Rivista Anarchica Online


4 mesi tra i Catholic Workers
di Bas Moreel

Un anarchico olandese trascorre l’estate ’98 negli Stati Uniti tra i "lavoratori cattolici". Un’esperienza decisamente originale, che apre uno squarcio su uno dei tanti spezzoni dell’anarchismo nordamericano.

Ho trascorso l’estate 1998 negli Stati Uniti insieme ai Catholic Workers ("Operai Cattolici", N.d.T.). Avevo avuto occasione di conoscere questo movimento negli anni Settanta attraverso il giornale pubblicato dalla loro casa di accoglienza di New York, esposto alla biblioteca anarchica internazionale CIRA di Losanna, in Svizzera.
Ad attirare il mio interesse erano state le caratteristiche anarchiche della loro struttura e della loro politica: indipendenza dalle istituzioni statali ed ecclesiastiche e indipendenza reciproca: non sono registrati, non sono riconosciuti (come è invece il caso, per esempio, delle istituzioni caritatevoli, e dunque non godono di alcuna esenzione fiscale né di sostegno economico da parte della diocesi), non hanno organi né pubblicazioni centrali. L’iniziatrice del movimento, Dorothy Day, che aprì la prima casa di accoglienza per senzatetto nel 1933, e alcuni dei suoi seguaci aderirono alla chiesa ufficiale in materia di dottrina religiosa ma non per quanto atteneva alle questioni sociali (addirittura una volta sostennero uno sciopero contro l’arcidiocesi di New York); oggi, tuttavia, diversi Catholic Workers hanno posizioni dissidenti rispetto alla fede romana cattolica o non sono cattolici o non sono affatto credenti. Ciò che rimane di cattolico e che costituisce una caratteristica essenziale nel movimento dei Catholic Workers è il loro impegno verso "i poveri", come ancora li chiamano, in modo spaventosamente romantico, i giornali e le newsletters di diverse loro case di accoglienza. Dorothy Day scelse di designare il movimento come "cattolico" come monito alla Chiesa Romana Cattolica dei suoi doveri sociali nei confronti dei poveri. Il suo vescovo non ne fu affatto contento e dichiarò che per potersi chiamare "cattolici" era necessaria l’autorizzazione delle autorità ecclesiastiche. Dorothy avrebbe potuto replicare che la sua casa non era un’organizzazione che aveva bisogno di venir approvata ma una casa a dimensione familiare, ed è a questa caratteristica che il movimento dei Catholic Workers ha fin da allora cercato di mantenersi fedele, affinché i loro ospiti si sentano veramente come "a casa".
Se da un lato mi ero recato negli Stati Uniti per poter osservare con i miei occhi il carattere anarchico del movimento dei Catholi Workers, alla riprova dei fatti sono stato totalmente conquistato dalla loro idea. Il loro preoccuparsi concretamente del benessere quotidiano degli altri era qualcosa che sentivo mancare nel movimento anarchico, perlomeno come parte integrante del pensiero anarchico. Vi sono sicuramente degli anarchici che aiutano gli altri (non solo altri anarchici ma chiunque, perfino gli avversari o i nemici, i fascisti per esempio, ooooh!), ma questa per gli anarchici non è una regola, non esiste alcun capitolo in materia nelle teoria anarchica conosciuta. Il tipico anarchico è o vuol essere o si atteggia a una persona forte e indipendente. L’ideale anarchico è una società di eguali, forti e indipendenti: nessuno schiavo, nessun padrone. È questo che spiega perché il movimento anarchico è così insignificante sul piano numerico: non c’è niente da guadagnarci, cosa di cui gli anarchici vanno spesso orgogliosi: nessun compromesso, nessun tentativo di comprarsi i sostenitori come si dice facciano, per esempio, i socialdemocratici, almeno nel passato. Ma offrire doni senza secondi fini e liberi da qualunque etichetta può essere una semplice dimostrazione di solidarietà (non è vero?) e può favorire la fiducia reciproca tra le persone in generale, e questa fiducia costituisce una base ben più solida per una società unita e solidale (l’ideale fondamentale comune ai movimenti che auspicano una società migliore) rispetto a un insieme di individui forti che misurano le persone in ragione delle loro qualità e del loro contributo anziché considerarle semplicemente come persone con dei bisogni (di comprensione, di sicurezza materiale ed emotiva, ecc.).

