Rivista Anarchica Online


Buccinasco,
per esempio

Intervista a Massimo Annibale Rossi
di Giuseppe Gessa

Problemi, limiti e prospettive dell'intervento di un operatore sociale nelle periferie metropolitane.

Noi in Italia conosciamo - attraverso la stampa o la televisione - la realtà delle periferie metropolitane solo per sommi capi, a volte ne siamo dentro, ne siamo attraversati, spesso ci muoviamo in esse sfiorandone le problematiche. Oltre la cronaca, lo sfondo allucinato prodotto dai media, che fa emergere solo l'evento traumatico o criminale, si susseguono, giorno dopo giorno, le esperienze quotidiane di singoli e comunità. Possiamo provare d uscire dalla concezione determinista dei problemi? Quella per cui tutti i comportamenti cosiddetti "antisociali" o sono determinati da pulsioni interne alla persona - siano esse di natura psicologica o biologica poco importa - o al contrario dalla forza incontenibile del degrado urbanistico e sociale. Forse è in caso di indagare sulla capacità di resistenza e immaginazione che sono presenti ed emergono anche nei contesti più devastati. Nel dibattito in corso sulla riforma dello stato sociale - in un momento dove le pressioni neo-liberiste tendono a smantellare ogni garanzia e tutela per le fasce deboli della popolazione - le proposte per un ampio decentramento dei servizi sociali, a livello comunale o dei singoli quartieri possono diventare di estrema attualità. Alla base di qualsiasi progetto di decentramento c'è sempre la necessità di rinsaldare i legami comunitari tra i singoli individui nelle loro specificità, tra gruppi familiari, tra giovani, adulti, anziani e bambini. Oggi si deve anche comprendere la presenza in un territorio di gruppi etnici di diversa provenienza. Si tratta quindi - ed è questo un elemento che di solito induce al pessimismo - di coinvolgere parti che possono essere - e spesso lo sono - in condizioni di conflitto tra loro. Scriveva Paul Good man nel 1961, sulla rivista "Communitas" "... prendiamo il caso di una pianificazione utopica per un aumento di legami comunitari diretti e delle possibilità offerte agli individui per utilizzarsi a vicenda come risorse partecipando ad un maggior numero di funzioni della vita e della società. Nel corso di una discussione che ho avuto recentemente, con Herbert Gans della University of Pennsylvania e altri sociologi, tutti si sono dichiarati d'accordo: il nostro attuale frazionamento sociale, l'isolamento delle famiglie e degli individui sono indesiderabili. Però si è anche dichiarato il fatto che mettere le persone insieme così come sono - e di che altro tipo possiamo trovarne? - da luogo ad inevitabili conflitti. E' questo il nostro dilemma. Gans ha sostenuto che i tentativi comunitari spesso portano ad un nulla di fatto invece di consentire almeno qualche utile compromesso. A Levittown, per esempio una comunità fallì perché i genitori di ceto medio volevano un programma più intenso per favorire le "carriere" dei loro figli (in preparazione alle università di prestigio) mentre i genitori del ceto medio inferiore, che avevano aspirazioni di prestigio minori, preferivano un programma più progressista, "in un caso come questo" - dice Gans - "un utopista rinuncerà completamente al proprio programma e dirà che la gente è stupida". Il mio modo di vedere è molto di verso. Ritengo infatti che un simile conflitto non sia di ostacolo al comunitarismo, ma un'occasione d'oro se lo scambio può continuare, se può essere mantenuto il contatto. Il conflitto continuato rompe le difese caratteriali degli individui e sconfigge le loro stupidità, poiché la stupidità è una difesa caratteriale. E il calore del conflitto da luogo a una migliore comprensione reciproca e a una maggiore fraternità. A Levittown il compito dei sociologi avrebbe dovuto essere non solo quello di individuare il conflitto di classe, ma di portarlo alla luce del sole, di rischiare di intensificarlo investendo anche lo snobismo e i risentimenti nascosti (e i sentimenti razzisti?), e di mettere di fronte a queste persone il problema che tocca tutti noi: queste cose sono davvero così importanti per voi, come vicini, del fatto di educare insieme i nostri figli?" (P. Goodman, Individuo e comunità, a cura di Pietro Adamo, Elèuthera, Milano, 1995). Forse abbiamo bisogno di idee che più che essere una reazione all'esistente, quindi quasi inevitabilmente frutto della stessa logica di ciò che si vuole combattere, aprano altri spazi all'immaginazione. Come lo stesso Goodamn ci suggeriva - quasi mezzo secolo fa - per spiegare il senso di una sua proposta per vietare il traffico privato nell'isola di Manhattan " Il principale vantaggio di questa proposta sta nelle opportunità che offre. Non è un semplice rimedio, non suggerisce di fare meglio le stesse cose, ma spalanca il pensiero alle soluzioni ideali, ai valori umani, a nuovi modi di fare le cose essenziali" (Paul e Percival Goodmann "Via le auto da Manhattan", Volontà, n. 2-3 1995)

