Rivista Anarchica Online


 

 

Con il dialogo e l’esempio

Cari amici,
come sapete il termine “anarchico” e “anarchia” sono comparsi più del solito nei mass-media ultimamente, utilizzati molto spesso (volontariamente) a sproposito.
È comparso anche un termine nuovo: “squatter”, che, come un magnete, ha attirato a sé quanto di negativo girasse per le teste dei “cittadini medi” in questo periodo.
Normalmente in questi casi avviene che posizioni complesse e frammentate si polarizzino contro il “nemico comune”: anarchici-autonomi-comunisti-”alternativi”-immigrati v. s. piccolo, medio borghesi-moderati-cattolici-anziani-conservatori-leghisti-fascisti. In questo modo, come sotto una guerra, ogni azione compiuta da chi si riconosce in una parte non può essere criticata o ripudiata dalla stessa, pena diminuzione della compattezza, quindi debolezza, di una parte rispetto all’altra.
È sicuramente quello che qualcuno spera.
A mio avviso è un enorme pericolo; come sempre, la perdita dell’individualità nella massa comporta la deresponsabilizzazione delle azioni individui. Ed è quanto di più antilibertario possa succedere.
Gli avvenimenti recenti mi sono serviti da supporto per riflessioni più generali, che non vogliono comunque avere pretese nomologiche o dogmatiche.
Se il messaggio libertario è un messaggio universale1, che mira a liberare l’umanità dagli effetti devastanti del potere (avevo sentito una volta in un film, penso con Mastroianni, “il potere ammattisce; i poveracci diventano matti perché non ce l’hanno, i potenti perché ne hanno troppo”), allora come metro delle nostre azioni, un elemento dovrebbe essere esaltato all’ennesima potenza: l’empatia, il sapersi mettere nei panni degli altri.
Ognuno di noi è portatore di una cultura e le differenze culturali sono tanto più vaste quanto più distanti sono gli ambienti in cui un individuo è cresciuto e ha socializzato. Naturalmente la prima socializzazione non è l’unico elemento che determina le nostre scelte, però ha un peso non indifferente.
Quando gli ambienti socio-culturali (ma anche geofisici) sono molto distanti (come ad esempio, l’Italia ed il Giappone), anche i linguaggi sono diversi. Il linguaggio non è solamente la comunicazione verbale, ma anche il modo di esprimere le proprie emozioni, le metafore e le immagini che si usano per farsi capire, le associazioni di idee, insomma il modo di vedere il mondo. Pensate al dialogo tra un medico e uno psicologo sulla diagnosi da fare ad un loro paziente: il medico imputerà la malattia a cause biologiche e vorrà curarla con medicinali; lo psicologo dirà che i sintomi biologici sono in realtà reazioni a stress psicologici, ad uno shock subito da bambino a istinti repressi. I due non si metteranno mai d’accordo fino a quando non capiranno che parlano due lingue diverse, vedono la stessa realtà da due punti di vista diversi (quello delle scienze naturali e delle scienze sociali).
Accade più o meno lo stesso tra un giovane che frequenta centri sociali e un impiegato di mezza età di origini contadine o tra un comunista e un fascista. Abbandonate le rispettive retoriche, false conoscenze e menzogne pretestuose, ognuno porta dei punti di vista e dei problemi che meritano di essere presi in considerazione. Nessuno è completamente nel giusto o nel torto. E crederlo significa diventare preda di chi vuole strumentalizzare un qualsiasi conflitto a proprio vantaggio (vedi vari nazionalismi etnico-religiosi nell’ex-Jugoslavia, e non solo).
Dirò di più, non esistono un giusto o un torto “naturali” e assoluti; sono concetti completamente arbitrari e, una volta preso coscienza di questo, le conclusioni che un libertario, a mio avviso, dovrebbe trarre, sono che devono essere decisi situazione per situazione da comunità “tolleranti” con il contributo di più punti di vista possibili.
Un’umiltà intellettuale che non si giustifica con ragioni metafisiche, come quella cristiana ma su un’utilità e una razionalità nel lungo periodo e, secondo me, su una necessità in un mondo globalizzato, dove culture diversissime entrano in contatto (non possiamo più permetterci le certezze).
Ecco che l’essere anarchico, in questo contesto, potrebbe diventare un grande vantaggio, per il suo rifiuto del dogmatismo, di certezze preconfezionate e vere per sempre.
L’anarchico deve farsi portatore di un punto di vista “vagante”, capace e disposto a vedere le cose da diverse angolazioni e dovrebbe aiutare ed incitare chi ha una visione rigida all’interculturalità. Per far questo deve sganciarsi da certe rigidità positivistiche e rinunciare alla contrapposizione frontale e all’incomunicabilità con certe categorie di persone. Odiare e contrastare delle idee è lecito, ma far coincidere le idee con le persone, secondo me è un errore.
Non sto parlando di corporativismo che presupporrebbe l’accettazione dei paradigmi economici, culturali e politici dominanti, in cambio di una parziale redistribuzione delle ricchezze, delle libertà di espressione e dei diritti politici (insommo il compromesso necessario dello stato sociale), ma della compressione di particolari bisogni che potrebbero essere alla base del consenso di molte persone verso istituzioni e idee politiche o ad azioni di segmenti della classe economica (che a mio avviso è lungi dall’essere un blocco compatto e omogeneo e, più che dominante, dovrebbe essere considerata influente).
È molto più probabile convincere un fascista della schifezza delle sue idee con il dialogo e con l’esempio, che non insultandolo o pestandolo, o no? A meno che l’obiettivo dell’uso della violenza non sia un altro, cioè sfogare così la propria insoddisfazione personale per la vita che si conduce o rafforzare a coesione interna del gruppo grazie al nemico comune e quindi il potere dei leaders (anche informali) sui suoi membri.
Saluti libertari.

