Rivista Anarchica Online


Una sentenza normale
di Carlo Oliva

Illustrazione di Natale Galli
Illustrazione di Natale Galli

I tribunali tendono a giudicare e a sancire, più che i singoli fatti addebitati, il comportamento processuale e ideologico degli imputati. Come il caso di Patrizia Cadeddu conferma.

 

Qualche settimana fa, per l’esattezza martedì 23 marzo, una corte giudiziaria milanese, credo si trattasse di una sezione di Corte di Appello, ma potrei sbagliarmi, ha confermato la condanna di Maria Grazia Cadeddu ("Patrizia", come preferisce farsi chiamare), militante del "Laboratorio anarchico" di via De Amicis, a Milano, accusata - come ricorderete - di essere la "postina di Radio Popolare", come a dire la donna che, un paio di anni fa, abbandonò davanti alla porta di quella emittente la rivendicazione di un attentato (fortunatamente innocuo) compiuto in quei giorni a Palazzo Marino, dove ha sede il Comune di Milano, facendosi riprendere dalla telecamera della sicurezza. Come abbiano fatto a condannarla prima e a confermarle la condanna dopo, proprio non saprei dirvi, visto che Patrizia ha sempre negato l’addebito e che l’unico elemento utile per la sua identificazione, l’unica "prova" disponibile contro di lei, consisteva e consiste nella cassetta registrata di quella telecamera, una registrazione così sfocata e malriuscita, così evidentemente illeggibile, che al processo l’hanno presentata in una versione rielaborata elettronicamente, versione che, a detta di quanti l’hanno visionata, era ancor meno leggibile dell’originale. Ma l’hanno condannata lo stesso e ciascuno potrà riflettere per conto suo sul perché. Se non altro, in appello le sono state riconosciute le "attenuanti generiche", il che ha portato la pena dai cinque anni originari a tre anni e nove mesi, metà dei quali già abbondantemente scontati, una riduzione che, in base alla normativa vigente, avrebbe dovuto consentirne la scarcerazione.
Avrebbe dovuto. Perché prima che la corte si ritirasse per la sentenza, l’imputata, cui era stato chiesto, come d’uso, se avesse qualcosa da dire, l’ha fatta proprio grossa. Ha ribadito con energia la sua innocenza, il che agli occhi della maggior parte dei giudici è già una colpa grave, e ha aggiunto che, comunque, dentro o fuori dal carcere, sarebbe restata l’anarchica di sempre. I non molti presenti hanno applaudito e il Presidente, seccatissimo, ha fatto sgomberare l’aula. E un paio d’ore dopo, usciti i giudici dalla camera di consiglio, ha pronunciato un’ordinanza che nega a Patrizia la scarcerazione (alla quale non s’era sostanzialmente opposta neanche l’accusa), in quanto, a suo avviso, esisterebbe "il pericolo di reiterazione del reato", come si desumerebbe proprio dalle parole che la Cadeddu ha pronunziato dalla gabbia, parole che conformavano "la sua appartenenza alla parte politica che realizzò l’attentato". Come a dire che, anche se l’associazione automatica tra anarchismo e sovversione dinamitarda è ormai soltanto un relitto ideologico, per quella corte basta dichiararsi anarchici per essere esclusi dai diritti che la legge riconosce agli altri cittadini.
Nessuno, a quanto pare, si è stupito per questa decisione. I giornali ne hanno dato conto in microscopici trafiletti, in uno dei quali, sul Corriere della sera, l’autore si è permesso perfino di fare dello spirito, scrivendo tutto soddisfatto che l’imputata "ha salutato con un ‘Viva l’anarchia’ la mamma e i trenta ‘compagni’ presenti in aula" ("compagni", chissà perché, è scritto tra virgolette) e "poi è tornata in cella." A tutti, evidentemente, è sembrato normale che una dichiarazione di appartenenza politica anomala da parte di un imputato, venisse considerata una colpa da punire. A tutti è sembrato normale che il nostro paese, che proprio in quei giorni, come cinquantotto anni prima, partecipava a un’aggressione militare contro i nostri vicini, disponga, oggi come allora, di un tribunale (neppure tanto speciale) che giudica i "nemici dello stato" sulla base della loro appartenenza politica.
Personalmente non intendo entrare nel problema della valutazione del comportamento della nostra compagna. Ha fatto e detto quello che riteneva giusto fare e dire, ha deciso di scontare, per coerenza, una condanna che considera ingiusta e merita il rispetto di tutti. Il fatto è che, quando si tratta di imputazioni politiche (ma non solo di quelle), da troppi anni, in Italia, i tribunali tendono a giudicare e a sancire, più che i singoli fatti addebitati, il comportamento processuale e ideologico degli imputati. Che devono accettare la colpa imputatagli, devono pentirsene, devono dimostrare il proprio pentimento mediante un’attiva cooperazione con la Giustizia (un eufemismo che significa - in genere - accettare il ruolo del delatore) e devono promettere che non lo faranno più, rinunciando, se del caso, alle proprie opzioni ideologiche. E sembra che nessuno si accorga di come questa prassi configuri sempre di più una specie di stato etico, che si ritiene autorizzato a valutare, oltre che le azioni, le stesse scelte di valore dei cittadini e dei sudditi e ne esige, quando lo ritiene opportuno, la modifica o l’abiura.
Sono - naturalmente - i frutti avvelenati della legislazione d’emergenza, delle scelte legislative e giudiziarie compiute, in nome della lotta al terrorismo, negli anni di piombo e ribadite in seguito, quando ormai il terrorismo e la lotta armata erano solo un brutto ricordo, perché ormai senza pentiti e senza legislazione premiale la nostra magistratura non era, evidentemente, più in grado di assolvere alle proprie funzioni. È la stessa logica in base alla quale si continua a rifiutare qualsiasi discorso di amnistia per i detenuti politici e che ha permesso di ribadire ostinatamente la condanna di Sofri e dei suoi compagni. Chi volesse ripercorrere il percorso che ha portato a questa situazione può farlo, oggi, grazie all’appassionante pamphlet che Paolo Persichetti e Oreste Scalzone hanno pubblicato da poco, con il titolo Il nemico inconfessabile, per le edizioni Odradek.
Quel volumetto, in realtà, si propone soprattutto dei compiti di ricostruzione storica. Non affronta specificamente il problema dell’innocenza degli imputati ai vari processi, anzi, ha buon gioco nel mettere in luce la malafede e la strumentalità di molte dichiarazioni di innocenza ideologica. Ma leggetelo lo stesso. Perché il vero problema è che oggi, in Italia, per un imputato proclamarsi innocente, soprattutto in riferimento a dei fatti concreti, è davvero troppo pericoloso. Chi è innocente non ha niente di cui pentirsi, non ha niente da scambiare in cambio della propria libertà. Non più compiere nessuna abiura e l’abiura - a quanto pare - è condizione indispensabile, sia pure non sufficiente, per accedere a questo tipo di mercato. Che non significa soltanto la pretesa di criminalizzare qualsiasi dissenso, ma sottintende la volontà di controllare le coscienze, di imporre a tutto il corpo sociale le stesse prospettive ideologiche ed esistenziali.
Come ben si addice, in fondo, a un paese in guerra.

Carlo Oliva

 

 

“... oggi, in Italia,
per un imputato proclamarsi
innocente, soprattutto
in riferimento a dei fatti
concreti, è davvero
troppo pericoloso.”