Rivista Anarchica Online


Libertà residuali
di Carlo Oliva

Prosegue il dibattito su anarchismo e liberalismo originato dall’intervista di Cristina Valenti a Luce Fabbri ("A" 247). Alle opinioni di Pietro Adamo ("A" 250) risponde ora Carlo Oliva. Il dibattito resta più che mai aperto.

Illustrazione di Natale Galli
Illustrazione di Natale Galli

 

 

Uno dei più straordinari racconti dell’Aleph di Jorge Luis Borges, I Teologi, è tutto imperniato, come ricorderete, sulla rivalità tra due immaginari dottori del primo Cristianesimo, tali Aureliano di Aquileia e Giovanni di Pannonia. Il contrasto in sé si conclude, come in effetti succedeva sovente nelle dispute teologiche dell’epoca, con la condanna al rogo di uno dei contendenti (Giovanni, nella fattispecie), ma il racconto procede per un altro paio di pagine e si conclude, a sua volta, in paradiso: molti anni dopo aver assistito, non senza qualche represso senso di colpa, al rogo del rivale, Aureliano muore, è debitamente assunto in Cielo e si trova a conversare con Domineddio, per scoprire che Questi "s’interessa così poco di divergenze religiose" da scambiarlo per Giovanni di Pannonia. Ma questa formulazione, aggiunge Borges, "indurrebbe a sospettare una confusione nella mente divina. È più esatto dire che nel paradiso Aureliano seppe che per l’insondabile divinità egli e Giovanni di Pannonia (l’ortodosso e l’eretico, l’aborritore e l’aborrito, l’accusatore e la vittima) formavano una sola persona" (traduzione di Francesco Tentori Montaldo, Milano, 1959).
A questa fulminante conclusione è difficile non pensare leggendo l’articolo pubblicato sul numero 250 di "A" da Pietro Adamo (d’ora in avanti PA) con il titolo La crisi dell’anarchismo e l’ethos liberale. In questo saggio, come ricorderete, l’autore trova il modo, a partire da una disanima critica del pensiero di Luce Fabbri, di affermare che "alcuni elementi dell’ethos liberale" - per esempio, "una concettualizzazione garantista e ‘difensiva’ della proprietà" - "potrebbero trovare una degna collocazione nell’anarchismo". Come a dire che il pensiero anarchico, in sé alieno da ogni possibile confusione con le ideologie di sinistra a fondamento o ispirazione marxista, non dovrebbe avere troppe difficoltà a trovare una radice comune nella tradizione liberale, la cui eredità, in passato, sembrerebbe aver sottovalutato con troppa disinvoltura.
In effetti, se la Fabbri, con L’anticomunismo, l’antiimperialismo e la pace, del ’49, e con Sotto la minaccia totalitaria, del ’53, aveva insistito sul valore "ideale" della tradizione liberale, sforzandosi di separarlo (di purificarlo) quasi, da quegli sgradevoli aspetti concreti che l’ideologia liberale di solito supporta nell’organizzazione della società capitalista, ricorrendo, come già Gobetti e Rosselli prima di lei, alla distinzione crociana tra liberalismo come metodo e liberismo come politica economica, e concludendo che il suo valore era di tipo eminentemente etico e consisteva soprattutto nella "difesa della personalità individuale", PA ritiene di dovere rivalutare il liberalismo anche dal punto di vista delle teorie economiche. Se la Fabbri dedicava molti sforzi a negare che l’organizzazione capitalistica della società e dello stato potesse essere considerata liberale, perché "il capitalismo non è mai stato individualista", salvo, naturalmente, che per il "desiderio di limitare l’autorità dello stato in materia economica", onde la ben nota passione del padronato per "cartelli e trusts, istituzioni che costituiscono in se stesse una palese negazione del cosiddetto individualismo originario", PA ritiene che questo "schema interpretativo" soffra di "alcune rigidità". Rigidità che possono essere ricondotte, in buone sostanza, alla "fedeltà a oltranza al modello del comunismo libertario alla Kropotkin, con i suoi corollari dell’avversione verso la proprietà privata e l’insufficiente concettualizzazione degli effetti della cosiddetta ‘proprietà socializzata’".

 