Giulio Frasson
(Treviso)

1) “messaggio universale” non deve essere confuso con “omogeneità” soluzioni “organizzative”, anzi, semmai auspico l’esatto contrario.

Verso l’estinzione

Penso sia un vero peccato che non esistano predatori naturali della specie umana.
In certe zone del globo ci riproduciamo a dismisura, in altre troppi sopravvivono, vecchissimi o malati e malridotti.
L’ultimo rapporto dell’autorevole, quanto attendibile, WorldWatch Institute parla chiaro sui danni arrecati all’ecosistema della smania di adattare gli ambienti agli interessi dell’uomo (considerato l’unica forma di vita con dei diritti) e sull’inesauribile esaurirsi delle le risorse indispensabili.
Con gli ungulati in eccesso nei boschi o i troppi elefanti africani sappiamo cosa fare: gli spariamo.
Più raramente, cerchiamo di ricostruire gli equilibri naturali reinserendo i predatori delle specie in eccesso, quegli stessi predatori che avevamo in precedenza sterminato.
Purtroppo, siamo proprio noi, che ci troviamo alla fine della catena alimentare, ad essere, per questo mondo, la specie maggiormente dannosa ed in soprannumero.
Credo che la natura, da sempre provvida e materna, finirà col vomitarci.
E l’unica eredità di nostra spettanza sarà l’esistenza.

Cristina Rufina
(Milano)

Nel Far West di Voghera

A Voghera, cittadina di provincia, con le case anni ’50 ed i cittadini pure sono rimasti tali la polizia è fitta come i capelli (come dicono i rom.) Hanno la mitraglietta, il colpo in canna e sparano a vista!
Hanno la Lega.
Tiro al bersaglio bisogna sparare, se no cosa ti danno in mano il fucile a fare? Ti devi guadagnare la vita, mica puoi solo guardarlo È tuo! Qualcosa devi fare. Appena hai l’occasione: BUM! Bravo! BUM! Ancora! ma questa volta il bersaglio è l’”UOMO”...
L’eroe che ha sparato due giorni fa, nella caccia all’”UOMO”, ha colpito un rom (parte in fuga) senza identificarsi, su una PANDA bianca qualunque ed in borghese. Siamo arrivati a tanto in questa città di provincia.
BUM! BRAVO - ancora! BUM!...
Come si diceva l’eroe ha colpito un rom e la pallottola ha raggiunto la schiena e quasi vicino all’osso.
Perfetto, direi, il sistema di “immobilizzare” uno ed anche senza preavviso - da non so chi - BEL COLPO!
È andata bene, nel senso che “non” è morto...! o forse era quello che si voleva....?
Non si sa - forse una disgrazia - si dice a volte in certe situazioni. La disgrazia di essere andati a Voghera? o disgraziato quel disperato che aveva bisogno di sparare altrimenti era “NESSUNO” o si deve guadagnare il pane così...?
Mestieri per vivere.
Ora sarà un vero eroe - avrà tutte le sue stellette sul petto o che altro, ma l’”ALTRO”, il rom, si tiene il suo ricordo.
Una bella pallottola nella schiena e più avanti una bella cicatrice per tutta la vita dopo un intervento e a memoria di quell’evento in quel famoso giorno... a Voghera.
Segni sul corpo.
Segni nel cuore di intolleranza e spasmi di gente armata che non esita a far fuori uno. Ma per cosa? per vivere; e fa morire!
Se la cosa andava male, il giovane rom lasciava la moglie gravida e due bambine piccole. Altre stellette? o avanzamento di carriera? Ma si pensa chi è dietro al bersaglio? A chi è “il bersaglio”?
...Un uomo - una famiglia dei bambini...
Il giovane rom avrà sbagliato e rischiato - per vivere - ma ha pagato caro tutto quanto e non è finita qui. Speriamo che dopo l’intervento tutto vada liscio anche se resta ancora in sospeso il giudizio del suo gesto in tribunale.
Questo fatto però passerà liscio, di questa storia del colpo in corpo non si discuterà, c’è chi approverà.
La divisa non si tocca - è là a posta - a difendere ed offendere.
Messa da chi di dovere e di doveri pare non ce ne sono altri.
Questo è il Far West di Voghera.
Domani forse altre città vivranno questo momento.
Mestieri per vivere e sopravvivere, ma qualcuno ancora purtroppo con licenza di uccidere...!!!!
Sono favole rom? sono fatti di vita.
Racconti da chi conosce la vita dei rom e lotta per la loro sopravvivenza. ù

