Rivista Anarchica Online


 

Poesie vestite di musica
di Marco Pandin

 

Ribelle ad ogni ipocrisia, De André ha cercato di mettere in luce il lato oscuro delle cose. Contro i miti edi i danni del moralismo.

 

"...Il primo grande disagio l’uomo lo prova al momento della nascita, quando passa dall’acqua all’aria. Il secondo, quando si rende conto che il suo destino è morire. Alcuni, poi, ne vivono un terzo: il disagio dell’isolamento...".
(Fabrizio De Andrè alla conferenza stampa per la presentazione di "Anime salve", Milano 1997)

Fabrizio era nato a Genova, figlio della borghesia agiata cittadina, ed avrebbe compiuto cinquantanove anni il prossimo 18 febbraio. Allo scoppiare della guerra la sua famiglia si rifugiò nella campagna astigiana, mentre il padre, ricercato dai fascisti, si diede alla macchia.

"...La campagna di Asti aveva mille voci, il vento, gli uccelli, un poema continuo di interiezioni e fruscii. E nessuna di quelle voci era in grado di dire dove fosse lui, che i fascisti braccavano e del quale loro avrebbero avuto voglia e bisogno...".
(Fabrizio De Andrè da "Amico fragile", ed. Sperling & Kupfer, 1991)

Già avanti con gli studi, li interrompe (pecora nera) a pochi esami dalla laurea per seguire quella che fu la passione della sua vita: la musica. Studia il violino e la chitarra, traduce i chansonniers e propone i primi brani di sua composizione.
Il giovane Fabrizio raccontava di cose non comuni in una maniera non comune, nell’Italia yè-yè del boom economico degli anni Sessanta: sapeva rendere in modo del tutto personale la nuova canzone francese (Jacques Brel, Georges Brassens, Leo Ferrè), e con una forte coscienza sociale e politica, accostabile a quella che sarebbe venuta di lì a poco a maturare nei nuovi menestrelli d’oltreoceano e d’importazione.
A diciott’anni il primo disco, e nel 1966 il suo primo album, una raccolta delle canzoni pubblicate sino ad allora.

"...Per anni i suoi dischi sono stati una "finezza da liceali", roba da circuito clandestino. Qualcosa di strano ed affascinante, dove convivevano riferimenti dotti, musica antica, protesta, demistificazione e parole come "puttana"...".
(M. Luzzatto Fegiz, dalle note di copertina de "Il viaggio")

La sua non è mai stata una protesta tiepida. Ribelle ad ogni ipocrisia, nelle sue canzoni Fabrizio De Andrè sin dagli esordi ha sempre cercato di mettere in luce il lato oscuro delle cose, l’altra faccia, il "non detto" ed il "non visto" su cui si soffermava a riflettere.
Ha cantato la suggestione del torbido, dipinto la dignità della vita piccola del reietto, i sentimenti degli ultimi: così dicono i preti, interessati a scoprire l’angelo nel lucifero che sapeva cantare di un dio a misura d’uomo così distante dagli altari e dagli ori… e da loro.
Fuori dai condizionamenti, ha trovato le parole più affilate e assieme disperate per descrivere i miti ed i danni del moralismo borghese, della società che emargina per fame di conformismo, silenzio e sicurezza.
Forte delle parole che nessuno può far finta di non capire, ha saputo rivolgersi, senza mediazioni né compromessi, a un pubblico vasto ed eterogeneo, nonostante l’inevitabile boicottaggio dei potenti.

"Ho poche idee. Poche, ma fisse..."
(Fabrizio De Andrè al pubblico del teatro Brancaccio, Roma 1998)

Le prime canzoni di Fabrizio vennero in grande parte bocciate dai burocrati radiotelevisivi nazionali ed escluse dalla programmazione (gli furono concessi spazi maggiori alla radio vaticana...): esse erano capaci di diffondere temi impegnati senza assomigliare a dei comizi, ed ai censori non risultavano gradite le parole "forti" ed il tono poco formale con cui esse affrontavano temi delicati e scottanti come la morte, la prostituzione, la guerra ed il potere.
Alcune canzoni, come "La guerra di Piero" - un solare inno pacifista ed antimilitarista - potevano essere trasmesse soltanto dopo lettura di un’adeguata introduzione critica stilata dalla direzione generale della Rai.

"Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino: non avevano leggi per punire un blasfemo. Non mi uccise la sorte, ma due guardie bigotte: mi cercarono l’anima a forza di botte... E se furon due guardie a fermarmi la vita, e proprio qui sulla terra la mela proibita. E non dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato, ci costringe a sognare in un giardino incantato...".
(da "Un blasfemo", 1971)

I personaggi descritti nei suoi testi hanno uno spessore umano ed autentico assolutamente rivoluzionario (pensate al bestiario della canzone tricolore, irto di mamme di figli soldati immolati alla patria, di mazurche e ballabili, di rime cuore/amore…), che li metteva - allora come oggi - in grado di scardinare la mentalità borghese legata al concetto di "consumo" della musica: da Piero, soldato che non vuole sparare, al transessuale Princesa, da Geordie ladro per fame al "morto apparente" incapace di rassegnarsi alla sorte protagonista dell’ultimo testo scritto, rimasto privo di melodia.

