Rivista Anarchica Online


Un tribunale per i diritti?
di Salvo Vaccaro

Lo scorso luglio, a Roma, si è posta la prima pietra per costituire un Tribunale Penale Internazionale permanente, sotto l’egida dell’ONU, per i diritti umani. Una riflessione si impone.

Esaminare la costituzione di un Tribunale Penale Internazionale per la repressione di atroci crimini contro i diritti umani può esaltare anime ingenue e generose, così come può destare sconcerto in spiriti critici e libertari. Tuttavia, senza apologia, parlare del TPI può essere utile per cercare di capire come muterà l’ordine interstatuale in un futuro possibile che probabilmente questa generazione non vedrà compiuto, caso mai i travagli del parto. Beninteso, possibile non vuole immediatamente dire né auspicabile né deprecabile. Solo possibile a date condizioni.
Nel campo teorico delle relazioni internazionali, si suole distinguere una dottrina "realistica" e una "etica", con venature "cosmopolitiche". I realisti sostengono che siamo in presenza di un contesto anarchico, giacché non esiste una catena gerarchica tra stati, né una costituzione planetaria preordinata cui inchinarsi, né un rigoroso ordine mondiale dettato dal più forte. Anarchico quindi in senso reale ma anche un po’ moralistico, perché a farla da padrona sarebbe la forza bruta delle sovranità statuali, con la minaccia del perenne ricorso alla guerra come massima ratio dei rapporti internazionali. Violenza quindi, e non auto-responsabilità e autogestione non distruttiva dei conflitti, come invece l’ideale anarchico a noi più comprensibile
. I sostenitori invece di una etica internazionale sono dell’avviso che non siamo più ai tempi di Machiavelli, ossia ogni spregiudicatezza delle entità sovrane si trova già imbrigliata in una fitta rete di alleanze, partecipazione a organismi internazionali, a relazioni commerciali, a istanze di potere anche più forti della sovranità statuale (finanza, telecomunicazioni), che il ricorso alla violenza del conflitto armato è una delle risorse possibili ma non più l’ultima ratio. A Machiavelli si è sostituito von Clausewitz, che considerava la guerra una delle forme con cui prosegue la politica.
Se lo stato non è più un organo dalla sovranità assoluta, cioè sciolto da vincoli che ne limitano il raggio di potenza, allora non è impensabile cominciare a tratteggiare un ordine mondiale affine se non analogo all’ordinamento interno, cioè con una catena di poteri certa, una divisione di ruoli delle tre forme di autorità (ossia legislativo, esecutivo, giudiziario), la reciproca autonomia formale, una costituzionalizzazione delle regole del gioco accettabili da tutte le parti in causa.
Questo modello di ordine politico-istituzionale oggi è inesistente in campo internazionale in quanto non esiste nessuna di queste condizioni (l’ONU non è un barlume di governo mondiale, nessuna sovranità intende cedere de jure le proprie prerogative se non in un contesto di concertazione equilibrata e di contrattazione politica ma non istituzionalizzata con norme inderogabili; da qui la difficoltà che l’UE, dopo il Trattato di Maastricht sull’unione monetaria e il Trattato di Amsterdam sull’unione politica, si dia una Politica estera e di sicurezza comune e il terzo pilastro di una giustizia comunitaria).
La costituzione di un TPI segna una tessera di un complesso mosaico che prefigurerebbe un ordine cosmopolitico che ridurrebbe le sovranità "anarchiche" all’interno di una cornice sovrastatuale. Questa è l’ipotetica via del futuro.
Al di là del destino del TPI, i cui limiti intrinseci, frutto di compromessi, sono già evidenziati nell’articolo, esistono dei limiti strutturali in questa ipotesi di governo mondiale che surroghi la sovranità nazionale in una più ampia e più potente istituzione planetaria (qualunque nome assumerà) che risponda ai requisiti minimi di democraticità (il più emblematico: una testa, un voto, non come i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU dotati di potere di veto).
Il limite più forte è il disarmo degli stati che dovrebbero rinunciare al "far west" e delegare sicurezza e giustizia certa ed equa ad un organismo più potente, monopolista (o quasi) della forza disponibile. Ciò tuttavia, al di là di auspici o timori, si scontra con l’interesse alla sopravvivenza dei singoli stati, che dovrebbero essere ridotti da "pistoleros" armati a "cittadini" inermi del pianeta, sottoponibili quindi alle misure di sicurezza, di disciplina e di punizione al pari dei singoli individui entro un ordinamento nazionale. Se non vogliamo credere alla finzione del contratto che istituisce l’autosottomissione e la delega al sovrano, occorre rivolgersi alle teorie della cattura della società da parte di formazioni statuali più potenti e gerarchicamente organizzate (la teoria di Clastres e di Deleuze-Guattari). Ma, in campo internazionale, quale mai sarà una simile formazione ancor più superpotente dell’attuale superpotenza mondiale? gli alieni? Ai posteri l’ardua risposta.

