Rivista Anarchica Online


Corpo di Stato
di Cristina Valenti


regia dello spettacolo di Maria Maglietta
prodotto dalla Casa degli Alfieri, di Asti.

Così si intitola lo spettacolo/racconto di Marco Baliani. Al centro, i 55 giorni del sequestro Moro.E le lacerazioni di chi si sentiva schiacciato dallo scontro stato/BR.

Di recente ho letto la storia delle Brigate Rosse di Mario Moretti, raccolta sotto forma di intervista da Carla Mosca e Rossana Rossanda. E ho visto lo spettacolo/racconto di Marco Baliani Corpo di stato, sui 55 giorni del sequestro Moro. Nel primo caso una ricostruzione che pretende di spiegare tutto (il leitmotiv di Moretti è implacabile: "non ci sono misteri, zone d’ombra… i magistrati sanno da tempo ogni cosa, per filo e per segno") e lascia invece coi dubbi di sempre, non risolvendo in particolare quell’enorme "perché?" che stringe l’intera vicenda del sequestro Moro fino al suo esito, e avvolge attorno a un nodo senza ritorno la storia di un’insurrezione giovanile nata gioiosa e finita col piombo. Nel secondo caso un racconto che non pretende di spiegare niente, limitandosi a far riemergere dal passato sequenze di fatti, volti, vicende personali, piccole storie, ripercussioni intime e conseguenze palesi, in un affresco non privo di lacerazioni, che spiega in realtà la sostanziale impossibilità di comprendere da parte di chi si è trovato scavalcato dalla contrapposizione fra stato e Br.
I racconti di Marco Baliani fanno sempre un po’ lo stesso effetto. Se ne esce con la voglia di continuare a raccontare. In questo caso l’impazienza e la necessità di sostituirsi al narratore, o di dialogare con lui attraverso le proprie storie, nasce prima: durante lo spettacolo. E’ una storia plurale quella a cui dà voce, e perciò sollecita e mobilita i ricordi di chi ascolta, così che il silenzio della platea sembra divenire a tratti rumoroso, ricolmo dei tanti pezzi di memoria che si levano come in un coro sommesso eppure incalzante, a caricare la narrazione di Baliani di un senso epico.
Non sembra di trovarsi di fronte a uno spettacolo, all’inizio. Il racconto prende gli spettatori per mano per riportarli al tempo in cui le vicende si sono svolte: di quei momenti ritrova i colori, le parole e i paesaggi, e li condensa in piccole storie folgoranti, che hanno da subito la vivezza della contemporaneità. La storia scorre come al presente, non c’è di mezzo il filtro della ricostruzione del passato, più o meno riscritto nelle aule dei tribunali, nelle pagine dei giornali, nelle tante biografie dei pentiti; non ci sono ripensamenti né rimozioni, nessuna distanza di sicurezza, e il rischio del racconto fa persino un po’ paura: saremo in grado, a distanza di vent’anni, di tornare a guardare?
Nello stesso giorno, il 9 maggio 1978, Aldo Moro viene ucciso a Roma dalle Br, e Giuseppe Impastato viene trovato morto accanto ai binari ferroviari di Cinisi, imbottito di tritolo dalla mafia, di cui quotidianamente denunciava per radio crimini, connivenze e interessi. Le due storie non si mantengono parallele né ugualmente presenti nel racconto, ma fra salti avanti e indietro nel tempo e continui spostamenti dell’obiettivo della memoria dalle piccole alla grande storia, si ridisegna - senza bisogno che sia troppo spiegato - il quadro che ha prodotto l’uno e l’altro omicidio, la "fede cieca che occorre per non sentirsi più umani", l’eterna piaga italiana dei depistaggi (per cui si è persino tentato di far credere che Impastato fosse un terrorista andato a mettere tritolo in quella linea ferroviaria), e il diverso modo in cui le vicende continuano a vivere nella memoria di un paese.
Corpo di stato racconta il movimento studentesco nato nel ’68, poi i primi anni ’70, le manifestazioni politiche pressoché quotidiane, le occupazioni all’Università, e quindi i primi scontri, la necessità di organizzare servizi d’ordine sempre più "militarizzati", la comparsa delle prime armi nei cortei, l’alzarsi del livello dello scontro, l’assemblea in cui si decide il "salto di qualità nella lotta": una storia collettiva, che tutti coloro che l’hanno vissuta potrebbero ripercorrere attraverso le stesse tappe seguendo ricordi personali. Baliani lo fa coi propri. E sono volti e vicende a cui non manca l’ironia, ma sempre sospesi (anche in termini teatrali) sulla tragedia di una storia più vasta che non concede scampo individuale, e conduce alla collettiva condanna al silenzio. I ricordi personali una volta risvegliati rievocano un turbinio di cose simili accadute a noi stessi, o a persone a noi vicine. E se non è andata così anche per noi è stato in buona parte per caso. Poteva capitare: bastava accettare un pacco in custodia, o accogliere in casa un amico, o essere fermati a un posto di blocco e quindi fare sventatamente un movimento sbagliato…
E parallelamente alle molte storie vissute comincia a sfilare la vicenda evocata, i 55 giorni del sequestro Moro. Che tutto il movimento ha vissuto senza viverli. Anche qui: grappoli di ricordi tutti uguali e tutti diversi. Quando abbiamo saputo del rapimento: quello che stavamo facendo in quel momento e i pensieri che abbiamo avuto, tutto fissato indelebilmente nella memoria. Una memoria che forse abbiamo voluto correggere negli anni a venire, o appena 55 giorni dopo, ma che Baliani ci consiglia di ripercorrere per quel che è stata: "Bisogna raccontarli tutti, quegli anni", dice, e ricorda che uno come lui, lontano dalle Br, che faceva teatro da quattro anni, che nutriva molti dubbi sul fatto che lotta armata e trasformazione rivoluzionaria potessero andare di pari passo, uno come lui provò in quel momento una specie di euforia, di eccitazione. E si sa che ci furono brindisi in certi consigli di fabbrica… Poi i pensieri successivi, perché proprio Moro? ("Inaugurava sempre la Fiera del Levante… più che simbolo del potere era simbolo della politica democristiana… con quelle frasi che giravano sempre su se stesse…"). E, alla pubblicazione delle prime foto, l’immagine di un prigioniero: "quella faccia mi visitava, come se dovessi farmene carico". E intanto Almirante e La Malfa invocavano la pena di morte, il Manifesto parlava di un "disegno criminale coperto dallo stato" e L’Unità scriveva che occorreva fare terra bruciata attorno ai terroristi… Cosa c’era da bruciare? Si chiede Baliani. Il movimento, risponde. E tutto il racconto successivo, fatto di vicende grandi e piccole, eroiche e inconsapevoli, parla di questo. Roma in stato