L’accenno a Berlusconi

In altre parole, il Nostro è convinto che "il nesso tra la collettivizzazione e la società totalitaria non è affatto unidirezionale e neppure causale". Il che significa, credo, che a suo avviso ogni società collettivizzata non può che essere totalitaria (non per niente la fedeltà al modello del comunismo libertario è considerata un limite) e, di conseguenza, che solo la presenza della proprietà privata può garantire che una società non sia totalitaria. Affermazione che PA non rende esplicita, forse per non turbare i lettori di "A" che possono aver avuto occasione di coglierne di simili nei discorsi televisivi di Silvio Berlusconi, ma che rappresenta il vero, innegabile fondamento del suo saggio. Che l’ethos liberale, del resto, non sia facilmente separabile dal culto del quattrino, proprio e altrui, è ipotesi che già in passato si è affacciata al cervello di molti.
Naturalmente l’accenno a Berlusconi può suonare offensivo e non dovrebbe trovar posto in una polemica ad alto livello. Ma, da un lato, chi scrive non ha titoli particolari per condurre polemiche ad alto livello. Non è un teorico, sa poco di economia, conosce pochissimo, e solo per sentito dire, il pensiero di Luce Fabbri e non è neanche qualificato per parlare in nome dell’anarchismo. Dall’altro, nessuno potrà negare che certi accostamenti, pur sgradevoli, abbiano una loro, sia pur rozza, utilità. Una cosa è parlare di ethos liberale, che è, ovviamente, un’astrazione, un valore dichiarato da qualcuno con qualche scopo, e un’altra è richiamarsi a quanti di quell’astrazione sono e sono stati, nel concreto, promotori, ripensare a chi di quel valore si è servito per giustificare o motivare le proprie azioni.
I valori, in sé, sono tutti più o meno accettabili, se no non sarebbero dichiarati per tali. Il liberalismo propugna la libertà individuale, come condizione giuridica e come atteggiamento morale e in quanto tale non può essere rifiutato da nessuna persona ragionevole. D’altro canto, il socialismo promette la collaborazione generale tra i membri di una comunità, che vede come socii, alleati, e non come rivali e il comunismo e il collettivismo si pongono come proprio obiettivo l’uguaglianza di tutti gli esseri umani proprio in considerazione del fatto che la disuguaglianza rappresenta la prima condizione della mancanza di libertà. Anche questi, come valori, non sono da buttar via.
Poi, naturalmente, niente è più facile di mostrare come al socialismo si siano rifatti noti ladroni, il comunismo abbia causato una montagna di iniquità e ogni collettivizzazione si sia risolta in disastro. Figuriamoci. Se c’è qualcosa di cui la storia è fin troppo prodiga sono gli ideali traditi. Ma anche se oggi, per un motivo o per l’altro, tutti si dichiarano liberali, se è in atto una vera e propria corsa a rivendicare, ciascuno per sé, quelle radici (corsa di cui l’articolo di PA, di fatto, rappresenta un’eloquente testimonianza), non si vede perché non si debba ricordare come anche le società "liberali" abbiano spremuto, con i loro peculiari strumenti, la loro libbra di lacrime e sangue. La proprietà potrà essere riconcettualizzata (nel senso, suppongo, di non definirla più come un furto, rinunciando a una vecchia metafora di origine anarchica, fatta poi propria da altri), ma i proprietari hanno sempre avuto, e hanno ancora, una certa tendenza, diciamo così, a pesare sui non proprietari. La cui libertà, in un modo o nell’altro, finisce con l’essere sgradevolmente limitata.
In nome della libertà, lo sappiamo, si sono commessi molti orrendi delitti, come ebbe occasione di osservare, tra gli altri, Madame Roland. Si sono anche dette, con rispetto parlando, molte cazzate, nel senso di molte proposizioni ingannevoli. E nessuna di esse, temo, è più ingannevole di quelle in cui si sostanziano i tanti tentativi compiuti a livello teorico per separare in qualche modo i vari aspetti e le varie valenze dei sistemi politico ideologici, per prenderne, per così dire, il buono (l’ethos, di qualsiasi genere) e lasciare ad altri il cattivo (il capitalismo liberista, i gulag, il partito unico, la teocrazia…) In generale, tentativi del genere, pur compiuti - di solito - in buona fede, sono sempre stati, con tutto il rispetto dovuto ai Gobetti e ai Rosselli, straordinariamente futili. Hanno sempre finito per fare della libertà un valore residuale, un qualcosa che resta in astratto dopo che si è eliminato dal concreto quanto non si gradisce. E di una libertà del genere, di solito, si finisce con il non saper cosa fare, oltre che dichiararla.

 

Già, i padroni

In questo, naturalmente, PA non ha torto: dire di essere liberali ma di non accettare responsabilità per gli effetti del liberismo (perché quegli effetti sono perversi, perché il vero liberalismo è un’altra cosa, perché i capitalisti cattivi non sono affatto liberali anche se dicono di esserlo…) è, sostanzialmente, troppo comodo. Esattamente come è troppo comodo dire di essere socialisti, o comunisti, o anarchici, ma di non avere nulla a che fare con le brutte cose che in nome di quei venerabili ideali sono state commesse (certo, gli anarchici di turpitudini ne hanno commesse molto meno degli latri, ma questo è un altro discorso). In teoria si può fare di tutto: in pratica, ahimé, bisogna schierarsi. E siccome schierarsi con i valori è troppo facile (trovatemi, vi prego, un solo oppressore che abbia dichiarato che il valore che perseguiva era l’oppressione degli altri), bisognerà risolversi a schierarsi con i soggetti concreti, con la gente. Bisognerà scegliere tra gli oppressori e gli oppressi, tra i persecutori e i perseguitati (che solo Dio, nella sua borgesiana insondabilità, può considerare come le due facce dello stesso soggetto), tra i padroni e chi padrone non è.
Già, i padroni. Esisteranno ancora i padroni, quando avremo riconcettualizzato in senso anarchico la proprietà?

Carlo Oliva

 

 

“In nome della libertà,
lo sappiamo, si sono
commessi molti
orrendi delitti.”