Abbiamo parlato, di questi ed altri argomenti con Massimo Rossi, che coordina un gruppo di operatori che - in differenti contesti del disagio sociale - opera in un grosso comune della cintura milanese, Buccinasco.

Sensazione di malessere

L'intervento che state portando avanti a partire dai problemi che attraversano le fasce giovanili - di cui si parla raramente se non in occasione di eventi particolarmente cruenti -, inevitabilmente si inserisce in un contesto più complesso, attraversato proprio dai modelli di socialità cui la comunità in generale fa riferimento. Prova a darci un quadro sintetico della realtà nella quale operate.

Sono d'accordo sul fatto che si parli molto poco di come un giovane possa vivere la realtà periferica oggi, di quali problemi possa avere. Io credo che una delle realtà contro le quali ci andiamo a scontrare quotidianamente sia la mancanza nell'hinterland del senso di identità e di comunità. Questi quartieri non sono molto diversi dai quartieri dormitorio degli anni sessanta, che se a volte hanno delle forme più aggraziate, anche se a volte non sono costruiti con i criteri della torre e delle stie. Hanno però lo stesso problema, cioè di essere cresciuti esponenzialmente sull'onda dell'immigrazione degli anni sessanta-settanta senza un proprio centro di gravità, distruggendo quello che era il centro di gravità originario e spesso la cultura specifica del territorio.
Noi viviamo una realtà ancora più complessa; Buccinasco dal punto di vista urbanistico ed anche della composizione sociale è divisa in due da un'immigrazione dalle zone più povere del meridione, in particolare dalla Calabria, che risale agli anni cinquanta e un'immigrazione più recente, che risale alla metà degli anni settanta quando una par te della media borghesia milanese ha cominciato a lasciare la metropoli per la cintura più verde, alla ricerca di una dimensione più vivibile, in fuga un po' dal caos. Oggi il problema è, da una parte l'attrazione che una metropoli come Milano esercita sui comuni limitrofi, da un'altra parte il fatto che un adolescente che abita in uno di questi paesi non si riconosce, non può riconoscersi con Milano, perché c'è una distanza che non è una distanza solo fisica, è una distanza ideologica, anche culturale, rispetto all'abitante di un quartiere integrato nella città.
D'altra parte, all'interno del proprio luogo di residenza non esiste un centro, non esiste un centro storico, non esistono servizi molto spesso non esistono addirittura negozi e l'offerta in termini di aggregazione molto spesso gira intorno a qualche parchetto striminzito. II problema che vive l'adolescente, in scala più ampia è vissuto anche da tutte le persone che abitano queste cinture. La ricca borghesia dei quartieri bene risolve il problema con la classica fuga del venerdì pomeriggio, con una separatezza tra il momento del piacere, del divertimento e della salute e il momento della produzione. In un contesto come questo, tra chi. non ha la possibilità di fare questo salto, in particolare tra gli adolescenti, cresce questa sensazione di malessere, di non sapere da che parte stare, di non capire il perché si è capitati in quella realtà e il perché si faccia così fatica a trovare dei punti di riferimento.

Tutto questo mi induce a chiedermi quali sbocchi possa avere questo senso di estraneità tra gli adolescenti. Voi siete partiti da qui per elaborare dei progetti di intervento che offrissero alle persone delle alternative ai modelli di riferimento più consueti, compresi quelli delle organizzazioni criminali, che anche da voi si propongono in forma efficace con i miti del guadagno facile e con il fascino di aggregazioni dal forte connotato gerarchico.

