Rivista Anarchica Online


Quella fiesta poteva contagiare il mondo

Intervista a Diego Camacho
di Francesco Berti

 

Sono passati pìù di sessant'anni dalla rivoluzione sociale spagnola. Ne parliamo con Diego Camacho, anarchico spagnolo, protagonista di quegli eventi e ancora oggi attivo militante.


Hugo Pratt, Saint - Exupérry, l'ultimo volo, Bompiani 1995.

 

Nel 1936 aveva 15 anni. Viveva a Barcellona. Lavorava in un'officina meccanica. Era anarchico. Faceva parte delle juventudes libertarias, l'organizzazione giovanile del movimento anarchico spagnolo. Il 19 luglio partecipò alla grandiosa sollevazione popolare guidata dalla CNT e dalla FAI a Barcellona che impedì nella capitale catalana il golpe militare franchista. Visse l'esplosione rivoluzionaria, la collettivizzazione, la più grande esperienza autogestionaria della storia dell'umanità, quando per qualche mese, soprattutto in Catalogna e in Aragona, lo stato era stato disintegrato e il popolo aveva preso nelle proprie mani il potere. Fondò un gruppo di affinità, i coyote dell'ideale, che criticò i compromessi con lo stato repubblicano dei dirigenti anarcosindacalisti. Visse la controrivoluzione staliniana, la repressione del potere dello stato controllato dai comunisti, la disfatta militare. Diego Camacho, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Abel Paz, indomito militante libertario e accanito fumatore di Ducados, ha raccontato quella incredibile esperienza in un libro autobiografico che è uscito ora anche in italiano (Spagna '36: un anarchico nella rivoluzione, ed. Lacaita, Bari 1998, £ 25.000) grazie all'impegno dell'editore Lacaita e alla perseveranza di Claudio Venza. Siamo andati a trovarlo a Barcellona, dove vive tuttora, per ricordare insieme a lui quell'irripetibile stagione, con uno sguardo lucido alla deprimente realtà dei nostri giorni.

F.B.

 

“Le rivoluzioni
non producono miracoli:
fanno solo affiorare
quanto già esiste”

 

Stanno per uscire in Italia due tuoi libri, Spagna '36: un anarchico nella rivoluzione, secondo dei tuoi quattro volumi pubblicati in spagnolo della tua autobiografia, e Durruti (nella versione integrale). Questi libri escono a ridosso delle polemiche estive che ci sono state in Italia sulla guerra civile spagnola, a partire dalle dichiarazioni dell'ex-ambasciatore Sergio Romano. Com'è il dibattito sulla guerra civile e sulla rivoluzione del 1936 oggi in Spagna?

In Spagna non c'è dibattito, bensì un oblio totale. Addirittura da' fastidio parlare della rivoluzione spagnola. Qui si parla di guerra civile, non di rivoluzione. Il termine rivoluzione disturba coloro che dominano i mezzi di comunicazione, mentre alla gente interessa, e molto. Del resto, i giornalisti sono rappresentanti del potere, e al potere disturba che si parli di rivoluzione.

Come sono stati accolti i tuoi libri in Spagna?

Vedi, io non sono solo l'autore ma anche l'editore e il distribuitore dei miei libri, e perciò non ricevo che l'eco della gente che li legge, che mi telefona e mi dice se gli è piaciuto o meno. Tutto ciò sta fuori dal commercio, non entra nei mezzi di comunicazione, non si commenta. I miei sono libri clandestini.

Nella polemica che c'è stata in Italia ci si è sempre dimenticati di citare gli anarchici, quasi che la guerra di Spagna possa essere ridotta allo scontro tra fascisti e comunisti. Eppure tu, come altri storici libertari, dimostri come, prima del '36, il peso del PCE (Partito Comunista Spagnolo) sia stato insignificante. Un capitolo significativo di Spagna '36: un anarchico nella rivoluzione si intitola per l'appunto Come creare un partito dal niente...