S. V.

 

Nello scorso luglio, a Roma, si è posta la prima pietra per costituire un Tribunale Penale Internazionale permanente, sotto l’egida delle Nazioni Unite, il cui intento, augurabilmente, è la tutela del mondo da ogni crimine contro i diritti umani. Pur tra mille difficoltà, e con la consapevolezza che tanto cammino dovrà ancora farsi, il battesimo è avvenuto proprio nel 50° anniversario della Dichiarazione Universale dei diritti umani, emessa il 10 dicembre 1948, che rappresenta la carta fondamentale dei diritti degli individui e dei popoli ad una esistenza libera e degna.
L’anno che è trascorso è stato, ahinoi! come al solito, un anno particolarmente difficile per la tutela dei diritti umani. Al di là dei singoli casi - giornalisti assassinati o arrestati arbitrariamente, bambini acquistati e rivenduti per alimentare il traffico pedofilo, schiere di migranti trattati come merce umana dal racket - e al di là delle annose dispute in varie aree del pianeta (dalla Repubblica Democratica del Congo al medio oriente, dal Kurdistan al Kossovo, dall’Afghanistan al Chiapas, tanto per citare alcuni esempi), il 1998 è stato l’anno in cui sembra essere saltato il patto di ferro nelle regioni del sud-est asiatico, un tempo "tigri" economiche a rimorchio del Giappone, con crescita annua addirittura a due cifre, la cui finzione di benessere si è svelata un bluff fondato sulle speculazioni edilizie, sulla corruzione bancaria, sull’opportunismo politico di parte praticato dai vari governi. Nella crisi che ha travolto il trentennale e passa regime di Suharto in Indonesia, o che ha scosso Giappone e Corea del sud, che ha spaccato la Malesia tra sostenitori del primo ministro Mohatir e sostenitore dell’ex vice-premier Anwar ora detenuto politico (ancorché accusato di reati comuni), quel che è certo è che a rimetterci sono le popolazioni: quei paesi "prosperavano" economicamente in cambio di un abbassamento delle soglie di cittadinanza, ossia delle libertà politiche e civili tipiche di ogni regime liberale e democratico. Ora che quello scambio si è interrotto, non solo restano gli effetti della crisi valutaria e del dissesto economico, ma quelle genti non godono di quelle libertà da praticare quando si invoca un cambiamento nelle leadership politiche.
Il 1998 è stato anche l’anno dell’attacco all’impunità dei dittatori. A prescindere se Pinochet vada o meno in galera, da oggi ogni ex-dittatore in pensione dovrà rassegnarsi a rinchiudersi da solo nella propria gabbia dorata di ex; qualunque gita fuori porta potrebbe spedirlo dritto in carcere, processato penalmente a posteriori rispetto ai crimini di cui si macchia ogni dittatore che si rispetti, ma soprattutto senza immunità simbolica di fronte a una istanza di giustizia internazionale e senza tempo di prescrizione, così come è giusto che sia per efferati reati di offesa dei diritti umani, sia pure rivolti contro la propria popolazione su di cui gli stati esercitano una sovranità non più assoluta, bensì delimitata da una coscienza mondiale vicina alle vittime di ogni dittatura e che invoca a gran voce una punizione, se si vuole, postuma, lungo la direttrice di una dissuasione preventiva per la quale è necessaria una forte mobilitazione dei popoli di tutto il mondo.
Inquadrata pertanto nei limiti di un’azione penale postuma, diventa simbolicamente importante la nascita del Tribunale Penale Internazionale permanente, deliberata a Roma lo scorso 17 luglio sotto l’egida delle Nazioni Unite, con sede all’Aja, e augurabilmente entrata in servizio all’alba del nuovo millennio. L’importanza consiste soprattutto nella sfida all’impunità dei poteri costituiti (o aspiranti tali) la cui difesa era ed è tutt’oggi affidata alla realpolitik: alla legittimità della forza di fatto che circonda di immunità giudiziaria i responsabili legali di ogni nefandezza solo perché "intronati", ossia seduti sul luogo della sovranità. Anche se postuma, la giustizia affidata al TPI potrà finalmente colpire dittatori e leaders sanguinari, magari non quando saranno ancora in carica, ma sfidandoli non appena imboccata la via della quiescenza. Non si tratta solo di braccare le coscienze - raramente tali personaggi responsabili di genocidi, atroci crimini di guerra, crimini contro l’umanità nelle loro innumerevoli fattispecie di azioni delittuose hanno un barlume di coscienza - bensì di inseguire i corpi non più potenti. Se ciò funzionerà senza guardare volti e passaporti a nessuno, in qualche caso sarà anche deterrente e qualche vita umana soggiogata ai voleri "capricciosi" di questi tristi figuri rivestiti di mostrine e smoking da capi di stato potrà essere salvata in tempo reale. Comunque, la giustizia farà il suo corso, smorzando ansie di vendette ma riconoscendo i diritti di chi non si piega pagando sine alle estreme conseguenze.