di assedio, come ci fosse un colpo di stato in atto, i posti di blocco, le perquisizioni. E intanto le Br producevano i loro comunicati: "avrebbero fatto sapere tutto di 30 anni di regime democristiano". E a questo punto dello spettacolo è come se il coro a più voci dei pensieri individuali raggiungesse un unisono esplosivo e insieme una consapevolezza semplice, limpida, incontrovertibile: ecco come mai a quel grande gigantesco "perché?" non è mai stata data una risposta, dopo tutte le dichiarazioni dei pentiti e dopo una vicenda giudiziaria che è arrivata fino al "Moro quater" e che, come vuole far sapere Moretti, "si è avvicinata al cento per cento della verità". Non ci hanno, non hanno mai fatto sapere niente. Hanno sempre deciso da sole e le loro decisioni sono ricadute su tutti. Il racconto che non ci sembrava spettacolo, che ci chiamava piuttosto a raccolta, ciascuno con le proprie storie, come attorno a un tavolo d’osteria, prende le distanze dalle vicende dei singoli per acquistare il ritmo ineluttabile della tragedia greca.
Ritorno al libro di Moretti. Colgo un altro scollamento enorme. E’ come se Baliani, ossia la voce della maggioranza del movimento che non ha preso le armi, raccontasse un’altra storia. Nei capitoli dedicati al sequestro Moro il capo delle Br non parla mai del movimento. Suo interlocutore unico era lo stato. E intanto il movimento continuava a ragionare, a coltivare sogni, a vivere scelte perdenti e totali, oppure a cercare altrove, nel teatro ad esempio, mentre il terreno bruciava realmente, e si preparava una criminalizzazione che, nata dal teorema di un magistrato, sarebbe finita nelle aule dei tribunali, per poi assumere consistenza e autorità di interpretazione storica; finché la vicenda politica di un intero, sconfinato movimento giovanile non è stata riscritta in termini di storia criminale, con la sanzione finale del processo Sofri. (Che giustamente Marco Baliani ricorda, interrompendo gli applausi, a spettacolo finito).
Se il sequestro Moro ha fallito i suoi obiettivi non è stato perché non è riuscito a porsi come avanguardia dello scontro coagulando attorno a sé frange disponibili del movimento. Al di là delle cose che volutamente Moretti non dice (e che riguardano livelli occulti rispetto ai quali non riesce a dare smentite convincenti, e non c’è bisogno di essere particolarmente dietrologi per accorgersene) le sue spiegazioni non rispondono alle domande del movimento. Perché le azioni delle Br non era al movimento che guardavano, ma al potere rappresentato dalla politica portata avanti congiuntamente da Dc e Pci col progetto di compromesso storico.
Tutto questo avrà forse a che fare con quello che dice Baliani: che le Br, andando a leggere le loro biografie, sono figlie della grande tradizione comunista di fabbrica, oppure vengono dai cattolici. "Figli di due grandi chiese", le definisce; ed allargando lo sguardo alla generazione parla di "una gioventù con troppo dio".
Un racconto con pochi ausili scenografici, che è un grande spettacolo corale, con momenti di straordinario teatro: la descrizione della manifestazione in cui, di fronte all’aggressione bruta e gratuita di un compagno da parte della polizia, appena dopo aver deprecato quelli che hanno cercato lo scontro, la mano va a raccogliere la molotov caduta a terra per lanciarla; e altri affreschi: le case dei compagni, la vita di quegli anni, il senso della collettività, e poi esistenze finite in tragedia quasi per caso (l’amico Giorgio ucciso a sangue freddo dai carabinieri durante una rapina del tutto improvvisata "per finanziare la lotta", l’altro finito in carcere per tre anni per aver tenuto un pacco in garage), e storie che conservano la possibilità dell’ironia (la perquisizione a un compagno in moto e questo che si rivolge all’interno del serbatoio dicendo "Aldo, vie’ fuori, ci hanno beccato!…" : si prende tre mesi di carcere, ma ancora lo si racconta ridendo).
Le due vicende sempre più distanti: da una parte le Br coi loro comunicati, dall’altra i compagni del movimento che si muovevano in una città sovrastata da una rete invisibile, una ragnatela di azioni, luoghi e contatti che solo i brigatisti conoscevano. In questa lacerazione, una presa di posizione che sembrò risolutiva: "Né con lo stato né con le Br". Il narratore abbandona la memoria per tentare una simulazione: "se avesse suonato alla mia porta la ragazza con cui avevo militato, per la quale avevo provato affetto e attrazione, che avrei voluto portare a casa dopo l’assemblea e che in quell’occasione si era schierata dalla parte di quelli che volevano il ‘salto di qualità’, se quella ragazza fosse arrivata qualche tempo dopo a chiedermi ospitalità, per potersi nascondere…" Il narratore si immagina sulla soglia di quella porta, immobile. E il film dell’immaginazione non può andare né avanti né indietro. A quella ipotesi non può seguire che l’immobilità. "Né con lo stato né con le Br", unico slogan possibile, portava anche la maggior parte del movimento che non aveva voluto prendere le armi all’unica posizione possibile: l’immobilità. ("Contro lo stato e contro le Br" fu detto da un numero troppo esiguo di compagni: gli irriducibili oppositori di ogni potere, decisi a contrastare fino in fondo la volontà egemonica espressa dalle Br in seno al movimento rivoluzionario).
E, al di là della criminalizzazione che ne fece il partito, la posizione di chi si diceva "né con lo stato né con le Br" fu forse condivisa da certa base del Pci: che nel racconto prende le parole del bidello Pietro, con cui Baliani discute animatamente, fra un’entrata e un’uscita di scena, in occasione di uno spettacolo fatto in una scuola… Dopo aver sostenuto a spada tratta la linea ufficiale del partito, ossia il fronte della fermezza, il bidello Pietro cede alla sconsolatezza dicendo: "la verità è che siamo tutti incartati".
In questo di certo i 55 giorni del sequestro Moro hanno ottenuto un risultato: di immobilizzare un intero movimento giovanile e di "incartare" la base ancora vitale del più grande partito comunista europeo. Al resto ha pensato chi ha avuto il potere di riscrivere la storia. "Per tutti quelli che non avevano preso le armi, ed eravamo la maggioranza, ci fu la condanna al silenzio. Eppure venivamo tutti dallo stesso grande sogno, nato nel ’68".
Lo spettacolo si chiude. Subito fuori, chi allora aveva vent’anni riprende a raccontare, i più giovani, forse, desiderano un po’ di più ascoltare.

