Rivista Anarchica Online


L'anarchico di Cutigliano
di Nadia Agustoni

 

 

Sulle tracce di Giuseppe Manzini (1872-1925), bella figura di anarchico, già restituita alla storia dalla biografia ("Ritratto in piedi",1971) della figlia Gianna.

 

 

"Quanto alle stelle, ci sono sempre.
Quando ne spunta una, un’altra ne verrà."

Iosif Brodski

"E non è anche vero che tu, adesso, più che mai, o diversamente esiliato, un poco ti affidi a me?"

Gianna Manzini
Ritratto in piedi - Mondadori

Cutigliano è un paese di montagna, nell’Appennino Pistoiese, quasi sulla linea di confine con l’Emilia. Non l’ho visitato, anche se in verità Penso di farlo, ma la consuetudine al paesaggio appenninico toscano, dove vivo da anni, mi permette di immaginarlo, forse dovrei dire di intuirlo. Il libro che Gianna Manzini scrisse sulla figura del padre, l’anarchico Giuseppe Manzini, che a Cutigliano trascorse gli ultimi anni del confino e della vita, tracciano di Cutigliano una piccola mappa, inevitabilmente molto interiore, ma è evidente che molte volte si possono conoscere luoghi che non ci conoscono e il cui tono apparentemente aspro, ci tiene come si è tenuti a qualcosa, per una simpatia che trascende qualunque comprensione. Questo vale per certi paesaggi per una certa memoria, per persone che mai incontreremo ma di cui ci raggiungono schegge, indizi appena percepibili che improvvisamente sembrano coagulare e mischiarsi ad altri nostri cammini.
La memoria ha un suo passo. Gianna Manzini sapeva probabilmente, l’impossibilità di non ricordare. Chi scrive infatti, se è onesto, è obbligato a ricordare. A darsi memoria. Ritratto in piedi parte nel segno di una grande fatica e solo dopo un po’ la stessa scrittrice dice: "adesso comincio davvero questa storia-ritratto. Mi provo." Leggo con crescente emozione sentendo il passo della memoria, di persone che non conosco, risuonarmi dentro. È un passo di montagna e un passo di un mondo difficile che si svela pianissimo, ma con una forza che si incide indelebile tra le pieghe del nostro anemico presente. Essere udibile, essere ascoltata, pare secondario a Gianna Manzini, in questo libro sul padre. Cerca per sé. Una redenzione personalissima e proprio per questo data in pagine scavate, rese trasparenti dal dolore. Cinquant’anni di dolore. Soli indizi svelano una trama, sono nomi, posti, pensieri, un’altra memoria o più memorie. Solo chi si apre a queste memorie, ne trova i tanti fili e di ogni memoria scopre la necessità.
Ecco che così salgono in gola le piccole tempeste, quello che non si è mai digerito pur senza dirlo. Un padre tiene per mano la sua bambina e spiega tranquillamente quanto tutto sia bello e quanto tutto serve. Tutto, pare dirle, merita salvezza, perché ha una sua integrità che possiamo non capire subito, ma non dobbiamo rifiutarci di vedere. "S’intende che il babbo deve ignorare che io sono anche questo groviglio di perché, questo fuggi-fuggi di consapevolezze. Deve immaginarmi soltanto in orecchi verso di lui, verso noi due, senza vacillamenti. Se non ci somigliassimo naturalmente, basterebbe la nostra alleanza a renderci tanto simili, vero?", e dunque la nobiltà dello sforzo, quell’essersi presenti a dispetto di tutto e tutti, è una delle cifre del libro. Parlato in ogni pagina e affilato fino a essere crudele, pacato ma crudele nella spietatezza di spiegarsi. Forse nessun padre, anche se a lungo abbandonato, pretenderebbe tanto. Le sapeva anche lei, ma non sapeva ancora perdonarsi.

 