Il partito comunista in Spagna prima del '36 effettivamente non esisteva. Il marxismo non era mai riuscito a radicarsi in Spagna. Quello che successe è che Franco ebbe la necessità di giustificare il levantamiento contro il pericolo sovietico, come se la Spagna stesse per cadere sotto il dominio di Stalin. Ma questa è un'invenzione di Franco che non corrisponde alla realtà storica. La CNT prima del golpe militare aveva 1.400.000 affiliati, l'UGT socialista 1.200.000, e il partito comunista invece, in tutto il territorio spagnolo, non contava più di 8-10 mila affiliati: quindi il comunismo non costituiva nessun pericolo. Il pericolo, in questo caso, erano gli anarchici: dal '31 infatti si stava sviluppando un processo rivoluzionario che andava crescendo e i pilastri della reazione spagnola - l'aristocrazia, la chiesa, l'esercito - vedevano messi in pericolo i loro privilegi e cercarono in ogni modo di bloccare questo processo. In realtà ci riuscirono, perché le conseguenze del levantamiento sono state terribili: l'anarchismo, dopo pochi mesi di guerra, non era già più quello di prima. Alla fine del conflitto ci furono oltre 250 mila fucilati, in gran parte anarchici, ai quali si devono aggiungere le decine di migliaia di militanti libertari uccisi nel corso della guerra; inoltre, tutto quel gran movimento culturale che l'anarchismo aveva messo in moto - gli atenei libertari, la gioventù libertaria, i gruppi escursionistici e quelli vegetariani, ecc.- fu distrutto, e le conseguenze di questa catastrofe le stiamo ancora pagando.

Sergio Romano, nel tentativo di riabilitare Franco, ha sostenuto che il Caudillo ha salvato la Spagna dal comunismo e che se le forze repubblicane avessero vinto in Spagna ci sarebbe stato un regime stalinista...

Questa è una pura imbecillità: Franco salvò le classi reazionarie da una rivoluzione sociale che stava per scatenarsi e che non aveva nulla a che vedere con il comunismo staliniano. Era una rivoluzione molto... spagnola: la classe operaia e contadina che lottava contro tutto ciò che impediva la loro rivoluzione. Questo Romano non capisce nulla, o meglio da questa polemica si può comprendere che Romano è un reazionario, ed è normale che tra reazionari ci si intenda.

 

I soldi bruciati

Scusa se insisto, ma mi sembra un punto importante: non credi che, dato come si erano messe le cose a partire dal maggio del '37 (la sconfitta della rivoluzione e il consolidamento del potere degli stalinisti), una vittoria dell'esercito repubblicano avrebbe sancito l'instaurazione di un potere statale dominato dai comunisti? Romano sostiene appunto questo, che tale regime avrebbe assunto i caratteri del socialismo reale...

Non sarebbe andata così, non ci sarebbe stato né socialismo reale né irreale. E se i comunisti in Spagna hanno potuto assumere il potere che hanno assunto, lo si deve all'atteggiamento dei socialdemocratici francesi guidati da Leon Blum e agli inglesi, che inventarono il Comitato di non-intervento nella nostra guerra, un comitato che impediva di fatto il reperimento della armi e della materie prime di cui necessitava la repubblica. Questo comitato fu creato nel luglio del '36, e Stalin entrò nel conflitto solo dopo il 15 settembre. Furono dunque i governi inglese e francese a permettere a Stalin di entrare in guerra: se questi governi avessero adempiuto all'obbligazione che dovevano adempiere, Stalin non sarebbe intervenuto: se questo Romano non lo sa è un tonto. E naturalmente, dal momento che è la Russia l'unica a mandare le armi alla Spagna repubblicana - vendute e non regalate, perché si pagano a prezzo d'oro - il potere dei comunisti aumenta, anche in virtù del fatto che essi cavalcano la marea controrivoluzionaria e si presentano come il partito dell'ordine, difensore di una repubblica democratico-borghese: tutti quelli che erano stati feriti nei loro interessi dalla rivoluzione - la classe borghese, i proprietari, ecc. - si iscrivono al PC, rafforzandolo. A Stalin interessava dominare in Spagna non per instaurare un regime comunista ma per negoziare con gli inglesi e i francesi a partire da una posizione di forza e di rispettabilità borghese: si tratta di un gioco di tipo internazionale.

