai si combattevano in difesa dei deboli e degli oppressi. Quanto al fatto che l’attacco di terra comporterebbe gravi sofferenze anche per chi lo sferrasse, è indubitabile, ma, francamente, non mi sembra che rivesta molta rilevanza. Che un gesto sia morale se procura a chi lo compie danno, fastidio e patimenti può crederlo soltanto chi non si è liberato dai cascami educativi della tradizione pretesca.
Ma il problema di fondo, naturalmente, non è questo. Il problema di fondo resta in quella contrapposizione iniziale tra il "Mai più guerra" e il "Mai più Auschwitz". Per Sofri e quanti la pensano come lui la questione, tutto sommato, è abbastanza semplice. Chi crede nella necessità di intervenire dovrà dibattere e interrogarsi sui mezzi con cui farlo, ma "nelle mani dei pacifisti, sinceri o abusivi, rischia di restare solo il filo del NO alla guerra, a rischio dell’omissione di soccorso."
È vero, naturalmente. Ciascuno deve correre sempre i rischi che le sue scelte comportano. Ma forse porre il problema in questi termini è meno esauriente di quanto sembri. Forse, tra l’uno e l’altro "Mai più" si può stabilire un rapporto più stretto. Per gli zelatori dell’uso della forza, lo abbiamo visto, la guerra si può fare in tanti modi e per tanti motivi, giusti o sbagliati, e il problema è solo quello di trovare il modo e il nemico giusto. Per noi no, anche perché noi ci rendiamo conto che la guerra non la si fa mai soltanto con il nemico. Che i suoi effetti investono la comunità degli aggressori con la stessa intensità di quella degli aggrediti. Non è necessario essere anarchici per capire che la guerra presenta un vantaggio enorme per chi comanda uno svantaggio ancora maggiore per chi è comandato: quello di creare delle fortissime identità. Di stringere le fila dei cittadini, facendone dei sudditi, di respingere ai margini i dubbiosi, di mettere in dubbio la legittimità dell’esistenza stessa dei diversi, giustificandone prima l’isolamento, quindi la rimozione e infine l’annichilimento. In altre parole, la guerra è il presupposto di qualsiasi Auschwitz.
Perché insomma. È vero che scendere in campo contro Hitler, nel ’39, era probabilmente inevitabile (e forse sarebbe stato meglio decidersi un po’ prima), ma è anche vero che l’orrore dei campi di sterminio si è sviluppato appieno proprio durante la guerra. Ed è vero, purtroppo, che per tutta la durata del conflitto i tedeschi, un popolo di alta cultura e civiltà, sottoposto, per di più, a una dittatura tanto orribile, si strinsero attorno all’unico simbolo di identità in cui si potevano riconoscere, cioè attorno al nazismo e ai suoi capi. Non erano, a quanto è lecito supporre, tutti nazisti; riconoscevano, in gran parte, le responsabilità del regime e, se ne fossero stati informati, non avrebbero certo approvato di cuore quanto succedeva ad Auschwitz, ma non potevano proprio fare altrimenti (e non sarà un caso se a tutt’oggi il ricordo dei pochissimi che fecero altrimenti non è affatto onorato in quel paese). Anche in Italia, del resto, una resistenza poté nascere soltanto dopo che l’unità del paese in guerra fu rotta dal tradimento di chi la impersonava. E che in Jugoslavia la guerra non faccia che aumentare i consensi di cui gode chi è al potere, facilitando la esecuzione dei suoi progetti, lo si può leggere - oggi - su tutti i giornali. Io non so se sia possibile dire, come sostiene Sofri, che Pristina e Sarajevo sono una nuova Auschwitz, nel senso che ne fanno proprio e ne aggiornano il sinistro messaggio. Ma sono sicuro che, come la seconda guerra mondiale, nonostante tutto, non ha potuto salvare dall’olocausto buona parte degli ebrei del Centro Europa, così questa nostra stupida e tragica aggressione alla Jugoslavia non salverà un solo kosovaro dal suo destino. Anzi, affermando la non contestabilità delle ragioni dei più forti e dei più potenti, porrà le premesse per la creazione di nuove Pristina e di nuove Sarajevo. Di nuove Auschwitz, in buona sostanza.
Alla causa della pace, non dovrebbero essere necessari altri argomenti.

Carlo Oliva