Io credo che in questo ci sia la spiegazione di molti comportamenti distruttivi che i ragazzi delle periferie agiscono, c'è una rabbia diretta, a volte incontenibile, verso tutto ciò che rappresenta non solo l'istituzione ma anche il tentativo di attivare una volontà costruttiva, quasi ci fosse in questo la negazione di un'impossibilità che lo ro vivono. Nelle periferie è molto presente l'offerta, direi quasi l'istituzione alternativa che è proposta dalle organizzazioni criminali, sviluppatasi da noi, a partire dagli anni cinquanta, a seguito dell'istituzione dei primi soggiorni obbligati. Il passato prossimo della nostra zona è stato un passato dominato da questo tipo di organizzazioni, con un controllo capillare del territorio, in particolare della 'ndrangheta calabrese, con anche una serie di coperture sia politiche sia istituzionali. A partire dal '92, le inchieste sulla mafia del nord hanno cambiato la situazione, però rimane sempre questa presenza che si pone, per i ragazzi più fragili come alternativa al quotidiano, con espedienti che portano al guadagno facile, come il piccolo furto, fino alle scritte sui muri che riportano "w la mafia", in una sorta di connivenza con un potere che si conosce comunque bene nelle sue capacità di spietatezza e di penetrazione. Il problema più grosso è la capacità della mafia di inserirsi nel tessuto produttivo. Noi abbiamo cercato di valorizzare il modello aggregativo come alternativa a quello della figura carismatica e autoritaria, per cui abbiamo cercato di mettere in rete tutte le realtà che si occupano di tempo libero piuttosto che delle varie questioni ecologiche o di altra natura. Poi abbiamo cercato di avviare un intervento di inserimento professionale per i ragazzi, aprendo un centro di aggregazione - i ragazzi che vengono da noi sono ragazzi che spesso hanno lasciato prematuramente la scuola, anche la scuola dell'obbligo - ragazzi che hanno trovato nel centro un punto di riferimento al vagare per la strada senza una lira in tasca. Partendo dal centro di aggregazione abbiamo iniziato a parlare del senso del lavoro e magari fare passare la differenza tra il denaro guadagnato in una giornata, magari corrispondente al salario di un mese e il soldo guadagnato con fatica, e io penso che questo sia stato il risultato più importante di questo progetto.
Nella realtà economica della nostra zona, fatta di piccola imprenditori e di un artigianato molto vitale con un tessuto organico estremamente interconnesso, abbiamo trovato molte possibilità di collaborazione. Di solito si pensa al mondo del lavoro come a un mondo chiuso o solamente concentrato sul profitto, io non credo che sia così, ci sono d egli spazi di solidarietà molto importanti, che vengono poi alla luce se stimolati. Io credo che, in sé, il mercato possa anche essere un valore, possa anche essere un valore di sinistra. Non credo che tutto ciò che viene dal pubblico sia bene e tutto il resto sia male, io vedo in questo proliferare di iniziative, di piccole imprese, di piccoli artigiani molta vita, molta vitalità, vedo passare molte idee.... questo mondo non è solo quello dello sfruttamento e del lavoro nero, lo è spesso quando cade nelle mani sbagliate.

Quindi avete puntato sulle risorse disponibili nello stesso tessuto sociale che viveva questa condizione di degrado...

Da ciò abbiamo cominciato a pensare che il territorio nel suo complesso potesse essere rivitalizzato, un territorio che potesse cominciare a secernere degli anticorpi al proprio malessere e che questo potesse anche volere dire rivitalizzare tante famiglie e tante persone che da anni, chiuse nel loro guscio, vivevano una vita, magari di agio, ma senza una finalità e forse senza un senso. La scommessa in parte è stata vinta nel senso che si e riusciti a fare uscire la gente dalle case, si è riusciti a creare oltre alla rete sulle realtà aggregative e a quella sulle imprese, una terza rete sulle agenzie socio-educative - le scuole, i servizi ussl, quelli comunali - per cercare di portare avanti un lavoro capillare di intervento reale sui problemi quotidiani del territorio. La frammentazione dei servizi territoriali l'abbiamo potuta verificare nel nostro lavoro di addestramento professionale con portatori di handicap. Abbiamo ricostruito storie di ragazzi con invalidità gravi che, lasciata la scuola dell'obbligo, per quattro cinque anni erano stati lasciati a loro stessi, quindi vedevamo gente che da anni vagava per la campagna con una cuffietta sulla testa, senza sapere dove andare o cosa fare. Dunque si apre un centro che, col tempo, è passato, da un intervento sul singolo, a un intervento sul nucleo, a un intervento sulla comunità, a un intervento di territorio. Il nostro spazio è diventato, per tanta gente, un punto di riferimento, in alternativa a quello che sta accadendo nel sociale, dove ogni servizio si specializza, apre un proprio sportello e molto spesso non comunica con altri sportelli, per cui un ragazzo che ha problemi di contiguità con sostanze stupefacenti, di inserimento lavorativo e via dicendo deve rivolgersi a una serie di ambiti diversi. Ogni sportello ha un proprio codice spesso non comprensibile agli altri.