 

Cosa c’è di cattolico

La prima conferma che ho ricevuto dell’indipendenza del movimento dalla Chiesa Romana Cattolica è stata l’assenza delle almeno sei case di accoglienza (d’ora in poi semplicemente: case, N.d.T.) gestite dai Catholic Workers a Cleveland, nell’Ohio, dall’albo delle istituti di beneficenza della diocesi cattolica di Cleveland. La seconda conferma l’ho ricevuta a Des Moines, nell’Iowa, quando ho sentito affermare a un membro della locale comunità dei Catholic Workers di non aver mai sentito parlare del movimento prima di giungere a Des Moines come volontaria inserita in un progetto dei Gesuiti (niente di meno).
A Des Moines quasi tutti gli otto membri della comunità sembravano essere cattolici, a giudicare dalla presenza alla messa settimanale. A Denver c’era una sola cattolica praticante, una suora delle Sorelle di Loreto, mentre gli altri tre membri della comunità erano stati cattolici nel passato e non partecipavano alle funzioni religiose settimanali (che a seconda delle iniziative potevano essere funzioni cattoliche, buddiste o altro). La messa veniva celebrata in un modo assolutamente informale, a Denver come a Des Moines, a mio parere in modo più vicino all’atmosfera dell’Ultima Cena di quanto avvenga solitamente nelle chiese. In entrambe le case il solo obbligo di natura religiosa imposto ai presenti era di rispettare un breve silenzio prima di cenare insieme. A Des Moines i partecipanti alla cena giungevano le mani mentre uno degli "operai" (chiamerò così i membri delle comunità che vivevano nelle case di accoglienza) chiedeva se qualcuno dei presenti voleva recitare una preghiera. Ciò a volte capitava, altrimenti l’operaio chiedeva di restare brevemente in silenzio. A Des Moines partecipavano alla messa settimanale la maggior parte degli operai, pochissimi (quasi nessuno) degli ospiti abituali (i beneficiari, diciamo così) e diversi amici della comunità esterni alla casa. L’unica volta che ho partecipato alla messa a Denver (per fare delle fotografie), i soli partecipanti erano due amici esterni alla casa. Per quanto ne so, nessuno dei dieci diversi ospiti della casa di Denver ha mai partecipato ad alcuna funzione religiosa lì tenutasi. Credo che nessuno degli ospiti fosse cattolico, a eccezione, forse, di una coppia messicana che è arrivata poco prima della mia partenza.

La povertà dei Catholic Workers

Nelle pubblicazioni dei Catholic Workers si trova spesso menzionata la loro vita in relativa povertà. Forse perché sono troppo abituato e felice del mio stile di vita relativamente semplice, l’espressione "povertà", perfino "povertà relativa", mi sembrava piuttosto esagerata per ciò che ho potuto vedere a Des Moines e a Denver - dove, tra l’altro, non ho mai sentito usare questa espressione per descrivere le loro condizioni. Il cibo non mancava mai. A Des Moines ho addirittura domandato se non fosse il caso di chiedere al panettiere di portare meno pane la domenica, visto che dovevamo spesso gettarne via perché alla fine della settimana era ormai diventato verde. Mi è stato risposto che eravamo l’ultimo indirizzo cui il panettiere recapitava pane e dolci gratis e che, se non l’avessimo gettato via noi, l’avrebbe fatto lo stesso fornaio perché non sapeva che farsene. Ciò che mi è sembrato potenzialmente un limite per i Catholic Workers è il loro dipendere dalle donazioni che la casa riceve e quindi di avere relativamente poca scelta. A volte avrei desiderato una scopa o un aspirapolvere più efficienti, ma non si potevano chiedere i soldi necessari a comprarli. Bisognava aspettare che venissero regalati. Tutte le case, a mia conoscenza, vivono di donazioni. Alcune, come le case di Des Moines e di Amsterdam, in fondo al loro giornale o alla loro newsletter pubblicano un elenco delle cose di cui possono aver bisogno. La comunità di Denver poteva fornirsi regolarmente delle cose necessarie alla casa grazie a quello che gli abitanti della città regalavano alla bottega di beneficenza gestito dalla stessa comunità. La loro newsletter non esce di frequente, di tanto in tanto fanno qualche appello di ordine generale alla popolazione chiedendo cose per la loro bottega, mobili innanzitutto, ma insieme ai mobili sono arrivati anche indumenti e casalinghi.