Cristina Valenti

 

i conti con un corpo prigioniero

[…] La materia è ancora così pulsante e non dipanata dalla lontananza, che si rischia di leggerla col senno di poi, filtrandola e mettendola a distanza di sicurezza. Ho cercato allora di tornare laggiù, in prima persona, ricordandomi di me in quei giorni, trovando nelle mie esperienze di allora quelle "piccole storie" che sole possono tentare di illuminare la Storia più grande. Ho ripercorso momenti dolorosi senza perdere però le atmosfere di quegli anni, gli entusiasmi, i paesaggi metropolitani, le contraddizioni.
Nei 55 giorni della prigionia di Moro ho raccontato di una lacerazione, di come il tema della violenza rivoluzionaria abbia dovuto fare i conti con un corpo prigioniero, e come questa immagine sia divenuta via via spartiacque per scelte fino allora rimandate, abbia fatto nascere domande e conflitti interiori non più risolvibili con slogan o con pratiche ideologiche.
[…] Quando si esce da momenti e tempi in cui la vita è stata pregna di avvenimenti, quando il vivere è sembrato intenso anche nel dramma, dopo, col tempo, ci si sente sempre un po’ stranieri, come reduci, testimoni di eventi troppo densi per essere dipanati. Camus dice: "Non essere ascoltati: è questo il terribile quando si è vecchi". Il narratore compie sempre questa sfida, straniero nel tempo cerca di vivere con il racconto la vecchiezza che stende sulle cose del mondo un manto spesso di oblio.

Marco Baliani