Quale federalismo

Possiamo quindi affermare la funzione mistificatoria delle varie riforme dei servizi che si sono succedute negli anni... al centro delle quali piuttosto che l'autonomia dei cittadini c'è l'esigenza delle istituzioni - pubbliche o private non importa - di perpetuare la propria sempiterna presenza.

Io vedo una grande confusione, riforme che si sommano a riforme, come nel caso delle USSL, dove una struttura che cominciava appena a rimettere in moto il proprio funzionamento, viene di nuovo fatta esplodere per poi ricomporsi in altre forme. Il punto è che su tutti questi organismi non c'è un controllo diretto delle persone, credo che la formula più efficace sia quella di piccole strutture a misura della comunità.
Una struttura come la nostra, io credo che possa essere vicina e addirittura monitorata dalla comunità. Per quanto riguarda queste super-aziende sanitarie assistiamo al paradosso del cittadino che deve quasi essere lui a seguire il servizio e non viceversa, i cittadini non possono assolutamente avere alcuna forma di controllo. Io credo che bisognerebbe dislocare i servizi nel territorio, decentrarli il più possibile, dare ai comuni la più grande responsabilità su questo e uscire dall'ottica dei piani nazionali o anche di quelli regionali, dove i secondi non sono altro ché la riproduzione in miniature dei primi , dove le regioni rischiano di diventare dei piccoli stati che riproducono le stesse storture.

Il federalismo, in una prospettiva che, oltre l'alternativa pubblico o privato, consenta alle persone di diventare in qualche modo più attente a ciò che nelle comunità accade e viene deciso.

Io sono convinto che la forma del libero comune sia la forma più efficace anche per risvegliare le coscienze. Non è vero, ad esempio che non c'è sofferenza nella parte ricca di Buccinasco, c'è sofferenza diversa, tutto viene concultato viene chiuso all'interno di questi sporting club, all'interno di questo sforzo terribile che le famiglie fan no per nascondere il proprio disagio. Quando non c'è un senso, non c'è un'appartenenza, un sentire comune, il vuoto e l'angoscia possono creare delle situazioni veramente esplosive. Investire i cittadini delle loro responsabilità e dei loro problemi potrebbe attivare molte risorse e potrebbe contribuire a un riequilibrio e a un'armonia in luoghi che invece da questo punto di vista sono assolutamente desolati. Io credo che, da questo punto di vista non si stia andando nella direzione di risvegliare le risorse e le energie della gente. Risvegliare le energie della gente non vuole dire fare i referendum di quartiere piuttosto che consultazioni quotidiane ed esasperanti. Penso voglia dire qualcosa di molto più profondo, riattivare canali di comunicazioni che sono sempre esistiti, che hanno dato la forza alle comunità del passato di resistere anche in condizioni estreme, ma che oggi sembrano spezzati. Noi ci scontriamo quotidianamente con la volontà delle strutture di potere di mantenere una delega che qualcuno dovrebbe avergli dato. L'ambito delegato alla gestione di un particolare problema ha il timore di essere espropriato del proprio diritto a esercitare una potestà. I servizi, invece rischiano di centrarsi più sulla propria sopravvivenza perdendo totalmente o parzialmente il contatto col territorio e con il disagio. Assistiamo ad esempio a progetti di intervento che sono fotocopie gli uni degli altri, per cui un progetto pensato per una data realtà, in un dato momento, viene riprodotto senza modifiche e senza un monitoraggio della realtà territoriale specifica, dando luogo a interventi spesso completamente avulsi dalla realtà. Un esempio può essere quello di operare con una realtà mobile di distribuzione gratuita di siringhe sterili in una zona dove non c'è un problema specifico dell'eroina, un'operazione di marketing politico ma senza alcuna rilevanza sul piano della prevenzione nel territorio specifico. Io credo che l'istituzione, di solito, consideri il territorio come una distesa di minerali, quindi non come un organismo ma come qualcosa di statico, dato una volta per tutte. Invece il territorio, le persone, rappresentano un organismo vitale in continua e perenne mutazione. Noi due anni fa abbiamo presentato un progetto di intervento sulle nuove droghe come l'ecstasy e ci siamo accorti che, a due anni di distanza la situazione era ancora cambiata. I punti di riferimento dell'istituzione molto spesso risalgono al momento in cui un intervento è stato progettato non considerando i cambiamenti intervenuti nel tempo. Oggi abbiamo ancora istituti professionali, ad esempio, che preparano le stesse professionalità da anni, che ormai non trovano più risposte nel mercato del lavoro. Vengono istituiti corsi per meccanici di automobili che non tengono conto dell'evoluzione nella tipologia dei motori, che non necessitano di quella manutenzione costante degli autoveicoli di una volta. La legislazione attuale sul lavoro crea poi il paradosso per cui un imprenditore assumerà molto più facilmente un ragazzo senza titoli di studio, che ha per lui costi del lavoro minori, rispetto a chi possiede un diploma professionale, che diventa quindi controproducente. Il ruolo del sindacato, questa fase mi suscita molte perplessità, mi sembra che sia ultra-garantista rispetto ad alcune categorie, ma rispetto a tutte le categorie marginali non è assolutamente presente. Io ho lavorato per anni anche in carcere e in questo mondo l'attività del sindacato mi è sembrata quasi inesistente.