A Des Moines

Des Moines era stata un tempo una casa di accoglienza, ovvero dava alloggio a senzatetto, ma quando vi sono arrivato non lo era ormai più. La comunità era composta di otto persone le cui attività principali si svolgevano al di fuori della casa. Ciò che facevano come Catholic Workers era di tenere aperta la casa cinque pomeriggi la settimana, che si concludevano con una cena a cui poteva partecipare ogni esterno che lo desiderasse. Non c’era alcun controllo delle condizioni economiche dei partecipanti: si poteva entrare, prendere un piatto, essere serviti senza che venisse chiesto niente e ci si poteva sedere a uno dei tavoli o in una delle poltrone nella sala da pranzo - salotto. Nelle ore pomeridiane in cui la casa rimaneva aperta non veniva offerto alcunché: ci si poteva accomodare o stendere su una delle sedie o panche o divani. Se in cucina c’era del caffè si poteva prenderlo, ma non veniva preparato del caffè apposta per gli ospiti. Uno degli operai era sempre presente per tenere d’occhio la situazione, nel caso in cui qualcuno dei poveri diventasse un po’ aggressivo o gli venisse voglia di dare un’occhiata nelle stanze degli operai al piano di sopra - non necessariamente i Catholic Workers non sono attaccati alle loro cose.
In questi cinque giorni la cena per tutti arrivava sempre già pronta e calda, portata da vari amici della comunità esterni alla casa. Gli operai preparavano e consumavano gli altri pasti individualmente.
Durante la bella stagione il venerdì venivano distribuite gratuitamente frutta e verdura, di cui un grossista regalava sempre un camioncino pieno. Mi è stato detto che, per via del freddo, durante l’inverno era impossibile organizzare quella distribuzione fuori dalla casa. Alcuni dei beneficiari arrivavano in bellissime macchine o furgoni scintillanti, il che dà ragione alla gente di destra quando afferma che molti tra quanti dichiarano di essere poveri non lo sono affatto, ma sono solo profittatori e parassiti. Gli ingenui Catholic Workers non si preoccupano di verificare, ma pensano che non si può mangiare un’automobile e che senza un’automobile non si può andare a lavorare in un’America motorizzata in cui i trasporti pubblici sono carenti, che le persone in questione possono aver perso un lavoro che permetteva loro di possedere una bella auto o essere finite nei guai perché, pur non potendo permettersi un’assicurazione sanitaria, si sono ammalate o hanno avuto un incidente, o che il loro lavoro non è sufficiente a pagarsi da vivere (in questo paese delle meraviglie, dove si può venir assunti e licenziati a seconda di come fluttua l’economia, il salario minimo è di 5 dollari l’ora, con un valore d’acquisto locale del dollaro pari, per fare un esempio, a quello del fiorino olandese - che vale 50 centesimi di dollaro - nei Paesi Bassi, dove il salario orario minimo è di oltre 10 fiorini).
Tutte le domeniche mattina la casa riceveva in regalo da un fornaio un furgone pieno di pane e di dolci rimasti invenduti e nel pomeriggio i visitatori potevano servirsene a volontà. Dunque, può esser vero che ci siano voluti due secoli perché venisse seguito il consiglio della regina Maria Antonietta "Dategli le brioches" e, forse, soltanto a Des Moines nello Iowa, ma ovviamente non era così campato per aria come alcuni hanno tentato di farci credere. Ad ogni buon conto, non ha avuto l’effetto di tener sottomesso il popolo, come la regina avrebbe sperato, ma d’altra parte non si è nemmeno verificato che la mancanza di mezzi di sussistenza generasse rivoluzionari, come tuttora credono alcuni strateghi rivoluzionari.
Nella casa vi era un’interessante biblioteca, dove si trovavano tanto le consuete letture di genere spirituale quanto molte pubblicazioni di orientamento critico (critiche del governo e della chiesa), per lo più donate da un membro della comunità di nome Frank Cordaro, un prete che probabilmente ora è in carcere per aver preso a martellate e imbrattato di sangue un bombardiere americano a un’esposizione aeronautica lo scorso maggio, aiutato da un altro prete, da due suore e da una nonna.
Tra le pubblicazioni di impostazione critica possedute dalla biblioteca figura il National Catholic Reporter, giudicato giornalismo - spazzatura da quanti non gradiscono leggere di scandali e disaccordi nella loro chiesa. A quanti piacciono questo genere di storie il NCR offre materiale molto migliore di quello che si può ricavare dalle esistenti pubblicazioni anticlericali e di liberi pensatori, che si basano su fonti e opinioni risalenti al XIX secolo. Il NCR, oltretutto, non è stupido e prima di pubblicare un servizio verifica le notizie.

