Rivista Anarchica Online


Bentrovati
Nel cyberspazio!

Cosa intendiamo quando diciamo io?
E se diciamo Io quando siamo collegati in Rete, magari in una chat, in un MUD, piuttosto che in qualsiasi altro tipo di comunità virtuale - è come averlo detto nel mondo reale? Se Io è una maschera che riunisce in sé la moltitudine che ci abita, il nostro Io giocato nella Rete si moltiplica in un gioco di specchi che tende all’infinito perché anche nel non-luogo virtuale della Rete IO continua a essere sé stesso oltre i confini del suo corpo. Questi e altri interrogativi aprono lo strano e avvincente libro di Allùcquere Rosanne Stone Desiderio e Tecnologia - Il problema dell’identità nell’era di Internet. (Feltrinelli Interzone 1997 - 215 pag. L. 40.000).
Chi non ama i computer avrà già storto il naso, chi non ha mai navigato sarà perplesso, chi non ha mai interagito nel mondo virtuale non capirà lo scopo e il senso di queste domande. Eppure.... eppure chi ha un’esperienza anche se piccolissima come navigatore del cyberspazio, almeno una volta avrà pensato al significato della parola Io in un mondo che è e non è al tempo stesso e che il computer non è solo uno strumento di lavoro e di gioco ma anche “un teatro di esperienza sociale”. Un teatro senza palcoscenico, i cui confini sono invisibili, fluttuanti, in perpetua costruzione e distruzione ed è in questo luogo che non c’è, che l’autrice avvia la sua ricerca ponendosi altre domande.
“Come vengono rappresentati i corpi attraverso la tecnologia? Come si costruisce il desiderio attraverso la rappresentazione? Qual è la relazione tra corpo e autoconsapevolezza? Che ruolo svolge il gioco in un paradigma emergente di interazione tra uomo e computer? E soprattutto cosa accade alla socialità e al desiderio sul finire dell’era meccanica?”
Noi occidentali, questo è bene ribadirlo, siamo entrati nell’era virtuale e l’autrice si riferisce a ciò parlando del “progressivo cambiamento delle relazioni tra corpo e identità, tra individuo e gruppo ... perché nel mondo virtuale viene smentito il radicamento dell’interazione sociale nella fattualità fisica del corpo umano”.
In questo nuovo scenario si muove dunque il singolo individuo che si porta appresso un IO che nasce storicamente da un processo nato quanto meno nel Medioevo: “la diffusione dei ritratti di famiglia e individuali, la crescente popolarità degli specchi, lo sviluppo di nuovi temi autobiografici in letteratura, la comparsa della sedia a sostituire la panca, l’infanzia concepita come una fase dello sviluppo, il moltiplicarsi delle stanze nelle piccole abitazioni, l’elaborazione di un teatro dell’interiorità nelle drammaturgia e nelle arti e più recentemente la psicoanalisi”.
Ma se accettiamo l’idea che l’identità non sia qualcosa di dato per sempre ma un processo, ecco che le nuove configurazioni sociali ci spingono a dovere definire con nuovi strumenti e nuove visioni quel che noi siamo e sentiamo di essere.
Il libro della Stone non si pone né come puro saggio accademico, né come mero testo divulgativo o narrativo. Piuttosto passa da uno stile discorsivo, nel quale il materiale è autobiografico, alla descrizione di storie esemplari sulla nascita e declino delle prime strutture collettive virtuali alla fine degli anni ‘70, quando neanche negli avanguardistici laboratori del MIT e della ATARI, si era immaginato o previsto l’impatto dei computer sulla vita di noi moderni.
