Più di cinquantanni di pax americana
ci avevano abituati a pensare le guerre come eventi lontani
che non potevano in alcun modo toccare le sponde della civilissima
Europa. La guerra dichiarata dalla NATO alla Jugoslavia il 23
marzo ha colto tutti quasi alla sprovvista. Nel giro di 24 ore
si è scatenato linferno a pochi chilometri dalle sponde
del Bel Paese, in terre di cui molti solo allora hanno cominciato
ad apprendere il nome, tra gente i cui volti ci sono stati mostrati
solo nellorrenda coreografia della brutalità bellica.
Per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale il governo
del nostro Paese è direttamente impegnato in una guerra,
senza neanche il pretesto di una risoluzione delle Nazioni Unite,
senza neppure lalibi risibile dell"operazione di polizia
internazionale" sbandierato allepoca della guerra del
Golfo, la guerra che non è mai finita, la madre di tutte
le guerre che stanno segnando la scena internazionale dopo la
caduta del muro di Berlino.
Per patrocinare questa nobile "impresa umanitaria"
ci voleva un ometto passato indenne tra le macerie del muro,
un personaggio abile a districarsi in tutte le stagioni, capace
di attraversare gli schieramenti restando saldamente in piedi,
un uomo capace di parlare di pace mentre il Paese di cui è
capo del governo si è trasformato in una gigantesca portaerei
su cui rombano i motori dei bombardieri. Dopo Mussolini per
trascinare lItalia in guerra ci è voluto un Massimo
DAlema, luomo che ha portato la sinistra al governo e che
in pochi mesi è riuscito a farci rimpiangere i tempi
della Democrazia Cristiana.
Mentre scrivo la guerra dura da tre settimane, tre settimane
nelle quali ogni notte bombe micidiali sono state sganciate
su tutto il territorio della Federazione Jugoslava e, a dimostrazione
che quello della precisione chirurgica non è che un mito
penoso, parecchie bombe e missili sono esplosi anche nei paesi
limitrofi: in Albania, in Macedonia, in Bulgaria. Per non parlare
delle tante case, ponti, fabbriche che illuminano tragicamente
la notte in Jugoslavia ma il cui riverbero getta ombre inquietanti
su tutta lEuropa. UnEuropa il cui incerto protagonismo è
tra le non secondarie motivazioni dellaccelerazione bellica
che gli Stati Uniti hanno voluto imprimere alla crisi nel Kosovo.
Ma i tempi sono cambiati
Nessuno può con tutta onestà credere che la sorte
di due milioni di poveri contadini e pastori kosovari albanesi
stia a cuore ai potenti della terra.
Nessuno può consolarsi con la favola bella dei "buoni",
cavalieri senza macchia né paura che sfoderano la spada
in difesa dei deboli e degli oppressi. Nessuno può pensare
che chi, come gli Stati Uniti, si è attivamente schierato
a fianco delle più feroci dittature sudamericane, chi
ha addestrato e pagato i torturatori ed assassini che hanno
insanguinato il Cile, lArgentina, lUruguay... oggi abbia scelto
di mettere in campo la propria costosissima macchina bellica
per difendere un pugno di straccioni. Nessuno.
I nostri occhi sono pieni delle immagini del biblico esodo
delle popolazioni kosovare, le orecchie sono bombardate dai
racconti terribili di questi poveracci senza più lacrime
per piangere la morte di parenti ed amici, la distruzione delle
proprie case, la perdita di ogni cosa, compresa la speranza
nel futuro. Sono immagini e racconti che suscitano commozione
e sdegno. Ma la commozione e lo sdegno devono, specie in queste
ore difficili, accompagnarsi alla ragione ed alla pacatezza
perché in questa guerra, non meno che in tante altre,
il contenuto umanitario non è che un comodo alibi per
chi oggi ha deciso di imporre con le armi i propri interessi,
per chi deve tener conto dei palati delicati di parte dellopinione
pubblica dei paesi occidentali, delle anime tenere che alla
democrazia credono davvero. A queste anime tenere occorre riempire
gli occhi di lacrime, perché non vedano quel che è
sotto gli occhi di tutti, quello che nessuno può non
vedere. Nessuno.
Tre settimane di bombardamenti incessanti sulla Jugoslavia,
lungi dal difendere le popolazioni kosovare dalla feroce repressione
dellesercito di Milosevic e delle bande paramilitari di Arkan,
ne hanno spaventosamente accelerato ed incrudelito lopera.
Loperazione è riuscita ma il paziente è morto?
Che importa: quel che conta è loperazione in sé.
Portando la guerra nel cuore dellEuropa gli Stati Uniti, oggi
come in passato, hanno riaffermato la loro potenza, hanno mostrato
i muscoli allUnione Europea che, sia pur timidamente e non
senza tentennamenti e battute darresto, mostrava di voler agire
in proprio sul piano economico, politico e, in prospettiva,
militare. Di fronte alla potenza dispiegata dellalleato - tutore
ai governi europei non è restato che sedersi ai remi
e cominciare a vogare. Non potevano far altro, pena la rinuncia
ad ogni influenza nei Balcani.