I precedenti

L’istituzione di un TPI permanente è la novità nel campo del diritto internazionale. Sino ad ora, infatti, in questo secolo, erano stati costituiti altri quattro Tribunali ad hoc, contingenti, estremamente mirati e circoscritti, e soprattutto smentendo il principio del giudice naturale precostituito anteriormente alla commissione del reato, poiché i Tribunali di Norimberga (1945), di Tokyo (1946), successivi al secondo conflitto mondiale, dell’Aja per i crimini commessi nella ex Jugoslavia dopo il 1991 (1993) e di Arusha in Tanzania per quelli genocidari commessi in Rwanda (1994), sono stati costituiti ex post facto. Addirittura i due precedenti di Norimberga e Tokyo sorsero per iniziativa dei vincitori di un conflitto bellico, chiamati a giudicare reati commessi dai vinti, mentre analoghi reati compiuti dai vincitori non vennero assolutamente presi in considerazione, inficiando di molto la legittimità di quelle alti corti e delle loro sentenze. E se il Tribunale di Norimberga contro i gerarchi nazisti ha sia pure in parte ricoperto le vesti di equità e terzietà (nei limiti già detti) grazie al decoro della condotta dei giudici facenti parte - il che spiega, ad ogni modo, come Norimberga sia un precedente da tenere in considerazione - il Tribunale di Tokyo contro l’élite bellicista giapponese sconfitta con le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki dell’agosto 1945 era addirittura presieduto dal generale Douglas McArthur, comandante in capo delle forze alleate nel teatro di guerra pacifico, il quale fece il bello e il cattivo tempo in questioni che tutto sommato dovrebbero essere di diritto, secondo le esigenze politiche (più che giuridiche) comminando pene e commutando sentenze in ragioni di opportunità specificamente politiche (di parte Usa relativamente all’egemonia sul Giappone e in Estremo Oriente all’indomani del secondo conflitto mondiale e dell’esordio della guerra fredda, a cui prese parte lo stesso generale McArthur allorché fu chiamato al comando delle truppe statunitensi nella guerra coreana della metà degli anni ‘50).
Gli esempi, attualmente esistenti, di tribunali internazionali - all’Aja per i crimini commessi nella ex Jugoslavia dal 1991 in poi, e ad Arusha, in Tanzania, per il genocidio dei tutsi ruandesi nel 1994 - sono stati costituiti ad hoc in base al capitolo VII della Carta dell’ONU (artt. 39-40-41-42), laddove si prevede la possibilità che il Consiglio di Sicurezza, tra le varie misure ipotetiche per ristabilire la pace o per riparare una violazione, istituisca un tribunale sotto la propria egida (art. 29 Carta ONU). E dopo una serie di risoluzioni transitorie lungo il biennio 1991-92, il 25-5-1993, nella sua 3217ma riunione, il C.d.S. adottava formalmente la R827 con la quale deliberava lo Statuto del Tribunale (che funge da modello anche per quello di Arusha).
Perseguendo responsabilità individuali (e non statuali o di corpi para-statuali) ad ogni livello - politico e militare, mandanti ed esecutori - lo Statuto prevede quattro tipologie di reato:

