Rivista Anarchica Online


Antistato totalitario e antistato mafioso
di Massimo Annibale Rossi

 

Dietro la stessa parola vi sono tante interpretazioni possibili. E impossibili.

 

"Antistato" è uno dei termini che più hanno contribuito nel secolo che va a concludersi all’inquietudine delle buone coscienze. La definizione accomuna realtà affatto diverse, colpendo in particolare coloro che l’hanno assunta quale strumento di promozione per l’idea libertaria. Le accezioni che ne risultano sono infatti incompatibili: sistema di potere creato all’interno dello stato dalle organizzazioni mafiose e "società senza stato".
Per meglio comprendere la singolare carriera del sostantivo, appare utile richiamare la funzione del comune prefisso. Anti- indica contrapposizione, carattere che nei confronti dello stato connota sia il sistema mafioso, sia l’ideale anarchico. Questo aspetto si potrebbe generalizzare a tutte le forme di organizzazione antagoniste al modello di potere centralizzato. Le comunità che si ispirano al cristianesimo originario sostengono il primato del senso etico-religioso e del bene comune sull’obbedienza alle leggi dello stato. Quanto, polarità opposta, l’agire criminale comporta uno stravolgimento delle regole socialmente accettate. Si cerca d’imporre l’applicazione di un codice basato sul beneficio del singolo - del gruppo o della "famiglia"- a discapito della collettività.
È d’altro lato interessante considerare come il rapporto antistato-crimine sia mutato e continui a mutare in funzione all’evoluzione dei modelli culturali e delle strutture di potere. In un regime totalitario i due termini divengono sostanzialmente sinonimi, come dimostra la strategia di eliminazione fisica di ciò che in una democrazia viene chiamato "opposizione". Anzi, si manifesta una predilezione per il delinquente conclamato, in quanto individuo plasmabile in strumento di "operazioni" e "strategie" dalla maggioranza rifiutate. Un esempio nella composizione dei gruppi paramilitari - o Squadroni della morte - che dall’America latina alla Serbia hanno aiutato i governi locali a mantenere il controllo.
Se alla fine del secolo scorso gli anarchici erano considerati "banda di malfattori", stessa fine avrebbero fatto dopo un trentennio i militanti dei "partiti democratici". Sorte che anche in tempi più recenti sarebbe toccata ad adulteri, obiettori di coscienza, abortisti... Un richiamo significativo alla tradizione nel mondo contemporaneo è costituito dal "Giuliani pensiero". La Dottrina della tolleranza zero comporta la criminalizzazione sia del dissenso radicale - per la realtà italiana i centri sociali -, sia della marginalità in generale. Se i primi per il fatto di occupare spazi pubblici in modo illegale - ma anche per la stravagante passione per il graffito metropolitano - sono messi all’indice, la sorte peggiore tocca a tossicomani e homeless, e sans papiers.
Lo stato più potente del pianeta vanta quale credenziale per ergersi a maître di democrazia il più alto rapporto tra detenuti e popolazione del mondo sviluppato. Le carceri, come già gli armamenti, rappresentano ad oggi uno dei business più proficui. Quale rapporto tra l’inasprimento delle pene, il conseguente allungamento dei soggiorni e delle rette, e le pressioni esercitate dalla lobby delle carceri? Quale il senso etico dell’attuale revival della pena di morte o della "recidività" del delinquere, che pone a controparte del superamento dei tre reati la prigione a vita? L’obiettivo diviene estirpare l’antistato alla radice, ma con questo e il conseguimento di una illusoria sicurezza, i valori fondanti l’umanesimo occidentale.
Un’ulteriore conferma della versatilità del termine si ha, in una prospettiva sovranazionale, nella definizione del nemico. Antistato per antonomasia, l’epiteto dopo la caduta del Muro di Berlino e il naufragio dell’"Impero del male", appare tornato all’originaria sinonimia di efferatezza, totalitarismo e crudeltà. La scalfittura nel visino di un marine diciottenne ne fornisce testimonianza, quanto le fosse comuni o le lunghe file di deportati. Tuttavia lo sterminio dei Kosovari non sembra valere quanto quello dei Kurdi, meno vicini alla patria Europa e perpetrato da uno stato amico. Il calvario, le deportazioni dei palestinesi meritano nello stesso gioco all’opportunità diplomatica parole di comprensione, ma neppure un ripensamento sulle forniture belliche e gli aiuti alla "democrazia" israeliana. L’elenco potrebbe continuare indefinitamente per dimostrare quanto l’alter ego negativo del consesso sviluppato possa prendere sembianze diverse e stupefacenti.