Giovanna Lodolo
(Milano)

Perplessità sull’AIDS

Cari compagni, giustamente ci invitate ad esplicitare meglio le nostre perplessità riguardo all’articolo che tratta dell’AIDS sulla vostra rivista del giugno ’98.
Il fatto è che ci sembra che ci si accordi all’interpretazione ufficiale dell’AIDS - magari colorandola con linguaggio sinistrese - e ciò dispiace quando ciò avviene su di una rivista che si definisce anarchica e che dovrebbe essere - forse - più attenta alle trappole ideologiche istituzionali (e soprattutto vi è di mezzo la vita dei bambini).
Ma procediamo con ordine.
Il dissenso sulle teorie ufficiali dell’AIDS sembra che abbia dimostrato, senza ombra di dubbio, i seguenti 2 punti:
a) l’AIDS non è una malattia che si trasmette per contagio (il virus HIV non ne ha alcuna colpa)
b) l’AIDS è provocato dall’uso di droghe e da fattori tossici ambientali e in particolar modo AZT e farmaci similari (le “cure” per l’AIDS)
In altre parole, il circolo vizioso che si instaura è il seguente:
3) vengono fatte ammalare persone sane,
4) queste vengono quindi sottoposte a trattamenti altamente tossici che le aggravano,
5) in conseguenza di ciò, vengono convinte a proseguire la “cura” e si ritorna al punto 2.
Per continuare ad alimentare questo ciclo, vengono investiti colossali capitali in propaganda e pubblicità da parte delle case farmaceutiche e da quelle istituzioni “preposte alla salute dei cittadini” anche loro espressione delle case farmaceutiche.
Vi sono poi anche buisness collaterali, tipo quello dei produttori di preservativi e le finte associazioni di solidarietà ai malati di AIDS.
La propaganda sulla questione dell’AIDS è talmente massiccia che tende ad autoalimentarsi acriticamente e coinvolge anche persone e associazioni in assoluta buona fede.
Le uniche organizzazioni di carattere politico che si oppongono all’offensiva ideologica istituzionale in questo campo sono - a quanto ci risulta - vari gruppi che, in un modo o nell’altro, si richiamano agli ideali dell’Anarchia.
Per concludere, vi proponiamo un brano tratto dal recente libro di Duesberg AIDS il virus inventato, che ben si adatta al tema specifico dell’articolo e che può servire a mo’ di recensione.
«Lindsey era una bambina sana e felice, di struttura minuta come i suoi genitori naturali. I Nagel (genitori adottivi, N.d.R.) la portarono a fare un check-up completo in una clinica di Minneapolis. Gli esami fatti comprendevano anche il test per l’HIV e, con stupore di tutti, Lindsey risultò sieropositiva. (...) La piccola sembrava il ritratto della salute, ma ai Nagel fu detto che aveva il mortale “virus dell’AIDS”».
Poi cominciò l’incubo. (...) A Lindsey fu prescritta una medicina, Septra (un sulfamidico noto in Italia col nome di Bactrim, N.d.R.), da prendere tre volte alla settimana. (...) Ma data la presenza di anticorpi anti-HIV, la dottoressa voleva rallentare la comparsa dell’AIDS. Prescrisse l’AZT (...).
Come Septra, anche l’AZT è prodotta dalla Burroughs Wellcome. Entrambi i farmaci hanno effetti tossici (...). (...) l’AZT distrugge le cellule che si moltiplicano nel corpo, provocando ulcere ed emorragie; danneggia i follicoli piliferi e la pelle; distrugge i mitocondri (le strutture cellulari che producono energia); provoca distrofia dei muscoli e distruzione del sistema immunitario e di altre cellule del sangue. I bambini sono colpiti in modo più grave, perché hanno molte più cellule che si moltiplicano degli adulti. (...)
Ignari della tossicità di questo farmaco controverso, i Nagel somministrano scrupolosamente lo sciroppo di AZT alla loro bambina quattro volte al giorno. (...) la loro bambina dava segni di peggioramento. Anche se aumentava leggermente di peso, il suo tasso di crescita cominciava ad essere inferiore a quello normale per i suoi cinque mesi. Inoltre stava perdendo l’appetito e, per il vomito, non riusciva a bere il latte (...).
(...)Dopo aver sentito altri scienziati che dissentivano sull’ipotesi dell’HIV, i due genitori si fecero un’idea chiara della situazione. (...) ...smisero di somministrare il farmaco alla loro bambina. Il cambiamento che questo operò in Lidsey stupì gli stessi genitori: sospeso l’AZT, Lindsey è diventata una bambina “nuova” quasi nel giro di una notte... Ha cominciato a mangiare due o tre volte tanto rispetto a prima. (...) Aveva un comportamento molto più calmo. (...) Il suo era un cambiamento come dal giorno alla notte. (...)
Lindsey continua a non prendere più l’AZT e altri farmaci tossici. La sua curva di crescita continua, non presenta malattie insolite e il suo sviluppo è normale. Nel 1994, a due anni di distanza dai crampi alle gambe provocati dall’AZT, è diventata una piccola star della scuola di danza classica locale. E il 15 ottobre 1995 Lindsey ha celebrato il suo quinto compleanno - con HIV e senza AZT - in ottima salute. Secondo le autorità sanitarie avrebbe già dovuto morire di AIDS, perché si calcola che i bambini sieropositivi sopravvivono solo circa due anni (...)
Saluti e buon lavoro!