Per concludere con una nota personale, puoi raccontarci della tua "folgorazione" quando, leggendo per la tua tesi di laurea le prime annate del dopoguerra delle rivista anarchica Volontà ti sei imbattuto nelle riflessioni sulle comunità fatte da Giovanna Berneri e Cesare Zaccaria.

Io sono stato colpito al cuore dallo sfoglio dei primi numeri di Volontà dalle riflessioni che vi erano contenute. La considerazione del tessuto sociale come organismo vivo, la considerazione delle potenzialità che in questo organismo erano presenti è stata per me una rivelazione.
Da quella scintilla c'è stato il confronto con una realtà che è oggi completamente diversa da quella del primo dopoguerra, per cui non credo che oggi ci sia la possibilità di praticare quel federalismo radicale proprio del pensiero libertario. Credo pero che piccole strutture a misura del territorio, che parlino il linguaggio e i bisogni della gente, che si riferiscono direttamente ai loro interlocutori, possano essere preziose, in questa fase. Per poi rilanciare un discorso su un piano più ampio.

 

Giuseppe Gessa

 

Riflessi di un mondo futuro: il Libero comune

Il rapido sgretolarsi di istruzioni la cui credibilltà era apparsa sfidare i secoli pone alcuni quesiti di fondo. E non sono dubbi cavillosi da grigi intellettuali. Sono grilli e tarli dei tanti che di fronte all'agonia dello stato hanno coscienza e coraggio di vivere il loro smarrimento. Ma soprattutto sono le inquietudini di coloro che ancora riescono a sottrarsi ai talk-show e al dettaglio televisivo sulla lacrima. Nella Società dello spettacolo, la sofferenza come l'arroganza, I'aggressività, la morte o la malattia si comprano. Sottrarsi, con l'umiltà di contemplare il comune sfacelo.
Dai pulpiti più improbabili giungono messaggi in altre ere stigma di eresia. "Lo stato centralizzato non funziona; deregulation". Si propongono riforme e costituzioni che lasciano esterrefatti quanto a superficialità e contenuti - una Bicamerale costituita da nemici costretti a infinito compromesso -. Un progetto, giunga a compimento o meno, particolarmente inquietante: dall'attuale stato-nazione a una costellazione di stati-regione con le medesime caratteristiche tradotte su scala minore.
E se una parola potesse pronunciarsi con le telecamere spente, questa dovrebbe riguardare il Libero comune. Il movimento libertario ha dalle origini awersato il sistema del voto, perché la delega spoglia l'individuo del diritto d'intervenire. Sarà un "qualcun altro", più o meno lontano sulla scala gerarchica o geografica, a operare per il bene collettivo. L'idea di una rete di comunità a "dimensione umana", l'idea di un radicale decentramento delle responsabilità e dell'utilizzo delle risorse, appare in tutto il proprio antagonismo. La funzione che determinò a partire dal XIV° secolo l'avvio del processo di accentramento - la guerra - non ha più senso. Caduti i muri a Berlino e altrove, venuto meno uno dei super-belligeranti che per un cinquantennio hanno tenuto il pianeta sulla soglia dell'ecatombe nucleare, il quadro ineluttabilmente cambia. E a nulla vale cercarsi un nemico sostitutivo, perché i candidati risultano troppo caricaturali e deboli per ricoprirne il ruolo. Il Libero comune rappresenta una piena traduzione de ll'ideale umanistico, in quanto presuppone la capacità della comunità ad autogestirsi. Valorizza le risorse e le potenzialità dei singoli e collettive in termini di creatività, organizzazione e socialità. "Una società di santi" è stata definita da alcuni. Ma poste imperfezione e senso di evoluzione quali caratteri della condizione che si di ce umana, la Società dei santi è possibile perché già esistita. È esistita dando vita a modelli ed esperienze eterogenee e quanto mai lontane culturalmente e cronologicamente. La splendida fioritura comunale che a cavallo del primo millennio si accende in Italia per attraversare il continente fino al Baltico non ne è estranea. Le comunità di villaggio, i villaggi di strada, il mirne rappresentano la più celebre espressione nel mondo contadino.