A Denver

Denver era una realtà completamente diversa da quella di Des Moines. Vi erano solo quattro operai, era una casa di accoglienza con sei stanze per gli ospiti e, con l’aiuto di volontari esterni e di uno staff esterno retribuito, la comunità gestiva una bottega di generi d’occasione e di beneficenza che offriva al vicinato la possibilità di acquistare mobili o casalinghi a poco prezzo, oltre a indumenti donati dagli abitanti di Denver e della periferia.
Delle sei stanze per gli ospiti, due erano destinate a donne sole, due a uomini soli, una a una coppia e una a una famiglia. Ottenere una stanza era una specie di lotteria. Quando si liberava una stanza, il primo che telefonava veniva invitato a un colloquio. Non venivano chiesti né documenti né referenze, la persona della comunità che faceva le domande cercava di valutare dalle parole e dall’atteggiamento del candidato i suoi reali bisogni e la sua affidabilità, in un colloquio che in realtà non riusciva a dimostrare un granché, al termine del quale nella maggior parte dei casi alla persona in questione venivano mostrata la stanza libera e presentati gli operai e gli altri ospiti della casa.
Gli operai sapevano di correre un rischio con una selezione così superficiale, ma ritenevano fosse più importante che gli ospiti si sentissero accolti come in famiglia.
Nella casa vi era un evento fisso: la cena quotidiana preparata da uno degli operai, alla quale ci si aspettava partecipassero, se possibile, tutti gli operai e gli ospiti. Alcune cose non erano tollerate: le armi, l’alcol (un ospite che rientrasse ubriaco per la seconda volta perdeva la stanza, così come un ospite che per due notti non tornasse a dormire senza una valida ragione) e un linguaggio maleducato e offensivo. Nella casa non era consentito fumare, i fumatori dovevano uscire - non mi risulta che nel periodo in cui vi ho abitato alcun ospite abbia infranto questa regola. Può sorprendere che vi fosse un’esplicita proibizione delle armi, ma negli Stati Uniti ai cittadini è consentito portare armi addosso e vivendo tra persone non molto benestanti qualcuno potrebbe sentirsi più sicuro avendo un’arma.
Nessuno degli ospiti che ho visto nei due mesi trascorsi a Denver aveva a che vedere con l’idea - tipo che mi ero fatta del senzatetto. Avrebbero tutti potuto essere colleghi con cui solo qualche giorno prima avevo lavorato in qualche ufficio o fabbrica. Qualche persona dall’aspetto più simile al tipico senzatetto, come quelli che si vedono ogni giorno nel giardinetto a meno di 200 metri da casa, bussava talvolta alla porta per chiedere abiti o cibo, ma non mi risulta che avessero mai fatto domanda di una stanza. Se fosse per puro caso che nessuno tra loro chiamasse mai nel momento in cui si liberava una stanza o se, invece, quel genere di persone non avrebbe mai chiamato, non ho mai cercato di scoprirlo. Era comunque indubbio che conoscessero la casa.
L’idea della casa era di offrire un alloggio temporaneo a persone che si trovavano temporaneamente in difficoltà. Agli ospiti non veniva mai detto che si potevano fermare quanto a lungo volevano. Veniva loro chiesto di quanto tempo avessero bisogno per risparmiare il denaro sufficiente ad affittare una stanza o un appartamento. Gli ospiti non dovevano pagare nulla: le stanze con coperte e biancheria e le cene erano gratis e tutti potevano servirsi liberamente in cucina dell’occorrente per la colazione e il pranzo o per uno spuntino. C’era anche una lavatrice che potevano usare gratuitamente. Fino a quando ricevevano la prima paga - se arrivavano lì senza lavoro - agli ospiti venivano dati anche dei biglietti per i mezzi pubblici per potersi recare al lavoro o, per esempio, all’ospedale. Potevano così mettere da parte tutto quello che guadagnavano per pagarsi le prime quote di un affitto.