La redazione di Liberamente
(Firenze)

Voix Vulgaires #2

È finalmente disponibile, dopo i numerosi incidenti tecnici che ne hanno ritardato (...ma non impedito!) la pubblicazione, il secondo volume della raccolta “Voix vulgaires”, un’iniziativa internazionale a sostegno di A/Rivista Anarchica.
La raccolta, curata dal nostro collaboratore Marco Pandin, comprende oltre un’ora di musiche, poesie e canzoni.
Ecco la lista dei partecipanti:
Linton Kwesi Johnson (UK)
Leseko Rampolokeng e Kalahari Surfers (Sudafrica)
Peeni Waali (CH/Nigeria/etc.)
Rhythm Activism (Québec)
Etron Fou Leloublan e Fred Frith (F/UK)
Mitili FLK (Friuli)
Caveman Shoestore (USA)
Jello Biafra (USA)
Eugene Chadbourne (USA)
Camping Trip (USA)
Crass (UK)
Stefano Giaccone (Italia)
Blackbird (Hong Kong)
Lady June (UK)
Lalli (Italia)
Tony Coe Orchestra (F/UK/etc.)
Marco Giaccaria (Italia).
Le registrazioni comprendono anche un’intervista a Che Guevara ed un frammento tratto da un discorso del Subcomandante Marcos, più altre brevi fotografie sonore.
Al compact disc è allegato un libretto che contiene, oltre alle note tecniche e ai testi, contributi scritti di Victor DeBros (CH) e Franco Fabbri (Italia).
La diffusione non avviene tramite il circuito commerciale.
Il cd si può richiedere alla Redazione di A/Rivista Anarchica, effettuando un versamento di 20,000 lire (per ciascuna copia richiesta, spese postali incluse) sul c/c n. 12552204 intestato ad Editrice A, Milano.
I diffusori, nonchè i gruppi anarchici e libertari che desiderino utilizzare copie di questo cd (e della precedente iniziativa a sostegno di A/Rivista Anarchica “Voix vulgaires #1”) come finanziamento delle proprie attività, possono usufruire di condizioni particolari. Per maggiori informazioni contattate la Redazione: casella postale 17120 20170 Milano, tel./fax 02-2896627.
Prossime iniziative: edizione speciale del 2cd di Franti “Non classificato” disponibile da gennaio 1999.

