Rivista Anarchica Online


Un caso esemplare
di Carlo Oliva

Accusata di esser stata la “postina” della
rivendicazione dell’attentato del 25 aprile ’97
al Comune di Milano, Patrizia Cadeddu è
stata condannata lo scorso giugno senza uno
straccio di prova.
A riprova che...

Illustrazione di Natale Galli
Illustrazione di Natale Galli

 

 

Se il dibattito politico ideologico si svolgesse davvero in base ai valori che ostenta e sugli obiettivi che dichiara, della condanna a cinque anni di reclusione, più le pene accessorie, inflitta l’8 giugno scorso a Patrizia Cadeddu dai giudici del tribunale di Milano, si sarebbe dovuto discutere a lungo e con grande clamore. Era il periodo, come ricorderete, in cui i media e le forze politiche facevano un gran parlare di giustizia, garantismo, di poteri (o strapoteri) della magistratura, dei diritti dei cittadini inquisiti o imputati, del potere delle Procure e della prevalenza, supposta o negata, delle ipotesi accusatorie sulle considerazioni di merito. Ed è poco ma sicuro che ben di rado, nella storia giudiziaria recente, una condanna così severa è stata inflitta in base a elementi tanto evanescenti. Patrizia Cadeddu, accusata di essere, come si è detto, la “postina” della rivendicazione dell’attentato al municipio di Milano del 25 aprile 1997 è stata ritenuta colpevole esclusivamente in base all’asserito “riconoscimento” di un’immagine video, quella recepita dall’impianto di sicurezza della sede della redazione di Radio Popolare di Milano, dove la rivendicazione era stata recapitata, senza tenere in alcun conto il fatto che quell’immagine, in realtà, era ben poco riconoscibile e, anzi, data la sua pessima qualità, per poter essere in qualche modo presentata in tribunale era stata necessariamente rielaborata per via elettronica. Un caso da manuale, quindi, di garantismo negato e di capovolgimento del principio della presunzione d’innocenza, come a dire di applicazione di un teorema accusatorio fondato, evidentemente, su elementi extragiudiziali.

Dibattito pretestuoso

Be’, di questo caso esemplare, evidentemente, non è importato niente a nessuno, almeno a livello di media e di forze politiche ufficiali (per non dire di “A”, che tanto ufficiale non dovrebbe essere, ma che, pure, nel n. 247 ne ha riferito nella misura minima di un trafiletto, il che è piuttosto scandaloso e speriamo solo sia imputabile a qualche motivo di forza maggiore, come le scadenze redazionali, e non a una deliberata volontà di minimizzazione). A prova del fatto che il dibattito sul garantismo, in nome del quale, pure, si sono compiuti gesti politici di una certa rilevanza, come l’affossamento della Bicamerale, e sul quale sembrano ancor oggi giocarsi, a livello parlamentare, i rapporti tra governo e opposizione, si rivela, all’applicazione concreta, largamente pretestuoso e poco o nulla interessato alla difesa dei diritti dei cittadini. Quanto basta per far capire a chiunque che i potenti che hanno chiesto a gran voce certe garanzie, in realtà, chiedevano soltanto delle immunità per sé e per i loro amici e che gli editorialisti eminenti che si indignavano per certi comportamenti della magistratura e ne proponevano una nuova e più ragionevole organizzazione lo facevano in vista di interessi di parte (il che è un peccato, perché la proposta di separazione delle carriere inquirente e giudicante non è, checché se ne dica, un’ invenzione o un monopolio della destra, ma un’ipotesi sulla cui logica varrebbe la pena di confrontarsi).
Tutte queste, badate, non sono illazioni polemiche. Quel che si è visto, in sostanza, è che quando una sentenza che dovrebbe dar scandalo colpisce qualcuno che non ha nulla a che fare con i poteri forti e, anzi, persegue (anatema!) un progetto politico antagonista, essa non scandalizza proprio nessuno. L’antagonismo politico, in qualsiasi forma si manifesti, non ha, nel nostro sistema, diritto a garanzie di sorta.
Questo, naturalmente, significa che i diritti dei cittadini vengono ancora valutati in base a criteri che ben poco hanno a che fare con quei principi della democrazia liberale di cui tutti, pure, si riempiono la bocca. Che sarà forse un’ovvietà, ma non di quelle da trascurare. È vero che i principi della democrazia liberale sono contradditori con la sostanziale illiberalità e antidemocracità della società in cui viviamo, ma è proprio su questa contraddizione che deve lavorare chi persegue una trasformazione davvero significativa del sistema. L’indifferenza che è stata dimostrata in merito anche da quanti, pur affermando di sostenere le affermazioni di innocenza di Patrizia Cadeddu, hanno trascurato completamente il problema, preferendo - magari - inventarsi di sana pianta chissà quali responsabilità di Radio Popolare e contro di esse inveire non è esattamente un segno tranquillizzante.

Limitarsi a inveire?

C’è un’altra costatazione ovvia che non è il caso di trascurare. Una volta di più i professionisti dell’informazione non hanno esattamente dimostrato di avere, in materia, grandi capacità (o volontà, o possibilità) di giudizio autonomo. Persino la notizia, in sé piuttosto eclatante, del recente pronunciamento con cui la sezione feriale dello stesso tribunale, ai primi di settembre, ha respinto le istanze della difesa, negando a Patrizia Cadeddu la libertà provvisoria o, in subordine, gli arresti domiciliari e dimostrando, diciamo così, una severità ancora maggiore di quella dell’accusa, che a quest’ultimo provvedimento non si era opposta, è stata largamente ignorata dalla stampa. I pochi che ne hanno parlato si sono limitati a far notare che, tanto, l’ipotesi degli arresti domiciliari l’aveva già rifiutata, in giudizio, l’interessata, come se il fatto che qualcuno rinunci, del tutto legittimamente, all’esercizio di un proprio diritto esenti chi ha il dovere di assicurargliene il godimento dal farlo. Ora, che dei mezzi d’informazione non ci si possa fidare più di tanto, è cosa fin troppa nota. Il problema è quello del come reagire di fronte a certi casi plateali: se basti, anche in questo caso, limitarsi a inveire, o se non sia il caso di cercare di migliorare le proprie capacità di informazione alternativa. Ma questo, naturalmente, è un altro discorso.

Carlo Oliva

 

“...i diritti dei cittadini
vengono ancora valutati
in base a criteri
che ben poco
hanno a che fare
con quei principi
della democrazia liberale
di cui tutti, pure,
si riempiono la bocca.”