 

Come una goccia nell’oceano

Negli Stati Uniti dar da mangiare agli affamati e dare riparo ai senzatetto sembra essere diventata una specie di industria. Gli affamati e i senzatetto di Des Moines e di Denver non dipendevano dalle case dei Catholic Workers per il cibo e l’alloggio. A Des Moines gli ospiti erano molto più numerosi nei weekend che durante la settimana perché durante i weekend la mensa per i poveri del vicino centro battista era chiusa. A Denver esistevano alcuni dormitori relativamente grandi, per lo più per uomini soli, e posti dove venivano distribuiti gratuitamente cibo o pasti. I Catholic Workers non pretendono di offrire una soluzione al problema della casa o della fame, ma vogliono dare un esempio di umanità.

Pratiche anarchiche

Tanto a Des Moines quanto a Denver ero considerato un membro a pieno titolo della comunità, sebbene io fossi arrivato da poco e per rimanervi a lavorare soltanto temporaneamente. Si potrebbe pensare che la mia opinione venisse apprezzata in ragione dei miei capelli grigi e del mio aspetto che ha qualcosa del vecchio professore o dello studioso. Ma a Des Moines come a Denver c’erano anche dei giovani (tra i 18 e i 22 anni), che per un certo periodo prestavano servizio come "operai", le cui opinioni avevano lo stesso peso e venivano richieste allo stesso titolo di quelle degli operai più anziani o che erano lì da più tempo. A Denver la suora sembrava talvolta un filino autoritaria, ma - fuori dall’utopia - è normale che di tanto in tanto capitino casi del genere. Per di più, la suora in questione era la sola persona della casa che avesse continuato ad occuparsene fin dagli inizi vent’anni prima e sarebbe ben presto rimasta la sola "operaia" del gruppo che ho conosciuto mentre mi trovavo lì. [...]

Anarchici compassionevoli?

Forse a causa delle politiche di stampo repubblicano intraprese dal governo degli Stati Uniti (salari minimi, welfare e servizi sociali sotto il livello di sussistenza), alcuni anarchici americani hanno cominciato a imitare in parte l’esempio Soup-Soap-Salvation [una specie di gioco di parole - "Soccorso Zuppa e Sapone" - a significare che si tratta di organizzazioni assistenziali, che offrono cibo e/o altro, come per esempio la possibilità di lavarsi N.d.T.] di organizzazioni come l’Esercito della Salvezza e gestiscono delle mense per poveri con lo slogan "Cibo non Bombe" (come ha detto mio cugino naturalizzato americano: perché questo slogan? non possono dar da mangiare alla gente senza fare la morale?). Ovviamente hanno meno risorse e persone su cui fare affidamento rispetto alle organizzazioni che operano con una qualche etichetta religiosa, visto che sia a Denver che a Detroit si limitavano a offrire un pasto a settimana, contro i pasti quasi giornalieri offerti dai centri sotto bandiere religiose. Ciononostante, la loro iniziativa rappresenta una svolta significativa rispetto alla prassi consueta agli anarchici, la quale si limita, in sostanza, a dire alla gente cosa deve fare e come sarebbe bella la società se....
In un articolo intitolato "Il Tao dell’Anarchia", nuovamente pubblicato nel numero dell’estate 1998 dal Fifth Estate di Detroit, l’anarchico americano John Clark discute il carattere anarchico del pensiero di Lao Tze ed esamina lo spazio che vi occupa la compassione. Purtroppo è un articolo un po’ astratto e difficile da leggere. Il pensiero e le pratiche dei Catholic Workers sono più facili da seguire. Coloro tra i Catholic Workers che hanno una qualche inclinazione teorica spesso amano definire il loro -ismo "personalismo", ponendo in tal modo l’accento sulla responsabilità personale nel far realizzare o nell’impedire le cose. Un tale personalismo è in piena sintonia col pensiero anarchico. Il francese Emmanuel Mounier era famoso per i suoi scritti sul personalismo ma le sue opere pongono gli stessi problemi dell’articolo di John Clark sul Tao dell’Anarchia. Peter Maurin, l’ispiratore dei Catholic Workers, è stato su questo tema un miglior insegnante, anche se spesso un po’ semplicistico, come per esempio nei suoi Easy Writings [Scritti semplici], tuttora regolarmente riproposti nei giornali dei Catholic Workers.