Malatesta amico del papà

Lui, quel padre anarchico, affiora invece sulle pagine mite e sorridente. Sicuro dei propri valori e del valore di quella sua bambina, pare attestarsi in un’attesa che è tenerezza, un’attesa che si protrarrà molto aldilà della morte e che una scrittura sapiente, alla fine, non avrà reso inutile. Da questa scrittura ferita, la sua immagine, fora le pagine e sale fino a raggiungerci. La figlia tramanda i passi della consapevolezza e tramanda la fatica: fatica del dolore, dell’assenza, del sempre rimandato, dell’oblio. È una fortuna trovare un libro come questo, dove scrittura e voce, dolore e voce, parola scritta e non detto, parola e non mai parola, sono lì, davanti a noi e dentro qualcosa di incolmabile.
In verità siamo abituati a scritture meno attente perché forse meno sensibili, meno prossime ad ascoltarsi. Scritture più gettate, più per fuori. "Per raggiungere l’affabile cimiterino di Cutigliano, nella montagna Pistoiese, dove lui trascorse gli ultimi anni del suo confino politico, mi ero incamminata lungo la strada di San Vito; e stentavo a riconoscere la passeggiata che dalla splendida piazzetta conduce, fiancheggiata da generosi castagni, al belvedere in faccia alla vallata ma, a mezza via, c’è un accenno di insenatura: di lì un sentiero accompagna fino al camposanto. Ed ecco che, da quel momento, non fui più del tutto me stessa: bensì un riflesso, un’eco. Più che distacco, era una provvidenziale distruzione che mi sfoltiva." Ma, l’amore taciuto a lungo, s’imprime col suo peso sulle pagine, dove a un certo punto, una disperante incertezza, affida a precisione e dettaglio lo smarrimento interiore. C’è qualcosa di immenso nel sentire in un modo così. È un sentire che ascolta qualcosa che non è mai del tutto possibile tradurre. Possiamo indovinarlo e rispettarlo. Confrontarci con questo avvicina alla vita, ma non ne prende il segreto. Forse il segreto è custodito con leggerezza, la solare leggerezza dei saggi, da altre figure che entrano nel libro e lo popolano giocando a fare le ombre.
L’amico del padre, Errico Malatesta, ricercato dalla polizia, entra travestito nella piccola bottega da orologiaio in cui il padre effettua le piccole riparazioni con cui sopravvive. La prende in braccio, canticchia una strofetta, ride e le spiega che lei ha gli occhi marroni, non neri, e punteggiati "diciamo d’oro". Sembra che nella botteguccia sia entrata la musica. Sono lì, contenti tutti e tre, e quando Giuseppe Manzini domanda "Ma hai tempo, Errico, hai tempo?", la risposta è allegra, felice, "Il tempo per far festa alla tua figliola devo averlo." Lo cercano in tutta Italia e trova il tempo, l’energia , per farle fare cavalluccio. Lo vede, mentre sta uscendo, già con la testa su dei fogli, attentissimo e tutto preso da quanto è venuto a fare. Anche nella distanza, lei saprà, che questo è indelebile.

 

L’intelligenza della percezione

Con Ritratto in piedi, Gianna Manzini, vinse nel 1971 il premio Campiello e fu in pratica il suo ultimo libro. Morì nel 1974 e non è oggi molto conosciuta, anche perché i suoi libri non li ristamparono per anni. Si deve all’interesse del movimento delle donne per la scrittura e la vita delle altre donne, la sua riscoperta e i nuovi studi su di lei. Per chi volesse segnalo il bel saggio di Grazia Livi contenuto in Le lettere del mio nome edito dalla Tartaruga. La Livi parla a lungo di quanto impediva a Gianna Manzini di scrivere del padre e raccoglie nel suo bel saggio alcuni episodi importanti, che ci permettono di delineare meglio le due personalità, sempre in bilico tra riconoscimento e conflitto, anche se solo sotterraneo e a quanto se ne può dedurre, per lo più conflitto che era interamente filiale. Arrivando dopo tanto tempo a capire, a ricordare, che segretamente si era vergognata del proprio padre e proprio quando questo coincideva con la maggiore debolezza sociale di quest’ultimo, la Manzini può nominare il proprio rimorso.
Nominare non libera, non necessariamente, ma acuisce l’intelligenza della percezione.
L’assenza può essere un pieno insostenibile. Possiamo anche non riuscire a immaginarla. È la parte strappata e quella più intima, più in noi. Tento di rappresentarmi loro due a passeggio per le viuzze di Pistoia, lui senza cappotto in pieno inverno, perché gli è stato rubato "chi lo ha preso, ne aveva certo più bisogno di me" dice, e non commenta più la cosa. Oppure ecco i luoghi dove "i compagni" si ritrovano per parlare e sono perlopiù i luoghi dove lavorano, dove i mestieri sono frustaio, fabbro, contadino... dove odori, polvere, freddo e volti sono ugualmente nudi.
Giuseppe Manzini era l’anarchico più chiacchierato e preso di mira della piccola città.
Nato da famiglia ricca, seminarista e poi fuggiasco, diventa giovanissimo anarchico e riversa il suo sapere e i suoi averi nella diffusione delle idee libertarie. Organizzerà uno sciopero, uno di quelli che in provincia fanno scalpore diretto contro la ditta del cognato e sua (infatti è socio), ma lascerà dopo le critiche feroci della famiglia e dopo che lo sciopero ha vinto, la sua posizione e la sua eredità, abbandonando totalmente e definitivamente quel mondo borghese a lui troppo stretto. Ne verrà anche abbandonato e vedrà il suo matrimonio finire. Per quanto riguarda la proprietà a cui rinuncia dirà alla figlia, molti anni dopo, che "l’eredità impedisce di saper morire" e quando morirà nel 1925 la sua completa povertà, farà dire a uno dei suoi amici che ricorda il funerale "è stato un funerale di una povertà e di una purezza e di un silenzio veramente strazianti". In pratica non c’era nemmeno il falegname per chiudere la cassa. Questi era scappato per paura di compromettersi coi fascisti. L’agguato che gli tesero, mentre scendeva da un rifugio, fallì, ma essendo stato insostenibile lo sforzo durante la fuga, Giuseppe Manzini morirà poi di infarto.