Veniamo ora ad un altro aspetto di quella stagione: la Barcellona rivoluzionaria del 19 luglio e dei mesi seguenti. Una città trasformata, che molti osservatori internazionali, non solo anarchici (George Orwell, ad esempio, nel suo Omaggio alla Catalogna), hanno narrato in termini entusiastici. Un'epopea che tu hai vissuto in prima persona e che hai descritto soprattutto in questo libro. Ricordi in particolare un episodio che ti ha particolarmente colpito, e che può far capire la differenza tra la vita prima e dopo la rivoluzione?

In realtà non c'è stato un episodio particolare, ma tutta la vita nel suo complesso cambiò radicalmente registro. Barcellona da un secolo era alla testa del movimento rivoluzionario, per cui in un certo senso è normale che anche in questo caso sia stata la guida della rivoluzione, un esempio per il resto della Spagna.
Il fatto stesso che senza la sollevazione popolare del 19 luglio che bloccò il colpo di stato militare a Barcellona non ci sarebbe stata guerra, perché i militari avrebbero conseguito una facile vittoria, la dice lunga sull'importanza che subito assunse questa città nella guerra rivoluzionaria.
Le rivoluzioni non producono miracoli: fanno solo affiorare quanto già esiste. Il carattere che contraddistinse la rivoluzione spagnola fu un effetto di quanto già sentiva e voleva la gente. Quella che era mancata fino ad allora era stata solo l'occasione: il 19 luglio la vittoria dei lavoratori sui militari è il detonatore, è ciò che offre l'occasione di mettere in pratica quello che già si pensava. Tutti i desideri si trasformano in realtà: di qui il carattere di fratellanza, il carattere poetico e di festa, di un mondo diverso.
Le rivoluzioni, se prima non si sono formate nella testa della gente, non possono produrre un carattere determinato. Magari sono delle minoranze quelle che già hanno chiara l'idea di cosa vogliono realizzare, ma anche in questo caso esse possono contagiare rapidamente la maggioranza, perché la rivoluzione è molto contagiosa: è un atto che scatena prima di tutto il sentimento della comunicazione personale, della fraternità, di quello che potremmo chiamare l'amore sociale. E' una forza spirituale, non materiale: il materiale viene dopo, ma all'inizio, quello che mobilita la gente è questo sentimento generalizzato, questa canzone collettiva che non la canta una persona sola ma mille e mille, e questo entusiasmo crea un ambiente completamente rinnovato.
Tutto questo fenomeno rivoluzionario noi l'abbiamo vissuto sulla nostra pelle: mano a mano che passavano le ore, non si è trattato di giorni, di mesi o di anni, ma di ore, la gente cambiava rapidamente, ma, ripeto, il cambiamento così repentino fu dovuto al fatto che la gente era già propensa a cambiare, era già sensibilizzata. La nostra non fu una rivoluzione improvvisata: per decenni la propaganda libertaria aveva diffuso le idee di come si sarebbero potuto far funzionare le fabbriche senza i padroni, di come i contadini avrebbero potuto lavorare la terra senza i latifondisti. L'anarchismo, nella rivoluzione, si fece carne nella carne. Le idee anarchiche erano penetrate nel cervello delle persone, anche di quelle che non si definivano anarchiche. Era come un virus entrato nell'organismo sociale.
Un aspetto veramente emblematico della rivoluzione, che ricordo mi colpì moltissimo, fu l'assalto collettivo alle banche. Si prendeva il denaro, ma non per metterselo in borsa: le gente lo prendeva per bruciarlo. Questo è molto significativo: per un marxista questo non ha nessun senso, invece per il popolo lo aveva, ed era precisamente la liberazione dalla schiavitù del denaro. Il denaro aveva rappresentato questa perdizione, aveva significato sfruttamento, avevamo sofferto la fame perché non avevamo denaro: "Aboliamo il denaro! Bruciamolo!", ed era come se la gente bruciasse se stessa per nascere di nuovo.
Questi episodi, insieme al rogo delle chiese, danno l'idea della nostra rivoluzione: fu una specie di pulizia quella che si fece. Nella nostra rivoluzione, i preti furono uccisi non perché erano preti, bensì perché tenevano armi nella sagrestie, perché sparavano sul popolo. Io non conosco nessun caso in cui un prete fu ucciso perché era un prete.