 

 

Sarà sempre così

“La rivoluzione non russa ma in carcere si muore di sonno.”

Giuliano Capecchi intervistato da Emanuela Scuccato su A rivista anarchica del numero di giugno mi propone di scrivere la parte propositiva che manca, le soluzioni possibili, che fare per fare cambiare le cose?
Dirgli di sì mi dispiace ma dire di no ancora di più e allora mi butto anch’io a sparare cazzate tanto ormai è di moda gridare in questo mondo di sordi. Premetto che l’articolo è carino perché semplice e semplice perché bello, sembra un dialogo tra due detenuti, Giuliano non si offenderà se lo scambio per un detenuto ma dato che non la conosco mi auguro che sia così anche per Emanuela. Di norma adesso dopo i complimenti per fare bella figura dovrei criticare alcuni punti dell’intervista come fanno gli addetti ai lavori ma io sono un tipo speciale, sono un uomo libero e mi posso permettere il lusso di dire quello che penso e di fare quello che non posso quindi, in coscienza, a me il pezzo piace.
La problematica è un’altra, si dissente e si parla abbastanza dei problemi del carcere ma non si ha il coraggio di proporre soluzioni nuove e innovative. Quali sono? Per esempio chiudere i carceri!
Non spaventatevi, scherzo!
Sia in passato, presente e futuro in carcere c’è una buona possibilità di di andarci tutti, sono passati sia i migliori uomini che i peggiori, quindi è interesse della comunità che ci siano buone leggi e strutture adatte... A mio parere il carcere dovrebbe essere come un buon ospedale dove si curano gli ammalati, dove ci siano ottimi dottori e una buona assistenza per migliorare e aiutare ad inserirsi nella società. Una volta fuori allora lo Stato può chiedere il conto per prendere quello che ha dato. Invece, ci sono carceri, e sono molti, dove le direzioni pensano che siccome il detenuto è il male assoluto, il fine della sua distruzione è il bene assoluto e si arrogano il potere, fini e mezzi diversi da quelli indicati dalle leggi.
In questa maniera si insegna che conviene agire male ed essere ingiusti perché si sia dalla parte dello Stato, infatti chi punisce i prigionieri più del dovuto si crede onesto, scaltro e potente; in prima fila ci sono i magistrati di sorveglianza che invece di tutelare si voltano dall’altra parte... per paura che qualche detenuto scappi non danno benefici, infatti chi non fa niente è difficile che sbagli.
Mi viene da pensare che prima di cambiare il carcere bisognerebbe cambiare la società ma è meglio non allargarsi ed iniziare da dentro. Le pene così lunghe attuali non servono a un tubo, spesso una lunga carcerazione non è una giusta espiazione ma è solo una inutile morire di noia. “Panta rei”, tutto scorre, “non è possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume”. Quindi non è possibile punire lo stesso uomo che ha sbagliato per anni e anni, quello non è più il medesimo uomo. Si dovrebbe rispettare un uomo più della sua colpa invece ho visto negli occhi della maggior parte delle persone carcerate l’ingiustizia e il sopruso peggiore dei loro reati, ho visto una giustizia piccola ma grande come cattiveria, frutto della debolezza e dell’ipocrisia. Infatti la giustizia che diventa ingiustizia viene quasi sempre elogiata per i benefici che essa procura: un posto a tavola in parlamento non lo fanno mai mancare... Veniamo al sodo, se no rischio di perdermi in chiacchere, iniziamo col dire che Margara è stato inghiottito dal porto delle nebbie, grandissima delusione, va in giro a fare convegni, che fine ingloriosa da idolo dei detenuti a leader dei burocrati... La legge Gozzini andrebbe abolita, insegna solo a commettere ingiustizia è indecoroso fare i buoni senza esserlo solo per ottenere benefici. Ormai la esibiscono solo i furbi i malvagi e i ruffiani...
Gli educatori, li caccerei... per fare questo lavoro bisogna crederci invece nella maggioranza dei casi lo fanno per il posto fisso e lo stipendio sicuro. Al loro posto metterei solo i volontari, la parte sana di questa nostra società. La polizia penitenziaria idem, ma forse questa è troppo grossa, ma non sarebbe male mettere i soldati di leva esterni e i volontari interni ad occuparsi di sicurezza e di trattamento. Nella nostra attualità gli agenti penitenziari, in buona parte, fanno ingiustizia per fare giustizia. Specialmente per gli extracomunitari i pestaggi sono all’ordine del giorno, non credo che ci sia bisogno di un corpo di polizia per educare o redimere quando questi a volte hanno più bisogno di noi di queste cose (...).
La mia esperienza mi ha insegnato che nessuno vuole più tornare in carcere ma una volta fuori è quasi impossibile non tornare dentro.
Specialmente le lunghe pene sono devastanti, ti tolgono tutto. Si parla dell’abolizione dell’ergastolo portandolo a 33 anni, cose da pazzi! Ma che cazzo redimi dopo 33 anni di carcere? Mi sembrano tutti fuori di testa, poi chiamiamo barbari gli americani con la loro pena di morte, sono solo meno ipocriti di noi. Io la massima pena la porterei a 10 anni ed, attenzione, dando la possibilità di studiare e lavorare. Per le vittime dei reati il discorso diventa difficile d’affrontare, io penso che per loro sia importante che il reo espii realmente una giusta punizione ma questo non deve essere solo carcere, si può far espiare anche essendo utili alla comunità ecc (...).
Che fare, non c’è niente da fare è così e sempre sarà così, se ha fallito Margara che sembrava l’uomo giusto al posto giusto non vedo via di scampo... quante risorse buttate via, ad ingiustizia si risponde con altra ingiustizia. Per fare scontare un reato si distrugge l’uomo e spesso tutta la sua famiglia.
Mi sono stancato di sparare cazzate, volevo dire e spiegare tante cose ma riesco appena a tenere la penna in mano, quindi mi auguro che Giuliano si accontenti, questo passa il convento.
Chiudiamo in bellezza a favore dei forcaioli: “... quelli di fuori stanno peggio di noi infatti fanno di tutto per venire dentro! Sic!”