 

Un ricordo indelebile

A Pistoia aveva diretto il giornale L’Ilota espressione di un socialismo anarchico rivoluzionario che almeno inizialmente, tenterà una mediazione tra le due principali correnti del movimento operaio e socialista, quella fedele all’insurrezionalismo e quella uscita dalla spaccatura prodotta da Andrea Costa in Romagna. Da quanto la figlia racconta, pare fosse uno dei delegati al congresso di Amsterdam del 1906. Difficilissimo reperire altre notizie biografiche. Devo qui ringraziare la cortesia di Fiamma Chessa, che prontamente mi ha messo a disposizione quanto era presso l’archivio di Reggio Emilia "Archivio Famiglia Berneri - Aurelio Chessa". È probabile che il Manzini usasse più che altro pseudonimi per firmare gli articoli. In pochi casi appare direttamente la sua firma e uno di questi, anzi forse 8010 in questo caso, è una risposta a Malatesta datata Pistoia 1 Aprile 1883 - Dall’ Ilota n. 9. È, del resto, in linea con il personaggio, questa umiltà e consapevolezza e il mettere davanti l’idea, senza protagonismo. Non amava umiliare, nemmeno facendo pesare la propria cultura. Lui, che aveva conosciuto Mussolini quando questi era socialista e ne aveva suscitato la stima, si rifiuterà, benché sollecitato proprio da questi, di passare ai neri e rinnegare tutto quello in cui credeva. Non gli verrà perdonato e lo pagherà molto caro, pure nella stima che anche ai nemici suscita, quest’uomo inflessibile ma profondamente umano.
A Cutigliano, lasciò un ricordo indelebile. Chi lo aveva conosciuto, paesano o confinato politico, non lo dimenticò. Alla figlia Gianna, arrivano col tempo, le testimonianze di compagni e amici che tracciano vivido un ritratto del padre, che lei non può non riconoscere.
La vita non lascia cadere niente che non possa essere ritrovato. Bisogna saper pagare però. In un ambiente sociale vendicativo, dove le parole sono le percosse che non si danno, madre e figlia vivono il loro esilio e il doppio estenuante silenzio. Ogni boccone viene fatto pesare, con riguardo, ma continuamente. Continuamente ogni presunto fallimento viene rivangato e esposto con relativa morale alle donne di famiglia, che non possono e forse non sanno sottrarsi allo scempio che si fa di loro e di altri.
Ogni tanto ci prova la madre a fermare le parole, a dare nuovo senso a quanto viene detto, ma la bambina non può parare quel franare del suo mondo, suo e del padre, non lo può ancora difendere. Non lo difenderà per molto tempo, riuscendo solo a chiuderselo dentro per impedire che distruggendolo, distruggano anche una parte tanto grande di lei. Il padre non le può salvare da quell’umiliazione, può solo dare quella parte di sé, che loro non ignorano e che è scavalcamento di facili certezze, consapevolezza di vita, spirito nuovo che muove la sua e loro partecipazione al mondo, chiedendo appunto, che al mondo tutti abbiano parte. Il dolore tempra è silenzio e voce e gesti che si raccolgono e si spiegano da soli.
È la voce del padre sulla montagna, mentre mostra alla ragazza (ormai è cresciuta), il piccolo orto che si è fatto, portando su un rialzo pieno di sassi, secchi e secchi di terra. Lei è lontana, non capisce più. Non sa più sentire. Lo incontra per caso, mentre esce dalla scuola, in città. Vorrebbe scappare. È presa da un sentimento di tale angoscia che neanche lo riconosce questo sentire. Sa di diserzione filiale e non può sopportarne il peso. Le luci e le strade di Firenze, i musei, le cupole, i libri, saranno i primi anestetici. Sta scoprendo il mondo, sale le scale della biblioteca Nazionale come se fossero quelle del paradiso. L’uomo che è suo padre, è una ferita che deve lasciare indietro. Non smetterà mai di sentirla e salirà infine fino al paesino in montagna per poter dare al dolore un nome. Rimorso. Rimorso cocente e grande come la stessa vita. Lo riscatterà con parole che comunque non possono lenire il suo rimpianto.
L’anima è strappata fino a essere irriconoscibile. Non è la tentazione del dolore. È il dolore nello sguardo, quel vedere dietro le maschere che è sempre improvviso e ingigantito dai resti. Chi può dire se portare maschere, è portarle fino a somigliarsele. Oppure se solo la maschera che scegli, dice chi sei. O ancora se è la maschera a tagliarti la voce o la maschera è 8010 silenzio. Non è mai facile comprenderci. Nel piccolo cimitero di Cutigliano, tra giochi di luce, il suo incontro col padre è un re-incontro finalmente. Diventa l’inverarsi delle parole del padre. Quanto l’aveva fatta vergognare ora la strazia. Ciò che non chiedeva lo chiede ora. Sfida l’ombra per avere indietro il tempo e non può più averlo.
La donna incontra la bambina in un punto del cuore in cui tutto deflagrerà. Quanto non poteva ricordare, la raggiunge. Un uomo e una donna sono dietro i suoi occhi, hanno amato e sofferto anche loro e lei con loro, mai contro di loro. Lì lascia nel loro muoversi senza astuzie, in un mondo che lì allontanerà, ma non potrà separarli. Gli indizi, sono adesso necessità. Sono quanto le permettono di sapere. La memoria non è facile e la si paga. Sarà anche il prezzo della fedeltà e la fedeltà a sé stessa sarà infine l’amore per quell’uomo e quella donna.