Violenza difensiva

Infatti la storia andò molto diversamente da come l'hanno raccontata i comunisti e gli storici liberali. I miliziani non erano quei sanguinari descritti da tutti quelli che volevano (e vogliono tuttora) screditare la rivoluzione spagnola...

Nessun anarchico fu sanguinario nella nostra rivoluzione. Un vero anarchico non è né sanguinario né violento. Un anarchico usa la violenza come una fiera condannata alla morte o alla cattività. Questo fu il nostro caso: se ti attaccano devi difenderti, ne va della tua sopravvivenza. La violenza anarchica fu e deve essere una violenza difensiva. Gli anarchici nel nostro passato tirarono le bombe? Si, certo, in alcuni momenti sono state tirate delle bombe, ma questo accadde perché le tiravano a noi!
La "legge di fuga", ad esempio: mettevano in carcere i compagni e poi, nei tragitti tra le carceri o le aule giudiziarie li assassinavano, affermando poi che avevano tentato di fuggire. Spesse volte, poi, li andavano a cercare nella loro case e, davanti alle mogli e ai bambini, li assassinavano.
Ci si doveva difendere.
La violenza anarchica deve essere comunque solo difensiva: non si deve praticare la violenza per il gusto di praticarla.
Per esempio: durante la rivoluzione furono uccisi dei borghesi, dei noti sfruttatori, ma mai nessuno fu torturato. C'è molta differenza tra uccidere uno sfruttatore con un tiro di rivoltella e prendere un innocente e ucciderlo dopo averlo torturato. I comunisti durante i fatti di maggio prendevano gli anarchici, li torturavano, spesso li tagliavano letteralmente a pezzi e poi li uccidevano. Gli anarchici non fecero mai questo. Se c'era bisogno di uccidere hanno ucciso punto e basta: è una maniera di rivendicare la vita e la morte.

Nel tuo libro racconti del tuo percorso esistenziale durante la rivoluzione; dopo aver vissuto i primi mesi a Barcellona, ti sei poi trasferito in una collettività agricola: c'era molta differenza tra il modo di organizzare la vita rivoluzionaria in campagna rispetto alla città?

Sono due cose molte diverse, naturalmente. In campagna c'erano villaggi piccoli nei quali era facile organizzare l'economia libertaria, senza ricorrere a certe forme di burocrazia. Nella città grandi, come Barcellona, per la densità stessa della popolazione era tutto molto più difficile.
Allo scoppio della rivoluzione, io lavoravo in una officina meccanica ed ebbi modo di vivere e vedere la collettivizzazione industriale. Ad un certo punto, volli accertarmi di come andassero le cose nella campagne, così mi trasferii in una collettività agricola per sei mesi.

L'ultimo capitolo del tuo libro si intitola 1938: la morte della speranza. Ma c'erano ancora speranze dopo i fatti di maggio del 1937?

Naturalmente, perché tutti si pensava che quella era stata solo una battaglia. Solo sul finire della guerra, quando i fascisti avanzavano prepotentemente, allora ci si rese conto che la situazione era perduta, che si chiudeva un capitolo e se ne apriva un altro. E quel capitolo che si è chiuso, si è chiuso per sempre perché oggi ci sono condizioni storiche differenti.
Quando sono tornato a Barcellona, dopo aver vissuto nella collettività agricola, la città era già cambiata, perché c'era un processo controrivoluzionario permanente, però lo spirito rivoluzionario del popolo rimaneva sempre alto, e gli stessi fatti di maggio sono in un certo senso una dimostrazione della volontà rivoluzionaria della gente. La gente combatteva per la propria vita: si era organizzata un'economia, si era fatta esperienza nell'economia autogestionaria e la gente voleva mantenere questo stato di cose, non voleva tornare a lavorare sotto un padrone. E questo non era opera di quattro disgraziati, di quattro incontrolados come dicevano i comunisti: era un popolo intero che faceva la rivoluzione.

Tu allora eri membro delle juventudes libertarias, e, nonostante avessi solo 15 anni, avevi già fondato un gruppo di affinità di giovani anarchici, i Coyote dell'ideale: questo gruppo aveva percepito fin dall'inizio l'ambiguità nel confronti del potere di alcuni dirigenti cenetisti e faisti, la burocratizzazione dei gruppi esecutivi...