È del 1984 la fantasia avvincente del cyberspazio immaginata e narrata da William Gibson in Neuromante. Se in questo primo romanzo Gibson manteneva cartesianamente 1:1 il rapporto identità reale/corpo fisico = identità virtuale/corpo virtuale, nei romanzi successivi l’identità o meglio la coscienza nel cyberspazio non ha più necessariamente una rappresentazione in un corpo virtuale. Oggi sappiamo che il cyberspazio esiste “come metafora delle tecnologie comunicazionali di fine secolo, come banche dati, sistemi finanziari, reti informatiche e simulazioni militari...di conferenze via computer, di telefono erotico e di esperienze virtuali varie, ma poiché si tratta sempre di comunicare attraverso un media ad ampiezza di banda ristretta, quello che davvero facciamo è di negoziare le tensioni tra i soggetti individuali, collettività virtuali e i corpi fisici in cui tali individui e collettività possono essere collocati o meno”.
L’autrice ribadisce che il suo interesse per il cyberspazio è dovuto oltre che alla sua dimensione di teatro dell’esperienza, anche al suo “essere metafora di una rete di protesi elettroniche e comunicazionali che ha acquistato visibilità nell’ambito del tardo capitalismo”, nel suo essere ambiente sociale e soprattutto perché le “identità che nascono dalle interazioni tra uomo e macchina, identità frammentate, complesse difratte dalle lenti della tecnologia, della cultura e delle nuove formazioni tecnoculturali, mi sembrano inoltre rappresentative nel bene e nel male, di quelle creature in cui noi stessi ci stiamo trasformando alla fine dell’era meccanica”.
Gli interrogativi che questa esplorazione della virtualità apre si inanellano uno sull’altro come è giusto che sia per un libro di domande in corso e di risposte ancora da costruire. “Non sono un’osservatrice neutrale. Trascorro buona parte della mia vita nel cyberspazio, navigando tra le reti come una surfista di Internet, sentendomi una flaneuse dell’alta velocità. La comunicazione prostetica mi interessa perché rivela una parte altrimenti nascosta del mondo “reale” e mi interessa anche l’influsso potenziale del cyberspazio sull’emergere di comportamenti nuovi, di nuove forme sociali che si sviluppano in un ambiente in cui i concetti di corpo, incontrarsi, luogo e perfino di spazio acquistano un significato diverso rispetto a quello consueto. Voglio capire fino a che punto queste nuove forme sociali siano in grado di sopravvivere facendo fronte alle avversità, e cosa possono insegnare sui problemi sociali che esistono al di fuori della realtà delle reti. Voglio seguire le dinamiche dei gruppi di amici che si incontrano in uno spazio puramente simbolico, voglio capire come, riducendo l’ampiezza di bande, cioè senza ricorrere a modalità di scambio simbolico abituali come i gesti e il tono della voce, si alterino i meccanismi di fiducia reciproca e condivisione dei vissuti affettivi, e come gli abitanti dei sistemi virtuali costruiscano e mantengano delle categorie come quelle di razza e genere. Voglio capire come fanno delle persone senza corpo a fare l’amore”.
La parte centrale del libro contiene due capitoli apparentemente dissonanti ma esemplari rispetto al discorso della Stone. Identità a Oshkosh narra la vicenda di una giovane donna affetta dalla Sindrome di personalità multipla che ha denunciato per stupro un suo conoscente dopo che questi, evocata una delle sue personalità deboli, cioè una giovane ingenua, l’aveva indotta ad avere con lui un rapporto sessuale. La denuncia e il processo che seguirono a questo fatto sono interessanti agli occhi di Stone in quanto nel processo ci si interrogava sul “che cosa è una persona”. Con procedimento analogo l’autrice ripesca poi il mito di Osiride, ucciso e fatto a pezzi dal fratello Set e rinato grazie all’amore e alla pazienza di Iside. La vicenda di Osiride è vista come una rappresentazione della soggettività che si frammenta, muore, guarisce e rinasce con una forma nuova. Se condividiamo con la Stone questo singolare percorso, non possiamo non condividere con lei l’affermazione che chiude questo capitolo apparentemente disorganico: “Ci sono persone che si considerano multiple e si dichiarano consapevoli di quello che fanno le loro personalità.. Il loro modo di vivere abituale, con un unico corpo condiviso da parecchie personalità semi-indipendenti è anche tipico della quotidianeità di un buon numero di abitanti del mondo dei sistemi virtuali”.