1) "Gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra del 1949" (art. 2), nella fattispecie: "a) l’omicidio volontario; b) la tortura o il trattamento inumano, compresi gli esperimenti biologici; c) l’inflizione volontaria di grandi sofferenze o gravi lesioni fisiche o mentali; d) la distruzione su vasta scala e l’appropriazione di beni, non giustificate da esigenze di ordine militare e compiute illegittimamente ed arbitrariamente; e) la costrizione di un prigioniero di guerra o un civile a prestare servizio nelle forze armate di una potenza ostile; f) la privazione deliberata del diritto di un prigioniero di guerra o di un civile a un equo e regolare processo; g) la deportazione o il trasferimento illegittimi ovvero la detenzione illegittima di un civile; h) la presa in ostaggio di civili".
2) "Violazione delle leggi e degli usi di guerra" (art. 3), nella fattispecie: "a) l’impiego di armi chimiche o di altre armi dirette a provocare sofferenze non necessarie; b) la distruzione immotivata di città, paesi o villaggi e la devastazione non giustificata da esigenze militari; c) l’attacco, o il bombardamento, con qualsiasi mezzo, di città, villaggi, abitazioni o edifici indifesi; d) l’occupazione, la distruzione o il danneggiamento intenzionale di istituti religiosi, di istituti di beneficenza e di istruzione, di istituti d’arte e delle scienze, di monumenti storici, di opere d’arte e di opere scientifiche; e) il saccheggio di proprietà pubbliche e private".
3) "Genocidio" (art. 4), nella fattispecie: "a) l’uccisione di membri del gruppo; b) l’inflizione di gravi danni fisici o mentali a membri del gruppo; c) l’imposizione deliberata al gruppo di condizioni di vita miranti a causarne in tutto o in parte la distruzione fisica; d) l’imposizione di misure aventi lo scopo di prevenire le nascite all’interno del gruppo; e) il trasferimento coattivo di bambini del gruppo in un altro gruppo".
4) "Crimini contro l’umanità" (art. 5), nella fattispecie: "a) omicidio; b) sterminio; c) riduzione in stato di schiavitù; d) deportazione; e) detenzione; f) tortura; g) stupro; h) persecuzione per motivi politici, razziali o religiosi; i) altri atti disumani".

Le fonti di diritto sono rintracciabili nella IV Convenzione dell’Aja del 18-10-1907, in particolare negli artt. 22 sino a 28 relativi agli usi di guerra con giusti mezzi; nello Statuto del Tribunale di Norimberga dell’8-8-1945, relativamente ai principi da I a VII sui crimini contro l’umanità - in cui la R827 ricomprende anche la pulizia etnica; nella Convenzione sul genocidio del 9-12-1945 relativamente agli artt. 2-3-4-9 che offrono una definizione di genocidio; nelle Convenzioni di Ginevra del 12-8-1949, e in particolare nell’art. 50 della I Convenzione e art. 51 della II Convenzione relativamente al trattamento di feriti, malati e naufraghi di corpi d’arma di terra e di mare, nell’art. 130 della III Convenzione sui prigionieri di guerra, nell’art. 147 della IV Convenzione sul trattamento dei civili in tempo di guerra, e, più in generale, nell’art. 3, comune alle quattro convenzioni, sul trattamento umanitario di militari e civili.
Lo Statuto del Tribunale dell’Aja prevede garanzie per gli imputati, tra cui il divieto di processo in assenza di imputato, protezioni per le vittime ed i testimoni - tra cui vale la pena sottolineare una delicatezza inusuale, almeno sulla carta, nei riguardi delle testimonianze di donne vittime di stupro, in special modo per la "prove" da raccogliere da parte del Tribunale e le eccezioni da eccepire nel corso del controinterrogatorio della difesa (ad esempio, non vengono assolutamente tenuti in alcun conto eventuali "stili di vita" antecedenti o "livelli di resistenza" alla violenza) - il raccordo tra diversi procedimenti in sede nazionale e internazionale per evitare duplicati, il divieto della pena di morte, l’indipendenza della corte giudicante e dei magistrati inquirenti da ogni condizionamento di parte (politica). Il modello è, insieme, accusatorio e inquisitorio, riflettendo le diverse civiltà giuridiche della comunità mondiale.
La necessità di ricorrere ad un tribunale ad hoc per tali crimini, e quindi a maggior ragione per una corte permanente, sorge non solo per la mutata morfologia della conflittualità, che oggi vede i civili bersagli militari non occasionali di strategie violente di parte (anche in vista di accaparrarsi audience a proprio favore nonché le risorse degli interventi umanitari) e per l’evanescenza dei tradizionali rituali militari delle regole di condotta degli eserciti ufficiali. Per la verità, per quanto riguarda tali crimini di guerra, secondo le Convenzioni di Ginevra qualunque ordinamento di stato può ergersi a istanza giudicante, anche se tale pregevole previsione si scontra con le esigenze di realpolitik che muovono le pedine della diplomazia interstatale, piuttosto che gli strumenti di giustizia quale è un tribunale. (...)

