Rivista Anarchica Online


i borghesi
son tutti ...

a cura di Carlo E. Menga

Vale anche per la pubblicità ciò che per una parte della pubblica opinione progressista vale per il progresso scientifico, per i mezzi di comunicazione di massa e altri simili concetti più o meno ideologizzati; e cioè che, in sé e per sé, certi oggetti o fatti o istituzioni non sono dannosi o negativi se non per l’uso che di essi fanno gli uomini o la società. Fatte salve, naturalmente, le dovute eccezioni relative a quei casi particolari in cui l’opinione di cui sopra si è stratificata su un paradigma decisamente negativo, o in cui la situazione paradigmatica è ancora fluida, la discussione è in corso e non si è ancora stabilizzata una precisa tendenza. Oltretutto, un vero e proprio Oppenheimer del Villaggio Globale non si è ancora fatto vivo, per quel che ne so io. Per cui non sarò io a esprimere un giudizio di valore sul dato di fatto che, da sempre, la pubblicità non è stata veicolo di convincimento di esclusiva applicazione al campo commerciale, ma sia stata abbinata anche a quello religioso, politico, artistico, ecc. Un marxista potrebbe obbiettare il maggiore peso, se non addirittura la più profonda “realtà” della struttura economica rispetto alle altre, considerate sovrastrutture, e ricondurre con abile mossa riduzionistica queste a quella. Non voglio addentrarmi in questa polemica. Mi accontento di mettere a dimora qualche piantina nata dal seme del dubbio, sostenendo la mia opinione del tutto personale che il riduzionismo, soprattutto applicato al campo dell’attività umana e dell’interazione sociale, porti con sé l’odore sulfureo di un’operazione da occamista pazzo, sia pure animato dalle migliori intenzioni, delle quali, si sa, è lastricata la via dell’inferno. Per qualcuno questa via parte da Parmenide ed Eraclito e arriva a Marx e Freud. E ancora non se ne accorge la fine.
Ciò premesso, vorrei sottoporvi un caso in cui nell’ambito applicativo del messaggio pubblicitario sembra essere indistinguibile la natura politica_ da quella commerciale. La mia “idea progressista” è che la politica e il commercio, nonostante a qualcuno (come me) possano stare più o meno cordialmente antipatici, di per sé non sono né buoni né cattivi. Il male sta nell’uso ideologico che se ne fa.
Si tratta di un manifesto murale contenente uno slogan a firma della Confcommercio: UN MERCATO SENZA REGOLE NON HA FUTURO. DIFENDIAMOLO INSIEME.
Ma come? - si dirà - per lustri non hanno fatto altro che plaudire a ogni vittoria della deregulation, al neoliberismo (veteroliberalismo) trionfante, al nuovo che avanza, al mercato libero (è quasi un segno divino, questa metànoia degli ultimi trent’anni dal “libero amore” al “libero mercato”. Nessuna meraviglia che s’ascoltasse nel prossimo futuro qualche ‘Gott mit Uns’ da parte di qualche riapertore di case chiuse. Forse c’è sotto qualche marxiana struttura economica). E ora sentono il loro territorio di caccia, il mercato, affamato di regole e minacciato da chi apre un negozio senza licenza solo perché il locale è di 300 mq, e sono pronti a far serrate (“l’armi, qua l’armi. Io solo combatterò. Procomberò sol io”) e a insorgere contro il Feroce D’Alema e il Malvagio Veltroni che nell’ombra manovrano il Tortellino Prodi? Alla faccia del liberismo: pronta a ritrattar la dottrina del Cardinal Berlusca senza neanche un “eppur si muove”, pronta a far ciompi al primo attentato a un po’ di miliarducci in tessere e iscrizioni, la corporazione della bresaola e della griffe! Gli alfieri del gorgonzola e della scarpa, vessati e tartas sati dalla minimum tax, piangenti miseria agli sportelli postali versan do la tassa sull’insegna, casistici sottili, volevano in realtà la deregu lation del mercato finanziario, non di quello commerciale, per poter liberamente investire l’I.V.A. evasa nel primo, e liberamente mantene re i propri privilegi nel secondo. Quel governo di comunisti e allocchi non aveva capito niente, facendo proposte irresponsabili basate sull’ingenua ipotesi che il termine ‘libertà’ avesse al massimo due o tre significati differenti, non i “reali” 16.715 che, volendo, gli si pos sono attribuire a seconda degli interessi dei panciuti borghesi! Senza volerlo, sono loro i primi a dare ragione a Marx, con la loro stessa esistenza. È subito chiara la natura del messaggio: ancora una volta economica, commerciale, ma camuffata da politica. Dichiarano di servire Dio e intanto servono Mammona.
Che strana razza, che strane pretese: vogliono un “mercato libe ro” e regole per un “futuro”; vogliono continuare a “mangiare ananas e masticare fagiani” e pretendono altresì di avere comunque un “domani”; vogliono “la botte piena” e “la moglie ubriaca”; essere “grassi” senza essere “lerci”. Poveri bottegai, amabili salsamentieri, piccoli borghesi ... !

Carlo E. Menga