Terrore e distruzione

Un crescendo reso più inquietante dalla tesi di fondo dell’aggressione aerea che da circa un mese colpisce la Serbia. Dopo una serie incredibile di fallimenti, si vorrebbe convincere l’opinione pubblica della giustezza e dell’efficacia di una strategia basata sul terrore e sulla distruzione generalizzate. Il testimone dell’antistato internazionale è stato consegnato al Presidente Milosevic, ma in vece sua devono pagare i disgraziati che stanno sotto le bombe. Che l’azione di forza potesse scatenare un’ennesima pulizia etnica era prevedibile. Che ciò potesse in qualche modo frenare il bellicismo Nato, augurabile.
Il paradosso, e la docilità del senso critico dei comuni mortali, appare qui nella propria integrità. L’azione deve essere a perdite zero per parte alleata; i bombardieri dal costo iperbolico non possono andare perduti sul campo. Si propone una "operazione chirurgica" di durata imprecisata, che comporta lo sgancio degli ordigni a quote elevatissime, con proporzionale aumento del margine di errore. E se il pilota sgancia sui profughi anziché sui tank, la responsabilità è senza dubbio da addebitarsi all’"Hitler serbo".
Il senso dell’antistato viene dunque a definirsi per contrapposizione con una forma istituzionale presunta più evoluta. Tuttavia assumendo un punto di vista più ampio, "stato" e "antistato" appaiono nutrirsi della medesima materia, rappresentare le facce di una stessa realtà. L’antistato totalitario quanto l’antistato mafioso non si caratterizzano nell’elaborazione di concezioni alternative del vivere comune. Ripropongono fasi arretrate dell’evoluzione di un medesimo modello. Se, utilizzando un approccio necessariamente generalizzante, è possibile sostenere che la dittatura richiami la monarchia assoluta e l’autocratismo, il sistema mafioso afferisce all’ambito feudale. La mafia non è in quest’accezione negazione dello stato, quanto un altro stato. Permangono il controllo della forza - militare e giudiziaria -, del territorio, della tassazione e dei "monopoli" quali obiettivi. Liturgie, codici e regole interne consacrano un dominio preteso incontrastato da parte del gruppo - o della famiglia - sulla collettività.
L’ideale, il "governo dei galantuomini", è totalizzante e non ammette cittadinanza alla differenza. Il diverso, quale soggetto sociale o semplicemente atteggiamento intellettuale, deve essere represso. Esiste un gradiente di pena che va al di là della morte, perché prescrive il come la morte debba avvenire. Le commissioni che emettono i verdetti si considerano pienamente autorizzate ad amministrare la giustizia. La giustizia, o il giustizialismo, mafiosi.
La differenza con altre forme di criminalità sta nel richiamo alle radici etniche e familistiche, nell’iconografia religioso-cavalleresca, nella proposizione di un sistema compiuto. La mafia potrebbe evolvere in potenza verso un modello totalitario e regionalistico di dominio. Sostituire lo stato centralizzato con lo stato omertoso. La strategia delle famiglie risulta in questo senso profondamente mutata negli ultimi decenni. Gli uomini d’onore fanno studiare figli e picciotti; si servono di strumenti tecnici e strutture complesse. La mafia non combatte più lo stato dall’esterno, tenta di farsi stato. Si sviluppano processi di contagio e contaminazioni in tessuti, quali l’istituzionale e l’economico, un tempo antagonisti.
Un processo lento, che in Italia si è sviluppato per tappe e acquisizioni a partire dal riconoscimento dello status quo feudale nel sud da parte della monarchia sabauda in cambio della propria legittimazione. La mafia, dalle trattative per preparare lo sbarco in Sicilia nel 1943 al sistema di scambio voto-favore dell’epoca democristiana, ha in seguito rappresentato un costante interlocutore per la repubblica. In tale contesto, il ruolo della capitale morale settentrionale è andato focalizzandosi sulla controparte legale, il riciclaggio di denaro. Equilibrio che si è tuttavia definitivamente infranto a cavallo degli anni ’80, con lo scoppio di una sanguinosa guerra intestina. Conflitto che, con un bilancio assimilabile a una guerra civile, ha portato al prevalere dei clan più arretrati e feroci, i corleonesi, e a una tardiva reazione istituzionale.
Quale il comune denominatore tra realtà che abbiamo definite "antistato totalitario" e "antistato mafioso" e l’organizzazione sociale ispirata al pensiero anarchico? Una possibile relazione coinvolge l’avversione nei confronti delle istituzione. Ma mentre i primi non si oppongono all’esistenza dello stato in sé, rappresentando incarnazioni regressive rispetto alla democrazia partecipativa, l’anarchismo propone un suo superamento. Carattere comune ad altri movimenti sia di matrice libertaria - federalisti radicali - sia di matrice religiosa - cristiani di base. Da questo punto di vista la contrapposizione dialettica tra stato e "antistato anarchico" non sussiste. L’anarchismo non si pone in una dimensione di contrapposizione, quanto di alterità; per gli anarchici, l’avvenire è altrove.

Massimo Annibale Rossi

 

“...La mafia
non combatte più
lo stato dall’esterno,
tenta di farsi
stato.
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