Ancor più significativo e inquietante è il capitolo intitolato “Lo psichiatra travestito”. Questa storia risale al 1982 e si è verificata nel sistema di conferenze di Compuserve. Uno psichiatra di New York di nome Sanford Lewin si scelse come “nickname” Dottore e lasciò che la parte visibile della sua identità virtuale coincidesse con la sua professione.
Impressionato dall’impatto emotivo e dalla confidenza creatasi con alcune donne che erano convinte che Lewin fosse uno psichiatra, decise di costruirsi una nuova identità come Julie Graham, neuropsicologa di New York, vittima di un incidente automobilistico che soffriva di gravi danni neurologici e aveva il volto sfigurato. Questo che doveva essere un inganno limitato nel tempo si trasformò invece in un meccanismo impazzito che il suo creatore non era più in grado di controllare. Julie era “viva” a dispetto e con la disperazione di Lewin e aveva amiche e amici sinceri e affezionati. Al punto che Julie, una identità di Lewin, la sua compagna di giochi, finì con il risultare più popolare e simpatica del vero dottor Lewin. Quando questi confidò la verità a una delle sue amiche virtuali, la notizia ebbe l’effetto di una bomba, era come se Julie fosse morta e il lutto senza funerale era veritiero.
L’occultamento del vincolo corporeo aveva reso possibile l’inganno. Questa è la storia, questa è una storia. Dove il corpo e la maggior parte dei sensi non sono presenti tutto diventa possibile, un ventaglio di identità infinite e di infinite possibilità si apre. Solo l’intelligenza, la memoria e l’abilità semantica dell’individuo molteplice sono vincolo strutturale perché nel cyberspazio viene a cadere anche il quadro concettuale sul quale si basa l’idea di genere: quello che pone l’autoconsapevolezza individuale in relazione a un corpo fisico. Senza questo quadro concettuale, che situa l’io e lo correla a un corpo, non ci sarebbe né razza né genere, non ci sarebbe alcun discorso o struttura di significati. È per questa ragione che il bisogno di costruire delle identità sembra essere così intenso. Per rendere visibili storie che continuano a produrre e riprodurre il gioco complesso e mutevole di corpo, identità e comunità, dobbiamo ricercare le tracce dell’apparato che consente di narrarle, dobbiamo ricostruire lo sviluppo e mostrare le forze in gioco, i conflitti, le negoziazioni e le intese. Dopo quella che lei stessa ha definito pausa teorica, Stone punta di nuovo lo sguardo sulle comunità virtuali , narrando le vicissitudini di Habitat, Communitree, AtariLab e Wellspring Systems.
Il senso di queste e di tutte le comunità virtuali è così sintetizzato da Stone: “I partecipanti alle comunità virtuali mediate elettronicamente acquistano competenze utili per gli ambienti sociali virtuali che si stanno sviluppando nelle nazioni tecnologizzate della fine del Ventesimo secolo. I partecipanti imparano a delegare la funzione di agente a delle rappresentazioni dei loro corpi che esistono in spazi immaginali, accanto ad altre rappresentazioni di altri individui. Così si abituano a quello che potrebbe essere considerato come un lucido sognare in uno stato di veglia, a una costellazione di attività paragonabili a una forma di lettura attiva e interattiva, a una pratica sociale di partecipazione in cui le azioni del lettore si ripercuotono nel mondo del sogno o del libro. La più antica metafora della lettura si trasforma in uno spazio testuale consensuale e interattivo che viene costituito attraverso delle pratiche di iscrizione, come la produzione di un codice per microprocessori. I confini tra “naturale” e sociale, tra biologia e tecnologia, assumono quella forte permeabilità che caratterizza lo spazio comune dei sistemi virtuali più recenti”.