P.S. Se in questo testo ho evidenziato quelle che io considero essere alcune delle carenze riscontrabili in certi anarchici e nello stesso anarchismo, per come spesso viene presentato, ciò non significa che io rifiuti le idee anarchiche e, men che meno, che io intenda negare quanto siano state importanti per la mia personale liberazione quelle idee che vengono generalmente considerate anarchiche. Semplicemente sento che coloro che si definiscono anarchici dovrebbero avere una mentalità aperta ed essere preparati ad ascoltare persone che definiscono se stesse in modi diversi o che non aderiscono a nessuna definizione, per ciò che hanno queste persone e che manca agli anarchici e per le cose che essi hanno in comune, nonché essere preparati a mettere in discussione le loro verità.

Bas Moreel
(traduzione dall’inglese
di Anna Spadolini)

in carcere con Dorothy Day

Nel 1955, l’anno a cui si riferisce il brano che segue, Judith Malina aveva fondato da otto anni insieme a Julian Beck il Living Theatre a New York, e da un anno aveva aperto il piccolo spazio del Loft Theater in One Hundredth St., dove stavano provando Phèdre. Nello stesso periodo fu Jackson Mc Low interprete di Teramene in Phèdre), attore e poeta anarchico che già aveva introdotto Julian Beck e Judith Malina nel gruppo anarchico Resistance, ad avvicinarli alle iniziative pacifiste dei War Resisters e del Catholic Worker. Fu seguendo Jackson Mc Low che Judith Malina partecipò nel giugno 1955, presso il City Hall Park di New York, a una dimostrazione pacifista contro le esercitazioni in caso di incursione aerea, che consisteva nel rifiutare di "mettersi in salvo" al suono delle sirene. In questa occasione Judith Malina conobbe Dorothy Day, con la quale fu arrestata e incarcerata una prima volta (un più lungo periodo di detenzione, sempre per un episodio di "disobbedienza civile", l’avrebbe trascorso con Dorothy Day due anni più tardi). "Santa Dorothy delle Strade" la chiama Judith in una poesia; e Julian scrive di lei che fu accusata di tradire la causa dei poveri quando rifiutò di ricevere finanziamenti dalla Fondazione Ford perché quel denaro era sporco. Con Dorothy Day e con il Catholic Worker Julian Beck e Judith Malina strinsero un’intensa collaborazione per iniziative pacifiste, e in particolare promossero uno Sciopero Generale per la Pace nel 1961 che Judith continua a ricordare come uno dei progetti più importanti della sua vita. Judith Malina ricorda Dorothy Day nei suoi Diari e nel volume di Conversazioni da cui è tratto il brano che segue come una delle persone che maggiormente hanno contato nella sua vita.

C.V.

 

Al mio primo arresto ebbi il grande privilegio di essere messa in cella con questa grande donna. Dorothy Day aveva fondato il Catholic Worker molti anni prima e viveva una vita di povertà volontaria fra i più poveri dei poveri.

Dorothy si definiva anarchica?

Sì, assolutamente anarchica, e una buona anarchica anche. Il concetto di anarchismo cattolico ovviamente è inconcepibile per molti, perché implica una contraddizione fra obbedienza e disobbedienza. Dorothy praticava la disobbedienza civile in nome del cattolicesimo. A quei tempi a New York c’era un arcivescovo molto rigido e intollerante e, a quanti le chiedevano se pregasse per lui, Dorothy rispondeva: "Sì, prego per lui perché non ha posto ostacoli al Catholic Worker, che ha l’imprimatur della Chiesa, e prego perché non voglia ostacolarci in futuro". I cattolici trovarono molto di che discutere con lei circa il suo modo anarchico di accettare l’autorità della Chiesa. Il suo lavoro di carità era molto conosciuto. Una volta le ho chiesto: "Fra quelli che vivono nella casa di accoglienza quanti sono del Catholic Worker e quanti i senzatetto?" e lei ha risposto: "Non ho notato la differenza". Dorothy si rifiutava di fare distinzioni fra i poveri, gli ubriaconi, i miserabili e i disoccupati che arrivavano per un piatto di minestra e la gente che la minestra la cucinava; d’altra parte accadeva spesso che chi arrivava facesse anche la minestra, così, in effetti, non si potevano fare grandi differenze.

Com’era la vostra vita in carcere, quale fu il vostro rapporto con le detenute?