Tieni presente che è normale che a 15 anni noi vivessimo l'ideale in tutta la sua purezza, che non accettassimo che si facessero, come furono fatti, compromessi politici. Se li avessimo accettati a 15 anni, eravamo già morti: non conoscevamo la realtà storica in tutte le sue sfaccettature, e, oggi come oggi, riflettendo su quel tempo, posso arrivare a capire e al limite a giustificare buona parte di quello che accadde, ma allora no, non potevo...

Però la storia sembra aver dato ragione ai coyote dell'ideale e non a quei compañeros destacados che hanno accettato di entrare nel governo regionale catalano e poi nel governo centrale madrileno...

La storia ha dato ragione all'anarchismo, perché il potere corrompe. Quello che salva sempre è il sapere dire di no alle cose. A quindici anni come a ottanta, il no è sempre importante.

Il tuo libro si intitola: in spagnolo Viaje al pasado. Ma è un passato che può ritornare, in altre forme, o quella stagione è morta per sempre?

Il passato non può mai ritornare. Le idee invece, che hanno generato quel passato, sono permanenti nella società. Oggi il livello tecnologico, il grado di cultura, il modo di produzione rende la società molto diversa da quella spagnola degli anni trenta, ma le idee sono sempre quelle.
Nel '36 noi ci battevamo per avere le scarpe, perché andavamo scalzi, per mangiare un tozzo di pane, perché facevamo la fame, per la libertà, perché eravamo schiavizzati, per il diritto alla cultura, perché eravamo analfabeti: tutto questo oggi è apparentemente realizzato, per cui le necessità sono altre. Però lo spirito è sempre lo stesso, perché l'anarchismo, non mi stanco di ripeterlo, non è una teoria ma un fatto naturale, che si annida nella spirito dell'essere umano: è il suo desiderio di rivolta, il suo desiderio di non accettare l'imposizione; è una lotta permanente tra lo schiavo e il padrone. E questa lotta è una lotta anarchica. La società muta nelle condizioni storiche, però l'anarchismo sarà sempre presente nello spirito di coloro che si ribellano al padrone. Il padrone può assumere aspetti diversi, e lo stesso lo schiavo, ma la loro lotta sarà permanente e questa lotta è forse l'unica legge storica che si può rivendicare, la legge dell'eterna rivolta dell'individuo contro la società intenta a schiavizzarlo, come scrisse giustamente Elisee Reclus nel suo L'uomo e la terra.
Il nostro passato no, non può ritornare: però la tensione utopica, che sosteneva la nostra lotta, quella sì può ripresentarsi, perché, anche se con caratteri diversi, l'utopia libertaria ha sempre la stessa radice, che è la necessità per l'uomo di essere libero, in qualunque luogo e in qualunque tempo. Questo bisogno di libertà è connaturato all'essere umano: già quando nasci la prima cosa che fai è gridare, e se non gridi ti danno un'ostia perché tu gridi. Già sei un ribelle. Poi ti ammaestrano, la società schiavizza e domina il tuo istinto di libertà...

 

Nella testa della gente

Vernon Richards e altri hanno scritto il loro punto di vista sugli insegnamenti che si potevano trarre dalla rivoluzione spagnola: secondo te, quali sono i maggiori insegnamenti per l'attualità delle idee libertarie che possiamo ricavare da quell'esperienza?