Essere "uomini e basta"


"...Le ho scritte così, come mi hanno aggredito. Per incontenibile affiorare di memoria. Di solito l’attualità che mi aveva colpito era passata attraverso un processo di metabolizzazione: magari bastavano due giorni, altre volte qualche mese. Una memoria che mi arrivava già distorta, quindi, proprio come la volevo. Altrimenti, mi sarebbe servita per qualche articolo di cronaca. Talvolta il ricordo mi arrivava da molto lontano: dai balli a palchetto nelle campagne astigiane degli anni Cinquanta, dove un paio di labbra impiastricciate di viola, la cucitura di una calza di seta che scompariva nella "terra promessa", il balcone dipinto di verde della casa di mia nonna diventavano i particolari di una memoria diversa e più recente: dalle labbra di "Bocca di Rosa" alla disperata attrazione per la stanza semibuia di "Via del Campo"
(dalla postfazione a "La lingua cantata", a cura di L. Serianni e G. Borgna, ed. Garamond)

La discografia di Fabrizio non è vasta: una quindicina di dischi in quarant’anni d’attività. Un numero breve, ma ricco di capolavori che attraversano la nostra storia contemporanea (e che di essa rispecchiano gli scazzi ed i trionfi, i massacri e le celebrazioni), una ricerca continua che nel suo svolgersi - lento ma deciso - ha assunto sempre più i contorni di una irriducibile difesa dei valori più profondi dell’essere "uomini e basta".
Fabrizio non predicava: indicava la luna. E raccontava del suo profondo credere in un’umanità ricca di valori ma senza leggi né pastoie, ricca di spiritualità ma senza clero né processioni.
"Non posso pensarti figlio di dio, ma figlio dell’uomo, fratello anche mio. Qualcuno tentò di imitarlo: se non ci riuscì fu scusato, anche lui perdonato. Perché non si imita un dio: un dio va temuto e lodato...".
(da "Laudate hominem", 1970)

Ognuna delle opere discografiche di Fabrizio De Andrè rappresenta un punto di passaggio, un valico di montagna in cui il nostro passato recente s’è fermato un momento a riposare, a pensare, a riflettere. Le vecchie canzoni, prima dell’esplosione di successo che gli recò la "Canzone di Marinella" nell’interpretazione di Mina, sono ciascuna un ritratto oppure un paesaggio dipinto con pochi tratti essenziali ma spietati: la "Ballata dell’eroe" anonimo racconta il disastro e la vacuità della morte in guerra (ritornerà su queste strade per raccontare di "Andrea", ucciso sui monti di Trento dalla mitraglia, e di Stan con il cuore coperto di mosche in "Ti ricordi, Joe?"), l’odore forte della vita nei quartieri poveri vicini al mare e lontani dal sole de "La città vecchia" e di "Via del Campo", il suicidio disperato di un condannato a vent’anni di carcere in "La ballata del Michè".
Quelle che sono venute dopo sono tutte poesie vestite di musica: un vestito popolare e vitale, ricco di suoni dimenticati dalle tendenze del mercato.
Vestiti fatti di stracci zingari, cuciti mirabilmente insieme in una fantasia di aromi pungenti: la canfora e la naftalina dei vecchi cappotti conservati nell’armadio, l’aglio e le erbe che accompagnano il pesce mediterraneo, l’odore di bruciato che lasciano nell’aria gli spari del fucile.

"Voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio, coi pianoforti a tracolla, vestiti da Pinocchio, voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti, per l’Amazzonia e per la pecunia nei palastilisti e dai padri maristi, voi avevate voci potenti e lingue allenate a battere il tamburo. Voi avevate voci potenti: adatte per il vaffanculo...".
("La domenica delle salme", 1990)

Fabrizio non ha mai tirato sassi né bombe nascondendo il suo braccio, ma ha saputo offrire costantemente, e con generosità, nella sua intera opera una visione anarchica e semplice dell’esistenza.
Il suo era un sogno in cui ha messo violentemente in discussione gerarchie e potere avvelenandoli del loro stesso veleno: ben consapevole, proprio come Pablo Neruda (quando dall’alto dei suoi scritti si scagliava contro Nixon ed i servizi segreti americani, assassini di Allende e del sogno di Unidad Popular) del suo ruolo di poeta da prima linea, nelle sue canzoni ha fatto nomi e cognomi.
Negli spettacoli dal vivo, la sua "Via della povertà" si sapeva trasformare da bella traduzione di Dylan in un quadro di Bosch pullulante dei sinistri protagonisti della vita politica nazionale. Lo stesso, i nomi sono urlati e ben distinguibili nel "Ballo mascherato" e nella "Domenica delle salme".