La Women’s House of Detention era una prigione che sorgeva proprio nel mezzo del Greenwich Village, il quartiere più vivace e artistico di New York […]. Era un carcere molto sovraffollato nel periodo in cui eravamo dentro noi: poteva contenere circa 400 donne e ce n’erano 900. Io ero in una cella in cui c’era un letto e un piccolo materassino che veniva estratto da sotto il letto, dopo di che non ci si poteva nemmeno camminare attorno.
E delle 900 donne là dentro credo che 800 fossero prostitute e 700 tossicodipendenti. […] E lì ho visto Dorothy incontrare queste persone senza speranza in un modo così incredibile, semplice e diretto, che mi ha fatto imparare moltissimo della vita, del sistema delle classi, dei nostri obblighi gli uni verso gli altri, e di me stessa.
E questa popolazione carceraria mi ha spinto a nutrire una speranza concreta nelle possibilità dell’anarchismo. Quando si toccano questi argomenti ci si sente sempre chiedere: "Cosa avresti intenzione di fare con le persone realmente cattive?". Il fatto è che non lo sono: non lo erano neanche quelle che stavano scontando crimini orrendi, come la giovane donna che ci ha sfidato una volta - eravamo nella nostra cella, durante l’ora di attività, quando le celle sono aperte ed è consentito parlare con le detenute del proprio corridoio, e tutte venivano a parlare con Dorothy perché era meraviglioso parlare con lei - e questa donna disse: "Senti, io ho ucciso cinque persone, cosa vorresti fare con gente come me?". E Dorothy seppe rispondere in un modo che le disarmò tutte, compresa la donna che aveva ucciso cinque persone. Dorothy disse: "Come è stato che hai ucciso tante persone? Cosa è successo? Raccontaci la tua storia".
Dorothy mi rimproverava spesso. Mi diceva: "Judith, non devi pensare di poter risolvere i problemi di tutti, puoi desiderarlo, ma è una cosa senza speranza". E questo era oggetto di discussioni continue fra di noi. Io sentivo di doverci provare e lei diceva: "No, ognuno deve risolvere i propri problemi". Ma io non mi rassegnavo: "Voglio porre le condizioni perché tutti risolvano i loro problemi". "Perché credi di poterlo fare?". "Risolverò i problemi di tutti". Un altro motivo di discussione frequente fra di noi riguardava l’inferno. Ho scritto una poesia su questo, credo che tu la conosca, sul fatto che l’inferno deve essere vuoto se è vero che Dio è tutto misericordia [Whose Mercy Endures Forever, poesia dedicata a Paul Goodman e Dorothy Day, in J. Malina, Poems of a wandering Jewess, Paris, Handshake Editions, 1982, pp. 22-23. N.d.R.]. Discutevamo di queste contraddizioni, della contraddizione fra il bene e il male nel cuore umano e nella società, del nostro desiderio di cambiare il mondo e noi stessi e del fatto che invece dovevamo aspettare il momento in cui saremmo state in grado di raccogliere le forze necessarie per farlo.
Dalle pagine del tuo diario emerge un’immagine molto bella: la giovane Judith osserva la canuta Dorothy, l’ascolta, vede come si comporta e prende nota di tutto. Nei lunghi tempi del carcere anche l’attenzione sembra dilatarsi, insieme alla disponibilità a capire, ad osservare. E l’insegnamento di Dorothy non è mai dichiarato, ma prende forma nel corso dell’esperienza, pian piano, di pari passo col dispiegarsi di quella.

La cosa più importante che ho imparato da Dorothy in quella situazione è che è possibile, per chi è anarchico e pacifista, occuparsi delle persone in modo completamente differente, avere con loro un tipo di relazione umana, anche all’interno di un carcere pieno di violenza. Nei miei Diari ci sono molte storie di violenza. C’era un enorme serbatoio di rabbia, di collera e di odio là dentro; e la nostra presenza era quella di un piccolo gruppo che introduceva un altro tono e un altro livello di dialogo in una situazione in cui tutto ciò sembrava assolutamente incomprensibile. E voglio ricordare almeno un’altra donna, Deane Mowrer, un’anarchica che era stata arrestata con noi e che pure esercitò su di me un’influenza meravigliosa. Anche la nostra relazione con le guardie fu interessante... Il carcere è un microcosmo incredibile, dove le guardie sono chiaramente la classe degli oppressori e il rapporto con loro è insieme di odio e dipendenza: le temiamo, ci arrabbiamo, e nello stesso tempo dipendiamo da loro, in una forma che non è altrettanto evidente nella società esterna. E Dorothy mostrava alle detenute un modo diverso di rapportarsi col potere dell’autorità: mostrando resistenza ma senza un atteggiamento di odio, sapendo opporre il proprio "no" senza rabbia, ma con la fermezza delle proprie posizioni nei confronti di un altro essere umano. Questa è stata certamente una delle lezioni anarchiche che ho appreso da lei. Un’altra è stata quella del mutuo appoggio fra detenuti. […] Io credo che le persone, quando sono costrette a subire dolorose forme di violenza, rispondano aiutandosi reciprocamente, in quel modo che noi anarchici consideriamo naturale. E con la guida di una persona come Dorothy, che conosceva assai bene i princìpi base dell’anarchismo classico, queste forme di reciproca solidarietà si ampliarono, senza bisogno che noi parlassimo di anarchismo: parlavamo di come vivere nel mondo, parlavamo soprattutto delle loro sofferenze, perché queste erano le cose di cui si doveva parlare.
In quel carcere Dorothy ci ha fatto capire come sia possibile ottenere grandi risultati, a livello pratico e a livello ideale, a partire da una qualità diversa dei rapporti fra le persone.