Io credo che siano essenzialmente due: il primo è che le rivoluzioni non si producono mai nella stessa maniera, il secondo è che vanno preparate e, quando si verificano, bisogna lottare affinché la rivoluzione non si trasformi in un nuovo dominio bensì si sviluppi in tutte le sue potenzialità. Noi lo facemmo alla nostra maniera, però le condizioni storiche ci obbligarono a fare cose che non avremmo dovuto fare. Però, se non le avessimo fatte, io non so se sarebbe andata meglio o ancora peggio di come è andata.
Kropotkin disse che la rivoluzione è un processo di caos: quanto più si mantenga il caos, tanto più c'è la concreta possibilità che si formino uomini nuovi e che ci si dimentichi delle secolari strutture di dominio. Però, come si può mantenere una situazione caotica come quella descritta da Kropotkin in una città di due milioni di abitanti, quale era appunto Barcellona nel 1936, che deve trovare una forma di organizzazione, quale che sia, per approvvigionare i viveri, in poche parole perché la società continui a vivere?
La scommessa è dunque dar vita ad una forma libertaria di organizzazione che non ricada in un potere centralizzato, in un dominio istituzionalizzato. Però io non so quali potrebbero essere nel futuro le nuove forme di organizzazione che dovrebbero sorgere da un processo rivoluzionario.
Uno dei più gravi problemi dell'anarchismo oggi è senza dubbio un problema immaginativo: è necessario sì capire che l'organizzazione è indispensabile, però non qualunque tipo. I modelli classici di organizzazione libertaria sono superati dal tempo, bisogna inventarne altri. Quindi, non vi sono insegnamenti possibili, sotto questo particolare profilo, perché gli insegnamenti relativi ai modelli organizzativi oggi non valgono più.

Come vedi Barcellona oggi? Ci sono tensioni libertarie? Il fatto che l'anarchismo nel passato sia stato così importante e forte da produrre una rivoluzione in questa città significa ancora qualcosa oggi, oppure quella memoria si è persa?

Quando tornai a Barcellona dall'esilio, trovai un ambiente entusiasta: le gente nelle strade, uno spirito di festa, ed erano trascorsi già due anni dalla morte del Caudillo.
Un giorno, mentre ero al Comitato Regionale della CNT, arrivò un giornalista svedese che voleva fare una intervista a qualche compagno, e i compagni del Comitato Regionale mi chiesero se ero disponibile. Bene, il giornalista mi fece varie domande, e tra quelle una particolarmente diretta: "Quanti affiliati ha la CNT oggi?" Al che io a mia volta gli domandai: "Qual è la popolazione attiva spagnola? Dodici milioni? Bene, questi sono gli affiliati della CNT: il fatto è che adesso stanno dormendo, ma non preoccuparti che, quando si risveglieranno...".
Ora io a te do la stessa risposta. Non si può sapere cosa sta passando esattamente nella testa della gente: quello che penso è che se si osserva il comportamento generale non si può non essere pessimisti, però io non so se questo comportamento non celi in realtà desideri insoddisfatti, e possa arrivare un momento in cui le donne e gli uomini rompano le convenzioni abitudinarie e si ribellino.
Ho l'impressione che in Spagna oggi stiamo vivendo un periodo di compressione ma che questo non possa durare a lungo, perché la gente è insoddisfatta e tutto quello che le si da' è merda pura, e la gente non può vivere sempre di merda. A un certo punto, la gente vorrà mangiare una bella mela e non solo vermi, vermi e ancora vermi. Da questo punti di vista sono ottimista, però il mio ottimismo non consiste nel credere che una trasformazione libertaria possa prodursi domattina, però la situazione esiste, manca solo il detonatore che canalizzi tutte le angustie e le faccia erompere in superficie, come un vulcano che per molto tempo sembra inattivo, e poi d'improvviso...

L'idea che mi sono fatto io, infatti, è che qui esistano numerosi fermenti libertari. Ciò che mi stupisce è la mancanza di coordinamento tra i gruppi che fanno parte del movimento libertario (per esempio: il sindacalismo libertario è frazionato in tre inutili tronconi di cui due - la CNT e la CGT - sono in una continua e logorante polemica)...

Se ci fosse quel detonatore di cui ti parlavo prima, allora sì che ne vedremmo delle belle. Il fatto è che gli anarchici oggi sembrano aver dimenticato l'importanza della propaganda, la necessità di far circolare le idee fuori dalle sedi, o dai punti di ritrovo del movimento. _ necessaria una nuova forma organizzativa capace di comunicare con la gente, perché senza un capillare lavoro di propaganda non ci potrà essere niente. Solo la diffusione delle idee potrà forse permettere, in futuro, una accelerazione storica, non certo le rapine alle banche o lo spaccare i vetri, come taluni pensano.