Carmelo Musumecci
(carcere di Parma)

Data la mia giovane età

Stamattina mi è capitato di leggere un articolo su “A” rivista anarchica intitolato - Liberarsi dalla necessità del carcere -. Mi è sembrato molto interessante in quanto l’argomento non è solo attuale ma anche estremamente importante al fine del rispetto dei diritti della persona. Ho sempre pensato, forse influenzata da mio padre, abbonato già da parecchio tempo ad “A”, che il carcere fosse una istituzione disadatta allo scopo, un luogo non tanto di recupero quanto di detenzione spesso violenta e diseducativa, non certo finalizzato alla crescita morale dell’individuo sviato dalla retta via, parlando in termini danteschi. L’isolamento, l’impossibilità di movimento, la mancanza di “aria”, di esperienze illuminanti, di speranza fanno riflettere sulla inutilità, ingiustizia del carcere, come mezzo attraverso cui lo stato emargina i soggetti pericolosi dalla vita reale delle così dette “brave persone”, che sono del tutto disinformate su ciò che accade in questo mondo a parte.
Non ci si rende abbastanza conto che occorre affrontare in maniera diversa, senza dubbio più costruttiva moralmente e socialmente, la questione della detenzione; come dice E. Scuccato, occorre riaprire nella società la discussione sul carcere, sviluppare forme di informazione e di mobilitazione che rendano viva l’attenzione intorno al problema del carcere, perché la vita delle persone imprigionate migliori, perché la loro dignità sia rispettata. Bisogna che si sviluppi nei detenuti, e non solo, una coscienza critica che permetta di andare oltre l’imposizione, una moralità che cresca all’interno di ognuno così che i singoli possano gestire la propria vita nella libertà di scelta ma sempre nel rispetto degli altri con cui dobbiamo convivere e confrontarci. Ecco la grande meta a cui ognuno di noi deve indirizzare i propri sforzi: lo sviluppo di un’etica interna nei singoli che permetta di essere giudici accusatori e difensori di se stessi, sviluppando una capacità critica di se stessi basata su una sorta di codice morale alla luce del rispetto degli altri, dell’ambiente in cui viviamo, delle cose che ci circondano. Solo così il bisogno delle autorità verrebbe meno, solo così l’imposizione, la violenza, i doveri sfumerebbero nella gestione libera della propria vita; mi rendo conto che tutto ciò è utopico, almeno per il momento, ma come vivere senza ideali, senza mete verso cui tendere la propria vita cercando di sentirsi utili a se e agli altri! Ritornando al tema su cui riflettevo, sovraffollamento, sanità, ordinamento penitenziario e trattamento interno, sono alcune delle problematiche più urgenti della “galera” che dovrebbero essere proposte all’attenzione pubblica, visto che ora come ora non si pensa a un modo alternativo per affrontare ciò che non è lecito moralmente, socialmente, politicamente.