Nadia Agustoni

 

 

P.S. Non ho trovato molte notizie su Giuseppe Manzini. Quanto è riportato nello scritto è tratto dal libro della figlia, Gianna Manzini; dalle notizie inviatemi da Fiamma Chessa e reperibili nell’Archivio Famiglia Berneri - Aurelio Chessa; dallo scritto su Gianna Manzini in Lettere del mio nome di Grazia Livi. Mi scuso per eventuali errori, ma pur cercando di essere precisa, poco era quanto a mia disposizione. Se qualcuno avesse notizie, articoli, opuscoli, o ancora meglio una biografia magari non conosciuta di Giuseppe Manzini e volesse mettersi in contatto, è pregato di chiedere il recapito c/o A Rivista Anarchica. Vorrei fare di questo breve saggio, uno scritto che contempli una parte biografica più accurata e quindi sto ancora cercando materiale allo scopo. Ringrazio ancora chi mi ha aiutato, direttamente o indirettamente.

 

Chi era Giuseppe

Giuseppe Manzini 1872-1925. Anarchico di Pistoia, dirige L’Ilota, un foglio di ispirazione "socialista anarchico rivoluzionario". Collabora anche a Volontà o così risulta da una breve nota che ho trovato in Luigi Fabbri libro biografico. Conosce Malatesta, con cui sull’Ilota, c’è uno scambio di lettere. Partecipa al Congresso di Amsterdam del 1906 come delegato. Nel 1884 è processato con altri anarchici per un Manifesto stampato dopo l’arresto di Malatesta. Oggi il Manifesto si trova presso l’Archivio di Stato di Firenze. Condannato al confino dopo l’avvento del fascismo, muore a Cutigliano.

 

Chi era Gianna

Gianna Manzini nasce nel marzo 1896 a Pistoia muore a Roma nel 1974. Laureata in lettere a Firenze con una tesi sulle opere ascetiche di Pietro l’Aretino, collabora a Solara dal 1929. Conosce Montale, Prezzolini, De Robertis ma pur nella reciproca stima, sceglierà sempre una una linea autonoma. Scoperta oltralpe da Gide e Larbaud, quest’ultimo tradurrà in francese uno dei suoi racconti.
Tra i suoi libri:
• Tempo Innamorato - il romanzo d’esordio
• Incontro col falco - Corbaccio 1929
• Bosco Vivo - Treves 1932
• Un filo di brezza - Panorama 1936
• Venti racconti - Mondadori 1940
• Lettera all’editore - Sansoni 1945
• Forte come un leone - Mondadori 1947
• Ho visto il tuo cuore - Mondadori 1950
• Animali sacri e profani - Casini 1953
• Arca di Noé - Mondadori 1960
• Il cielo addosso - Mondadori 1963
• Album di ritratti - Mondadori 1964
e inoltre
• Il valzer del diavolo, La Sparviera, Allegro con disperazione libri di cui non ho le date precise ma i primi due sono del periodo fine anni quaranta, inizio cinquanta. Del 1971 è Ritratto in piedi vincitore del premio Campiello e del 1973 è Sulla soglia.

Molti furono comunque i premi e i riconoscimenti accordati alla scrittrice quando era in vita. Notevole la sua fortuna critica anche in Francia. Ritratto in piedi è oggi riedito da Mondadori - collana Classici Moderni Lire 13.000
La scrittrice era stata un po’ dimenticata, negli anni dopo la morte, ma grazie all’impegno della recente critica femminista comincia a essere riscoperta.