[…] È persino paradossale che due persone che rappresentavano modelli femminili così differenti, come te e Dorothy Day, abbiano però trovato, nel profondo, delle affinità così grandi. Dorothy che, a un certo punto della sua vita, ha scelto la pratica della castità, e tu che hai sempre lottato per la liberazione sessuale e la realizzazione totale dell’individuo. Eppure entrambe avevate scelto di non sottomettere il vostro progetto di vita alle condizioni poste dal vostro sesso o alle convenzioni sociali o alle norme stabilite.

Abbiamo parlato molto di queste cose e, rispetto alla questione della liberazione sessuale, lei diceva che il problema non è quello che poi si va all’inferno, ma che si soffre, perché non funziona. Dorothy aveva molta esperienza di amore libero. Il problema era, secondo lei, che se si cerca il paradiso in terra si trova l’inferno; e su questo naturalmente non ero d’accordo con lei. Noi eravamo in una casa di detenzione con centinaia di donne che praticavano l’amore libero... non era amore libero, in effetti, ma fatto di dolore e sofferenza. […] E l’unica felicità che trovavano - erano in molte a dirlo - era quando venivano messe in cella con una donna che amavano e con la quale avevano una relazione omosessuale non più basata sulle orribili umiliazioni che vivevano fuori. Questo era il loro più grande desiderio e la loro consolazione reciproca.
Dorothy si interessava alla loro sofferenza senza esprimere un giudizio morale. Sul piano sessuale, riteneva che la castità fosse il miglior modo di vivere per chi non avesse un marito. Per quanto la riguardava, diceva che sarebbe forse stata più felice se avesse trovato un uomo da amare e con cui vivere una normale vita familiare. Ma anche se era a favore della castità non la predicava certo alle prostitute. Con loro parlava piuttosto di come trovare la forza per opporsi al potere dei loro magnaccia, perché era questo il loro problema: erano nelle mani di uomini che le maltrattavano e dei quali di solito erano innamorate. Questo amore per chi ti fa del male, questo desiderio masochistico di protezione era la cosa di cui parlava di più, perché aveva un’utilità pratica. Se solo fossero state in grado, una volta ritornate ciascuna alla propria vita, di guardare le cose e le persone in modo differente, comprendendo più chiaramente gli aspetti terribili dei loro rapporti, allora forse ci sarebbe stata qualche speranza che la loro sofferenza potesse per lo meno diminuire. Quello che Dorothy cercava di dar loro era una piccola forza morale, una forza interiore che le aiutasse a sopportare quelle condizioni di vita. E quando mi rimproverava perché cercavo di risolvere i loro problemi era perché non potevo riuscirci. Io volevo che smettessero di fare le prostitute, ma questo non era un consiglio pratico e probabilmente non era nemmeno alla portata della maggior parte di loro. Certo, noi parlavamo della possibilità di soluzioni alternative, dal punto di vista economico, personale e domestico. Ma d’altra parte la loro storia la conoscevamo: al momento di uscire dal carcere avrebbero ricevuto venticinque cents, qualcosa come poche migliaia di lire, e l’Esercito della Salvezza avrebbe dato un vestito nuovo a ciascuna. Un vestito nuovo e poche migliaia di lire: così se ne sarebbero andate a riprendere la vita che avevano lasciato. […]

Da: Cristina Valenti, Conversazioni con Judith Malina. L’arte, l’anarchia, il Living Theatre, Milano, Elèuthera, 1995, pp. 112-119.