LItalia, per quel che la riguarda più direttamente,
ha notori interessi coloniali in Albania e non può certo
permettere che gli americani controllino militarmente in esclusiva
quellarea. Chi non ricorda uno scenario analogo allepoca dell"intervento
umanitario" in Somalia? In quelloccasione era del tutto
evidente che lo scopo dellintervento era la salvaguardia dallingerenza
americana dei propri interessi nella regione. È peraltro
noto come si sia poi esplicato lintervento "umanitario"
dei nostri prodi militari, presentati come personaggi deamicisiani
dalla propaganda ma distintisi a tal punto in torture, stupri
e vessazioni nei confronti della popolazione civile da passare
il muro del silenzio e finire sui giornali.
Ma gli eventuali emuli odierni degli eroici parà
della Folgore in Somalia non devono nutrire timori, poiché
è di questi giorni la notizia che il procedimento in
corso nei confronti del maresciallo Ercole (quello delle torture
ai testicoli nella foto pubblicata da Panorama) è sul
punto di essere archiviato. Infatti agli inizi di marzo i periti
nominati dal tribunale di Livorno che sta giudicando il maresciallo
Ercole hanno concluso il loro lavoro sostenendo che se avesse
"effettivamente prodotto scariche elettriche con un apparecchio
telefonico da campo" ai testicoli del prigioniero somalo
quel "trattamento" avrebbe determinato "solo
sensazioni dolorose temporanee, senza alcun esito funzionale
o anatomico". (sic!)
Sono trascorsi solo pochi anni dallintervento in Somalia
e ancor meno dalla denuncia delle nefandezze compiute allora
dai "nostri", ma nellipertrofia mediatica che segna
la nostra epoca sono trascorsi anni luce. Ma oggi come allora
le vittime, i poveri, i bambini denutriti, le donne stremate
vengono ignobilmente adoperati per coprire operazioni che di
umanitario hanno ben poco.
In questo scenario crudo, dove anche la finzione patetica
del patrocinio dellONU è stata giudicata inutile, la
risposta dellesausto pacifismo europeo pare debole e poco incisiva.
Molti dei pacifisti di ieri siedono sui banchi dei vari governi
che hanno promosso ed appoggiato la guerra. Gli antiamericani
di professione, quelli che per fare i duri scrivono col K, tanto
per non smentirsi si sono attenuti alla usuale formula per la
quale i nemici dei miei nemici sono miei amici e, messa momentaneamente
nel ripostiglio la bandiera cubana, si sono affrettati a sventolare
quella serba. Il sindacalismo di stato si è limitato
a proclamare lo sciopero in Puglia dove la crisi economica provocata
dalla guerra minaccia di essere così disastrosa da inquietare
persino i paciosi iscritti a CGIL CISL e UIL. In quanto al sindacalismo
alternativo, con la sola eccezione dellUSI, che ha proclamato
lo sciopero generale di 8 ore il 14 aprile e del Cobas Marmo
che lo ha fatto il 30 marzo, si è limitato a un paio
dore simboliche per il 30 marzo.
Al momento paiono lontani i tempi della guerra del golfo
che videro le varie componenti del sindacalismo di base farsi
promotrici di uno sciopero generale autorganizzato contro la
guerra.
Certo i tempi sono cambiati: oggi nessuno affolla i supermercati
per timore della guerra, ma sono migliaia i turisti armati di
tavolino da campeggio, coperte, panini, bibite, pallone e binocolo
che scelgono per i loro pic nic domenicali i prati intorno alla
base di Aviano per assistere alla partenza dei bombardieri diretti
in Jugoslavia per seminare morte e distruzione.
Maria Matteo
Ad Aviano il 3 aprile
Il 3 aprile ad Aviano eravamo circa in duemila e sapevamo
di aver vinto la nostra piccola scommessa. Organizzare
nel giro di poco più di una settimana una manifestazione
nazionale davanti alla base dalla quale partono quotidianamente
gli aerei che vanno a bombardare la Jugoslavia non era
impresa facile. Per il movimento anarchico che non gode
dellappoggio della grande stampa e, ancor meno, delle
televisioni ha funzionato il tam tam. Così, nonostante
il silenzio stampa durato fino alla vigilia della manifestazione,
allappello lanciato dal Comitato Unitario contro Aviano
2000 abbiamo risposto in tanti ed in gran parte anarchici.
Una cronaca onesta della manifestazione non avrebbe tolto
nulla al contemporaneo corteo romano, ma per il Manifesto
era già troppo se la cronista, che evidentemente
ha preso molto seriamente la campagna antiproibizionista
del suo "quotidiano comunista", dopo aver ridotto
a mera rappresentanza simbolica il corteo di Aviano, si
è dovuta sbizzarrire in fantasiosa letteratura
a buon mercato su "figli dei fiori" ed altra
paccottiglia immaginaria degna della peggior stampa di
regime. Forse anche la maldestra cronista del Manifesto
sapeva che chi veniva ad Aviano non era disposto ad indulgenze
nei confronti del governo italiano e, al contrario della
coeva manifestazione romana senza ambiguità o tentennamenti
era "contro tutti i nazionalismi, tutti gli eserciti,
tutte le guerre" e denunciava con pari forza lintervento
della NATO in Jugoslavia e quello del governo di Milosevich
in Kosovo. Ad Aviano non si sono viste le bandiere serbe
o kosovare ma una lunga distesa di bandiere rosse e nere.
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