Le poste in palio

Questo Statuto è stato approvato alla fine della Conferenza di Roma dell’estate scorsa (15-6/17-7) da 120 delegati plenipotenziari, con 21 astensioni e 7 voti contrari (Cina, Iraq, Israele, Libia, Qatar, Usa e Yemen). Si tratta con tutta evidenza di un punto di compromesso tra quei paesi (una cinquantina, tra cui Canada, Australia, Filippine, Brasile, Argentina, Sudafrica, Cile e Unione Europea) che volevano forti prerogative per il TPI, ed altri che miravano ad un più basso profilo, specie per quanto riguardava le competenze penali, le funzioni, ed il loro raggio di estensione, del Procuratore, il ruolo primario del C.d.S. dell’ONU (tra questi paesi, annoveriamo Usa, Russia, Cina, Iraq, Nigeria, Indonesia, Siria ed Egitto).
Volendo sottolineare le peculiarità (in positivo e in negativo) introdotte, rispetto agli standard delle norme internazionali, i reati considerati non coprono né l’uso di armamenti nucleari, né l’uso di mine anti - uomo tra i crimini di guerra, mentre tra i crimini contro l’umanità è previsto il rapimento sistematico e diffuso degli oppositori politici (il caso dei desaparecidos latino-americani, ad esempio, ma non sparizioni selettive e isolate), varie tipologie di violenze continuate contro le donne, tra cui gli stupri come arma di guerra, la prostituzione e la sterilizzazione imposte, le gravidanze forzate (nonostante l’opposizione di quei paesi che temono una surrettizia legalizzazione dell’aborto). Anche l’apartheid rientra tra i crimini punibili dal TPI, proprio grazie al lavoro di persuasione della delegazione sudafricana.
L’impunità di singoli individui che commettono gravi crimini (massacri di civili inermi, uso di armi proibite, ecc.) è prevista per conflitti di natura internazionale, senza considerare tuttavia come tali medesimi atti siano spesso compiuti in conflitti di natura interna (guerre civili, processi secessionistici violenti, guerriglie contrapposte in assenza di autorità centrale come nel caso somalo, ecc.). Il limite dei 18 anni per perseguire penalmente i ragazzi che commettono gravi crimini non intende misconoscere le responsabilità della diffusa militarizzazione dell’infanzia. Tra i crimini di guerra è infatti previsto l’arruolamento o la coscrizione obbligatoria di ragazzi al di sotto di 15 anni (anche se non adibiti a compiti di prima linea, per così dire); tuttavia, la loro punibilità per i reati commessi scatta a 18 anni perché al di sotto di tale soglia si intende mirare alla riabilitazione piuttosto che alla punizione, e dall’altro chi è militarizzato lo è di norma perché sottoposto a intimidazioni e terrore senza reale possibilità di scelta. L’UNICEF ci rammenta che negli ultimi dieci anni sono morti inermi circa 2 milioni di bambini in situazioni belliche, 4-5 milioni sono rimasti feriti o mutilati, i senza casa sono 12 milioni e un milione sono orfani o con genitori comunque distanti, per non parlare degli effetti da trauma psicologico e da denutrizione per cause di guerra. Nel mondo, la stima dell’infanzia combattente è di circa 250mila "soldatini". Nel solo Ruanda, ci sono 4mila ragazzi detenuti perché imputati del genocidio dei tutsi del 1994, mentre la fazione guerrigliera Renamo in Mozambico aveva 10mila ragazzi tra le proprie fila, e in Liberia addirittura il 20% delle milizie era composto da minorenni, anche di 6 anni d’età.