È solo alla fine del libro che l’autrice sfiora un tema caro agli anarchici: il potere. “Il potere insito nella onnipresente tecnologia dell’era virtuale che è sottile e manipola il nostro sistema di pensiero, in modo che un pensiero diverso cominci semplicemente a esserci”. Stone non esalta e non demonizza le nuove tecnologie. Il suo occhio disincantato le fa riconoscere che comunque la virtualità, le identità molteplici, non eliminano le opposizioni binarie cartesiane su cui si fonda la nostra cultura: uomo/donna, sopra/sotto ecc. cioè le diadi asimmetriche per le quali un significato è dato per opposizione negativa alla positività riconosciuta all’altro termine, esprimendo al contempo un giudizio di valore e fondando una di quelle asimmetrie che sono le pietre angolari dell’immaginario occidentale, cioè quella dell’identità di genere che vede la donna definita per negazione di tutto ciò che è attribuito come valore all’uomo.
“Le tecnologie possono cambiare la nostra vita, ma non risolvono tutti i nostri problemi. Dobbiamo perciò concentrarci sulle persone o sui fattori che le costituiscono, nel bene e nel male, perché le tecnologie acquistino potere soltanto all’interno di un sistema di pratiche sociali”. I cybernauti sono gli abitanti di queste terre di confine ed essi stessi sono creature di confine cui Stone, con una ulteriore contaminazione culturale, dà lo sguardo del vampiro, creatura non viva e non morta che osserva la parzialità dello sguardo mortale. Questo dono oscuro, simile a quello dei vampiri, impedisce agli abitanti del cyberspazio di riacquistare l’innocenza perduta.
Se accettiamo l’idea che i “vampiri della soggettività esistano veramente, nessuno di noi si può sentire al sicuro nelle sue posizioni del soggetto tradizionalmente limitate, in questi luoghi familiari di un mondo in rapida trasformazione ... il vampiro della soggettività è in grado di vedere il gioco dell’identità da un metalivello, di cogliere le possibilità di voci e posizioni multiple del soggetto, la rifrazione infinita del desiderio. Il suo sguardo si è ineluttabilmente trasformato. Il dono oscuro non permette di tornare a un modo di vedere le cose meno problematico. Chi lo riceve si trasforma per sempre”.
Stone rende commiato ai suoi lettori con queste parole: “Spero di poter portare a termine questa avventura insieme a voi. È l’avventura del nostro futuro, un futuro segnato dall’immersione sempre più profonda nelle tecnologie, dall’implosione dei confini tra la tecnologia e l’umano, dalla nostra inesorabile trasformazione in creature che non possiamo ancora nemmeno immaginare. Si tratta di un momento storico estremamente pericoloso, che al tempo stesso offre anche delle grandi opportunità. Dobbiamo imparare a orientarci, ricordando che cyber significa sapersi guidare, con tutte le nostre forme assemblate e le nostre identità multiple, lungo il sentiero che si snoda tra le due torri della promessa e della minaccia, del desiderio e della tecnologia. Questa sarà la nostra avventura, agli albori dell’era virtuale. Ben trovati nel cyberspazio.” Il libro mi è piaciuto ma almeno due domande sono rimaste a mezz’aria: che ne è del mondo reale nel quale vive il nostro corpo mentre noi viviamo nel cyberspazio? Che ne è delle persone che ci sono fisicamente vicine, cioè delle nostre relazioni reali? È vero le nuove tecnologie offrono opportunità di comunicazione straordinarie, ma c’è un aspetto che io trovo inquietante e pericoloso: cioè lo straordinario strumento di controllo sociale che esse possono rappresentare. Quando siamo persi davanti allo schermo del computer davvero crediamo di agire e interagire anche nel mondo reale?
Ma questa è un’altra storia ancora tutta da esplorare.

Elena Petrassi