 

Diego Camacho e i suoi libri

Diego Camacho, dopo la disfatta repubblicana, come altre centinaia di migliaia di persone, è costretto all'esilio in terra francese, dove i rifugiati vengono "accolti" dal governo di sinistra nei campi di concentramento.
Partecipa alla resistenza libertaria clandestina contro Franco, e in una delle missioni per conto della CNT-FAI viene arrestato. Passerà 11 anni nelle carceri franchiste, dove subirà anche una simulazione di fucilazione da parte del plotone di esecuzione.
Dopo la morte di Franco, torna in Spagna dove partecipa alla ricostituzione del movimento libertario, che nei primissimi anni di democrazia sembra poter ritornare un movimento di massa (la CNT raggiunge in pochi mesi otre 100 mila iscritti).
Attualmente vive a Barcellona, dove lavora (sta ultimando un libro sul Marocco nel 1936). La sua opera più importante è la biografia di Durruti, tradotta in molte lingue (francese, italiano, portoghese, tedesco, greco, turco, inglese). Tra i suoi libri, vanno annoverati i quattro volumi dell'autobiografia, stampati e distribuiti nella calle dallo stesso autore (Chumberas y alacranes 1921-1936, Barcelona 1994; Viaje al pasado 1936-1939, Barcelona 1995; Entre la niebla 1939-1942, Barcelona 1993; Al pie del muro 1942-1954, Barcelona 1991); un libro sulla Colonna di Ferro (Crònica de la Columna de Hierro, ed. Hacer, Barcelona 1984); un libro bellissimo sugli esordi dell'anarchismo in Spagna (Los Internacionales en la Region Española, ed. del Autor, Barcelona 1992; uno studio sui primi anni della CNT in esilio (CNT, 1939-1951, ed. Hacer, Barcelona 1982); una esposizione sintetica della guerra di Spagna (Guerre d'Espagne, ed. Hazan, Paris 1997), un libro sulla sollevazione del 19 luglio a Barcellona (19 de julio del "36" a Barcelona, ed. Hacer, Barcelona 1988). In italiano sono usciti alcuni suoi saggi sulla rivista Volontà, e una edizione ridotta dell'opera su Durruti (Durruti, cronaca della vita, ed. La Salamandra, Milano 1980), che ora sta per uscire nella versione integrale per le edizioni Biblioteca Franco Serantini di Pisa. Ha inoltre collaborato alla stesura del libro fotografico su Durruti, edito internazionalmente per conto di alcune case editrici libertarie tra cui la Zero in Condotta italiana nel 1996.

 

Leggere la rivoluzione

Carlos Semprun Maura, Libertatad. Rivoluzione e controrivoluzione in Catalogna, ed. Eleuthera, Milano 1996
George Orwell, Omaggio alla Catalogna, ed. Mondadori, Milano 1993
Camillo Berneri, Guerra di classe in Spagna, ed. RL, Genova 1979
Hans Herich Kaminski, Quelli di Barcellona, ed. Il Saggiatore, Milano 1966
José Peirats, La CNT nella rivoluzione spagnola, ed. Antistato, Milano 1977
Vernon Richards, Insegnamenti della rivoluzione spagnola, ed. Vallera, Pistoia 1974
Cipriano Mera, Rivoluzione armata in Spagna, ed. La Fiaccola, Ragusa 1978
Octavio Alberola, Appunti critici sul movimento libertario spagnolo e la CNT, ed. La Fiaccola, Ragusa 1979
Anselmo Lorenzo, Il proletariato militante, ed. Anarchismo, Catania 1978
Aa.Vv., Chi c'era racconta. La rivoluzione libertaria nella Spagna del 1936, ed. Zero in condotta, Milano 1995
Hans Magnus Enzensberger, La breve estate dell'anarchia. Vita e morte di Buenaventura Durruti, ed. Feltrinelli, Milano 1996
Aa.Vv., Durruti 1896-1936, ed. Anselmo Lorenzo, Active/Beastie, Nautilus, Zero in Condotta, L'insomniaque, Madrid, London, Hamburg, Milano, Paris 1996
Aa.Vv., Spagna 1936: l'utopia è storia, "Volontà" n. 2 1996, Milano
Aa.Vv., Spagna '36: guerra e rivoluzione, "Volontà" n.4 1986, Milano