Allo stesso tempo, De Andrè ha saputo esprimere una sensibilità poetica del tutto inedita presso altri autori contemporanei nell’affrontare tematiche a largo respiro spirituale: le riletture dei vangeli apocrifi de "La buona novella" (Dario Fo e Franca Rame sono arrivati a risultati altrettanto mirabili, ma per una diversa strada) sono emozionanti quanto le riflessioni Zen sulla transitorietà della vita terrena di "Caro amore", della "Canzone dell’amore perduto", di "Amore che vieni, amore che vai", dei "Passaggi e passaggi di tempo" di "Anime salve"…
E come trattenere l’indignazione per l’infinita disperazione che straccia la tonaca di "Padre O’Brien" ("...Ho chiesto e non mi hanno dato un quinto del tesoro sprecato in una lunga guerra: un quinto mi bastava per togliere il dolore dai lebbrosari della terra...")?
Come non provare rispetto e compassione per il misticismo di "Giovanna d’Arco", per il "Testamento di Tito" (secondo certi benpensanti, d’oggi come d’allora, più che una canzone d’amore questa è una lunga e spaventosa bestemmia... Destino comune, del resto, a quello di altri anarchici impegnati in musica).

 

Ancora viaggio, lontano

Quando la morte mi chiamerà nessuno al mondo si accorgerà che un uomo è morto senza parlare, senza sapere la verità che un uomo è morto senza pregare fuggendo il peso della pietà.

Cari fratelli dell’altra sponda cantammo in coro già sulla terra amammo tutti l’identica donna, partimmo in mille per la stessa guerra. Questo ricordo non vi consoli: quando si muore si muore soli…
(da "Il testamento", 1969)

Fabrizio se n’è andato, eppure c’è ancora. Il suo insegnamento lo possiamo vedere nell’ispirazione che fa muovere i passi di tanti artisti più giovani. Non ha lasciato testamento, ma una grande eredità. Possiamo ritrovare spesso il suo soffio vitale nel lavoro di Gang, Revolution, Stefano Giaccone, Fratelli di Soledad, trovando il coraggio e la sfrontatezza di fare un pugno di nomi.
E, ne sono certo, la sua mano ha guidato quella di Lalli mentre affrontava la prova del "Famoso impermeabile azzurro" di Leonard Cohen.
Voglio ricordarlo ed immaginarlo ancora così: il suo sorriso sornione e lo sguardo strano, chitarra in mano a succhiare il fumo dalla marlboro tra una strofa e l’altra, i suoi occhi così grandi pieni del mare di Sardegna, di Liguria, di Rimini.
La sua testa viaggiava lontano, nelle orecchie l’eco di cento lingue.
E ancora viaggia Fabrizio, lontano: soprattutto lontano dai comunicati stampa chilometrici di chi ruba in suo nome un altro minuto alla televisione e alla radio, sottraendolo a una sua canzone. Lontano dalla sfilata di berluschifi e melandrone, dai bertinotti e dalle cossutte improvvisamente ed ufficialmente attristate davanti ai microfoni e alle telecamere, processione lugubre in segreta celebrazione del tumore che ha fatto tacere la voce di un poeta anarchico che non ha mai avuto paura di chiamarli col loro vero nome. E di mandarli affanculo, loro, i potenti e i padroni: senza possibilità di scampo.

Marco Pandin

 

Almirante sembra così facile: ogni volta che sorride ti cattura…
Ricorda proprio Bette Davis con le mani appoggiate alla cintura. Arriva Fra’ John trafelato e gli grida: "Il mio amore sei tu…" ma qualcuno gli dice di andar via e di non riprovarci più.
E l’unico suono che rimane quando l’ambulanza se ne va è Almirante che spazza via il sangue in Via della Povertà.
Covelli travestito da ubriacone ha nascosto i suoi appunti in un baule è passato di qui un’ora fa diretto verso l’ultima Thule…
…ed a vederlo tu non lo diresti mai ma era famoso qualche tempo fa per suonare il violino elettronico alla corte di Sua Maestà.
Ci si prepara per il 15 di giugno e c’è qualcuno che continua ad aver sete.
Paolo VI ha gettato via la tiara si è camuffato in abiti da prete, sta ingozzando a viva forza Berlinguer per punirlo della sua frugalità lo ucciderà parlandogli d’amore dopo averlo avvelenato di pietà e mentre Paolo grida, quattro suore si son spogliate già: Berlinguer sta per essere violentato in Via della Povertà.
E bravo Leone mattacchione: il paese sta affondando nella merda…
Nelle scialuppe i posti letto sono tutti occupati e gli anarchici tutti annegati, e Agnelli e Indro Montanelli fanno a pugni nella torre di comando.
I suonatori di calipso ridono di loro mentre il cielo si sta allontanando e affacciati alle loro finestre nel mare tutti han pescato voti qua e là e nessuno deve più preoccuparsi di Via della Povertà.
A mezzanotte in punto i poliziotti fanno il loro solito lavoro metton le manette intorno ai polsi a quelli che ne sanno più di loro, i prigionieri vengon trascinati su un calvario improvvisato lì vicino e il caporale Adolfo li ha avvisati che passeranno dal solito camino e il vento da solo ride e nessuno riuscirà a ingannare il suo fottuto destino in Via della Povertà…
(da una versione di "Via della Povertà" eseguita dal vivo in concerto