Sempre sui crimini considerati, nel genocidio si escludono tra i gruppi colpiti quelli politici e sociali, mentre risulterà problematico, con tutta probabilità, dimostrare la prova dell’intenzionalità genocida. Lo Statuto prevede il rinvio ad una apposita conferenza internazionale ai fini dell’individuazione esatta del crimine di aggressione, senza dubbio al di fuori di un eventuale mandato del C.d.S. dell’ONU (l’ultimo tipico caso è il controverso bombardamento "pre-natalizio" degli anglo-americani sull’Iraq).
Infine, rispetto ai tradizionali parametri di diritto internazionale, si è ristretta la casistica di punibilità del soldato obbediente a determinati ordini (non prevista, ad esempio, dallo Statuto del Tribunale di Norimberga del 1945), così che su alcune tipologie di crimini di guerra non si avrebbe un colpevole esecutore, bensì al limite solo un mandante colpevole (i crimini di genocidio e contro l’umanità sono palesemente illeciti e quindi chi li compie è imputabile anche se è solo un esecutore che ha obbedito a ordini superiori).
L’istituzione di un TPI non vuol dire, come avviene per gli ordinamenti interni, la delega del potere giudiziario ad un apparato indipendente dalla politica. Proprio il rapporto con la sovranità statuale è il nodo cruciale del TPI, e non solo per l’ovvia considerazione che dovranno essere almeno 60 stati a ratificare con le proprie procedure costituzionali tale Statuto affinché il TPI possa avere giurisdizione su quei crimini individuati e poter quindi funzionare effettivamente.
L’indipendenza del Procuratore nell’esercizio dell’azione penale è stato un grande scoglio da superare, raggiungendo il compromesso su due profili: da un lato, l’opzione di uno stato di sottrarsi per sette anni a ogni eventuale imputazione di propri cittadini per quanto concerne i crimini di guerra, ossia tutelando politicamente i militari impegnati in guerre all’estero; dall’altro, consentendo al C.d.S. dell’ONU, ossia un organo prettamente politico, di sospendere per un anno, rinnovabile, ogni azione penale del Procuratore.
Anche sul piano dell’esistenza stessa del TPI a livello finanziario (una stima di 100 milioni di $ annui, ossia 1/10 dell’intero budget delle Nazioni Unite), si è raggiunto il compromesso di legarne la sorte sia agli stati membri che al sistema (politico) delle Nazioni Unite, ma non dell’elitario C.d.S., bensì dell’Assemblea Generale che ha competenza in materia di destinazione delle risorse finanziarie sui vari capitoli di bilancio.
Comunque, in ultima analisi, il grado di compromesso e le possibilità di recuperare almeno parzialmente alcuni paesi dissidenti o perplessi sono tuttora aperte di qui sino al 2000: almeno l’alba del XXI secolo (o del terzo millennio) potrà vedere uno strumento di tutela che, si auspica, sarà a difesa dei più deboli, e non a ulteriore presidio di un sistema politico planetario incentrato sui più forti. Il timore, infatti, non è solo che il TPI non riesca a essere dissuasivo perché l’asimmetria delle relazioni politiche internazionali prende il sopravvento sul sistema di diritto, quanto che il TPI venga attivato solo con un consenso mondiale affinché si punisca chi risulta già perdente sul piano politico, mentre è notorio che i crimini di cui si macchiano i potenti della terra vanno bloccati e puniti possibilmente in tempo reale, prima che diventino "impotenti" e subiscano la sorte di ogni sconfitto (come ci hanno appunto insegnato le vicende dei tribunali di Norimberga e di Tokyo). Ma sul complesso e delicato rapporto tra politica e diritto sul piano internazionale, sarà opportuno rinviare ad altre riflessioni, nella considerazione che la tutela dei diritti umani troverà effettive garanzie, anche al di fuori di ogni aula giudiziaria, quando politica e diritto entreranno in piena sintonia di intenti.

Salvo Vaccaro