Quindi perché non migliorare tale luogo allo scopo di far vivere, migliorare, educare, reinserire i singoli! Io personalmente non accetto e sopratutto non voglio acconsentire a ciò che avviene all’interno; i maltrattamenti, il cattivo esempio servono solo a perpetuare questa mancanza di bontà, di moralità, di correttezza, di comprensione che caratterizzano la nostra società. Così come penso che non sia discutibile la condanna dell’ergastolo, traguardo a cui non tutti i paesi sono arrivati, e questo fa riflettere sulle mancanze di un mondo che sta per varcare le soglie del duemila, ritengo che sia opportuno “liberarsi dalla necessità del carcere”, cercando di far fronte ai problemi di cui soffre la società quali tossicodipendenza, miseria, precarietà psicologica, mancanza di valori e di responsabilità individuale, disoccupazione, diseducazione, emarginazione, intolleranza, per dirne alcuni. Questi portano alla criminalità, così nella mentalità comune vi è un’unica soluzione, a parer mio la più “comoda”, la detenzione per tutti coloro che per i motivi più svariati commettono atti criminali, senza cercare di rimediare alle cause, ai motivi che portano a ciò, senza che la società si impegni a trovare rimedi veri. Mi domando inoltre: “quale può essere la vita di un recluso una volta entrato in un penitenziario, in una istituzione totale che impedisce ogni sorta di scambio sociale, di uscita verso il mondo esterno, che offende le radici più profonde della vita? Come scorrono le ore? Perché il carcere? È un luogo dove si pensa alla crescita morale dell’individuo con lo scopo di rendere consapevoli, migliori gli esseri umani o solo una istituzione che è finalizzata a isolare, mortificare allontanare le persone incriminate? Perché punire? liberarsi dal carcere è un’utopia? “Nelle storie, nelle testimonianze dei detenuti la morte è sempre presente, come potrebbe non esserlo date le condizioni di vita. Eppure il carcere, il manicomio, siamo stati noi a costruirli con le nostre innumerevoli paure. Molte sono, d’altra parte, le persone che ritengono perfino troppo lievi le condanne, spesso sento dire anche da giovani parole dure contro delinquenti senza riflettere, questa prima reazione emotiva è normale, visto che è frequente e umano immedesimarsi nella vittima, ma per affrontare la questione in maniera corretta e razionale è necessario porsi anche un altro tipo di domande: Cosa induce ad agire così. Qual è stata la vita dell’accusato? Che responsabilità ha la società, il singolo individuo? Cosa effettivamente lo aspetta? Questo tipo ragionamento mi porta ad un quesito, a mio avviso difficile da risolvere, oltre alle responsabilità della società di cui ho già parlato, esiste l’individuo di per sé malvagio consapevolmente e volutamente, dedito al male fine a se stesso oppure costui non è altro che un uomo malato?
Immersa in queste riflessioni, ho preso la decisione forse temeraria data la mia limitata esperienza e la mia giovane età, di spedirvi le mie considerazioni nella speranza di di non essere stata troppo banale e di essere riuscita ad evidenziare un ulteriore punto di vista riguardo all’argomento in questione.
Sarei lusingata di una parziale pubblicazione o di una risposta, che mi riveli le vostre considerazioni, i vostri giudizi su ciò che ho tentato di esprimere (anche brevissima, se il tempo non vi è tiranno naturalmente).

Simona Allia
(Rio Saliceto)

Quali valori?

