I tribunali tendono a giudicare e a sancire,
più che i singoli fatti addebitati, il comportamento
processuale e ideologico degli imputati. Come il caso di Patrizia
Cadeddu conferma.
Qualche settimana fa, per lesattezza
martedì 23 marzo, una corte giudiziaria milanese, credo
si trattasse di una sezione di Corte di Appello, ma potrei sbagliarmi,
ha confermato la condanna di Maria Grazia Cadeddu ("Patrizia",
come preferisce farsi chiamare), militante del "Laboratorio
anarchico" di via De Amicis, a Milano, accusata - come
ricorderete - di essere la "postina di Radio Popolare",
come a dire la donna che, un paio di anni fa, abbandonò
davanti alla porta di quella emittente la rivendicazione di
un attentato (fortunatamente innocuo) compiuto in quei giorni
a Palazzo Marino, dove ha sede il Comune di Milano, facendosi
riprendere dalla telecamera della sicurezza. Come abbiano fatto
a condannarla prima e a confermarle la condanna dopo, proprio
non saprei dirvi, visto che Patrizia ha sempre negato laddebito
e che lunico elemento utile per la sua identificazione, lunica
"prova" disponibile contro di lei, consisteva e consiste
nella cassetta registrata di quella telecamera, una registrazione
così sfocata e malriuscita, così evidentemente
illeggibile, che al processo lhanno presentata in una versione
rielaborata elettronicamente, versione che, a detta di quanti
lhanno visionata, era ancor meno leggibile delloriginale.
Ma lhanno condannata lo stesso e ciascuno potrà riflettere
per conto suo sul perché. Se non altro, in appello le
sono state riconosciute le "attenuanti generiche",
il che ha portato la pena dai cinque anni originari a tre anni
e nove mesi, metà dei quali già abbondantemente
scontati, una riduzione che, in base alla normativa vigente,
avrebbe dovuto consentirne la scarcerazione.
Avrebbe dovuto. Perché prima che la corte si ritirasse
per la sentenza, limputata, cui era stato chiesto, come duso,
se avesse qualcosa da dire, lha fatta proprio grossa. Ha ribadito
con energia la sua innocenza, il che agli occhi della maggior
parte dei giudici è già una colpa grave, e ha
aggiunto che, comunque, dentro o fuori dal carcere, sarebbe
restata lanarchica di sempre. I non molti presenti hanno applaudito
e il Presidente, seccatissimo, ha fatto sgomberare laula. E
un paio dore dopo, usciti i giudici dalla camera di consiglio,
ha pronunciato unordinanza che nega a Patrizia la scarcerazione
(alla quale non sera sostanzialmente opposta neanche laccusa),
in quanto, a suo avviso, esisterebbe "il pericolo di reiterazione
del reato", come si desumerebbe proprio dalle parole che
la Cadeddu ha pronunziato dalla gabbia, parole che conformavano
"la sua appartenenza alla parte politica che realizzò
lattentato". Come a dire che, anche se lassociazione
automatica tra anarchismo e sovversione dinamitarda è
ormai soltanto un relitto ideologico, per quella corte basta
dichiararsi anarchici per essere esclusi dai diritti che la
legge riconosce agli altri cittadini.
Nessuno, a quanto pare, si è stupito per questa decisione.
I giornali ne hanno dato conto in microscopici trafiletti, in
uno dei quali, sul Corriere della sera, lautore si è
permesso perfino di fare dello spirito, scrivendo tutto soddisfatto
che limputata "ha salutato con un Viva lanarchia la
mamma e i trenta compagni presenti in aula" ("compagni",
chissà perché, è scritto tra virgolette)
e "poi è tornata in cella." A tutti, evidentemente,
è sembrato normale che una dichiarazione di appartenenza
politica anomala da parte di un imputato, venisse considerata
una colpa da punire. A tutti è sembrato normale che il
nostro paese, che proprio in quei giorni, come cinquantotto
anni prima, partecipava a unaggressione militare contro i nostri
vicini, disponga, oggi come allora, di un tribunale (neppure
tanto speciale) che giudica i "nemici dello stato"
sulla base della loro appartenenza politica.
Personalmente non intendo entrare nel problema della valutazione
del comportamento della nostra compagna. Ha fatto e detto quello
che riteneva giusto fare e dire, ha deciso di scontare, per
coerenza, una condanna che considera ingiusta e merita il rispetto
di tutti. Il fatto è che, quando si tratta di imputazioni
politiche (ma non solo di quelle), da troppi anni, in Italia,
i tribunali tendono a giudicare e a sancire, più che
i singoli fatti addebitati, il comportamento processuale e ideologico
degli imputati. Che devono accettare la colpa imputatagli, devono
pentirsene, devono dimostrare il proprio pentimento mediante
unattiva cooperazione con la Giustizia (un eufemismo che significa
- in genere - accettare il ruolo del delatore) e devono promettere
che non lo faranno più, rinunciando, se del caso, alle
proprie opzioni ideologiche. E sembra che nessuno si accorga
di come questa prassi configuri sempre di più una specie
di stato etico, che si ritiene autorizzato a valutare, oltre
che le azioni, le stesse scelte di valore dei cittadini e dei
sudditi e ne esige, quando lo ritiene opportuno, la modifica
o labiura.
Sono - naturalmente - i frutti avvelenati della legislazione
demergenza, delle scelte legislative e giudiziarie compiute,
in nome della lotta al terrorismo, negli anni di piombo e ribadite
in seguito, quando ormai il terrorismo e la lotta armata erano
solo un brutto ricordo, perché ormai senza pentiti e
senza legislazione premiale la nostra magistratura non era,
evidentemente, più in grado di assolvere alle proprie
funzioni. È la stessa logica in base alla quale si continua
a rifiutare qualsiasi discorso di amnistia per i detenuti politici
e che ha permesso di ribadire ostinatamente la condanna di Sofri
e dei suoi compagni. Chi volesse ripercorrere il percorso che
ha portato a questa situazione può farlo, oggi, grazie
allappassionante pamphlet che Paolo Persichetti e Oreste
Scalzone hanno pubblicato da poco, con il titolo Il nemico
inconfessabile, per le edizioni Odradek.
Quel volumetto, in realtà, si propone soprattutto
dei compiti di ricostruzione storica. Non affronta specificamente
il problema dellinnocenza degli imputati ai vari processi,
anzi, ha buon gioco nel mettere in luce la malafede e la strumentalità
di molte dichiarazioni di innocenza ideologica. Ma leggetelo
lo stesso. Perché il vero problema è che oggi,
in Italia, per un imputato proclamarsi innocente, soprattutto
in riferimento a dei fatti concreti, è davvero troppo
pericoloso. Chi è innocente non ha niente di cui pentirsi,
non ha niente da scambiare in cambio della propria libertà.
Non più compiere nessuna abiura e labiura - a quanto
pare - è condizione indispensabile, sia pure non sufficiente,
per accedere a questo tipo di mercato. Che non significa soltanto
la pretesa di criminalizzare qualsiasi dissenso, ma sottintende
la volontà di controllare le coscienze, di imporre a
tutto il corpo sociale le stesse prospettive ideologiche ed
esistenziali.
Come ben si addice, in fondo, a un paese in guerra.
Carlo Oliva
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