Cara Simona,
leggendo più volte la tua bella lettera che, lo sento, arriva dal cuore, mi sono resa conto che gli spunti di riflessione che offri sono talmente numerosi da rendermi necessaria una cernita.
Voglio partire innanzitutto dalla contrapposizione “soggetti pericolosi” e “cosiddette brave persone” alla quale fai riferimento. In effetti, come quel tuo “cosiddette” ben sottolinea, questo è uno degli abbagli più comuni.
Può sembrare strano, infatti, ma resta vero ancora oggi: la maggior parte delle donne e degli uomini che ci stanno attorno vogliono sentirsi a posto con la propria coscienza, desiderano muoversi tra i propri simili a testa alta. Però attenzione!, all’anelito verso la virtù si è sostituita nel tempo ben altra aspirazione.
Oggi si aspira essenzialmente alla rispettabilità.
Scrive Vincenzo Guagliardo, nel suo bellissimo saggio abolizionista e sull’obiezione di coscienza
Dei dolori e delle pene (Sensibili alle Foglie ed.,1997): “Ora la virtù non è connessa a un’idea di crescita spirituale, ma a una pura e semplice obbedienza alle regole esistenti. Al di là della retorica, nei fatti non c’è più un’indicazione in positivo, non si deve ‘crescere’, ma semplicemente ‘non trasgredire’”.
Se dunque essere rispettabili, delle “brave persone”, significa oggi “non trasgredire” le leggi esistenti, secondo le quali è possibile, per esempio, che un sequestratore di persona venga imprigionato ed escluso dai benefici carcerari, mentre un uomo politico che abbia operato in maniera a dir poco ambigua nello stesso territorio del sequestro - diciamo la Barbagia per restare sul piano della concretezza - può andarsene libero e indisturbato, stipendiato dai contribuenti, con la sua bella onoratezza tutta intatta, se è possibile che accada questo, allora esiste un problema di regole. Regole nuove? revisione delle vecchie regole? maggiore equità delle regole?
Ma chi fa le regole?
E vengo ad un altro punto, interessante sotto diversi aspetti, della tua lettera, laddove cioè dici che la gente, anche molti giovani, invocano pene più severe per i trasgressori della legge - senz’altro il più diffuso tra gli abbagli comuni.
Quella di identificare la figura del reo con il pedofilo, lo stupratore, il pluriomicida incallito, sull’onda emotiva che i media riescono a sollevare intorno ad alcuni crimini di particolare efferatezza, è ormai un riflesso condizionato.
E se si fosse trattato di tuo figlio, di tua sorella, di tuo marito..., che cosa faresti tu? parli così perché non è capitata a te! - questo è il minimo che ci si sente obiettare ogni qualvolta si arriva a toccare il carcerario.
Ma la maggior parte delle persone imprigionate non sono affatto le persone che comunemente si crede che siano. No, la maggior parte dei reati non è a sfondo sessuale. O collegata a chissà quali improbabili intrecci cinematografici prodotti un tanto al quintale e ammanniti a tutte le ore del giorno e della notte dalle televisioni del pianeta.
La maggior parte dei reati riguarda, oggi come oggi, l’”offesa alla proprietà”.
E allora, dopo chi fa le regole?, sarebbe opportuno chiedersi quali siano i valori che improntano il diritto contemporaneo. Quali siano i valori dei legislatori. Che sono uomini della nostra epoca, non dei di apollinea serenità ed equanime giudizio.
Un accenno, infine, alle istanze filosofiche contenute nel tuo scritto.
La mia opinione personale - e del resto le relazioni sono fatte anche di questo, oltreché di dati, citazioni e scambio di informazioni -, un’opinione frutto sia di letture che di esperienze, è che quello di cui si ha tanta paura, quello che si tende ad esorcizzare in ogni modo, e cioè il Male, faccia semplicemente parte di noi. Di tutti gli esseri umani.
Ogni società deve farci i conti.
Come?
Tutta la tua lettera è un tentativo di dare una risposta a questo “come?”.
Tu indichi nello “sviluppo di un’etica interna nei singoli” la meta cui ognuno di noi deve indirizzare i suoi sforzi.
Condivido quello che scrivi. E non lo trovo utopico.
Infatti, per me, avere consapevolezza di questo significa già essere al centro della propria utopia.

Cari saluti
Emanuela Scuccato

 

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni. a mezzo M. Decortes, I. (Milano), 36.000; Vittoria Farinelli ricordando suo fratello Luciano (Ancona), 50.000; Fernanda Bonivento in ricordo del suo compagno Luciano Farinelli (Ancona), 50.000; Andrea Larice (Ascoli Piceno), 50.000; Piero Bertero (Savigliano), 50.000; Giuseppe Lusciano (Castellammare di Stabia), 29.000; Audrey Goodfriend (Berkeley - USA), 170.000; David Koven (Vallejo - USA), 85.000; Patrizia e Sossi (Milano), 500.000; Aurora e Paolo (Milan) ricordando Marina Padovese, 1.000.000; Domenico Liguori (Spezzano Albanese), 25.000; Saverio Nicassio (Bologna), 50.000; Paolo Gori (Genova), 25.000; Andrea Della Bosca (Cosio Valtellino), 50.000; Antonio Ciano (Gaeta) per continuare con “A”, 30.000; Paolo Olivieri (Castello di Serravalle), 100.000; Renato Girometta (Roma), 100.000.
Totale lire 2.400.000.

Abbonamenti Sostenitori Alessandro Becchis (La Loggia), 150.000; Gianluigi Melchiori (Fontane), 150.000; Arnaldo Panzeri (Lecco), 150.000.
Totale lire 450.000.