Realtà, è bene ricordarlo, lontane dall'ideale utopia inseguita da pensiero e desiderio dei teorici. La gogna in piazza, le torture; guerre tra corporazioni, famiglie, sette e campanili ne testimoniano gli aspetti più retrivi. E ancora fame, ignoranza e superstizione. Caratteri innervati nella società del tempo, che ottennero la propria sublimazione negli apparati di potere in via di formazione. Lo stato, con i propri condottieri, ministri e porporati, consolidò nel corso del tempo il monopolio "dell'arte della guerra", della giustizia e dell'istituzione religiosa.
Ripensare il Libero comune non significa vagheggiare un'Europa bucolica e punteggiata di torri merlate. Significa, qui e ora, pensare di suddividere i mega-agglomerati urbani in entità di poche migliaia di persone e restituire alle comunità le prerogative loro proprie. Eresia! Come provvedere al funzionamento di sistemi e reti complesse in un mondo dominato dai localismi? Ma è proprio il modello della rete, anche in ambiti determinati da un infinito paesaggio urbano, che ci può soccorrere. Le reti possono svilupparsi indefinitamente mettendo a contatto le realtà più lontane sul piano delle esigenze del vivere comune e della solidarietà. Un'autostrada o un aeroporto possono essere progettati in funzione delle necessità cui rispondono mettendo in comunicazione e in condizione di operare i nodi coinvolti. Discorso tanto più valido in uno scenario, quale l'odierno occidente, dove le infrastrutture sono migliorabili, ma fondamentalmente esistenti.
È un piano questo che prescinde dal modello di organizzazione economica, ma risulta inconciliabile con la pianificazione. Uno scenario improntato all'autogoverno è in altri termini compatibile, anzi favorisce, la proliferazione di esperienze produttive eterogenee: impresa a capitale privato, impresa a capitale diffuso, cooperativa, lavoro autonomo e artigiano, esperimenti solidaristici e comunistici. Ciò che non può essere, diviene l'intervento calato dall'alto, intervento che ha nei processi di nazionalizzazione e nel monopolio i propri paradigmi. Gli individui sono adattabili alle condizioni più estreme, possono sopportare le esperienze più dure, ma necessitano di affetti e legami sociali. Il cittadino della Repubblica ideale può percepirsi totalmente protetto e sicuro, benestante e considerato, ma contemporaneamente sconfinatamente infelice. L'uomo è un "animale sociale". Il malessere che la spoliazione insita nella delega e nel dominio genera si riferisce alla mancanza di identità. Nella metropoli post-industriale alle persone non è concesso quel senso di appartenenza che dal comune medioevale alla confraternita operaia aveva costituito il filo del vivere sociale. Ogni individuo, ogni nucleo, un mondo a parte.
Da un'intima esigenza vitale, oltre che da un processo storicamente determinato, si riattualizza nel mondo contemporaneo la prospettiva di una trasformazione in senso federalista. Tuttavia ripensando alla storia come processo, pur suscettibile di improvvise e stupefacenti accelerazioni, non è pensabile un mutamento catartico. Gli uomini, come le società, possono cambiare, ma con tempi e modi loro propri. Si evidenzia una prospettiva graduale dell'evoluzione, una prospettiva che individua nel senso etico e nell'ambito educativo i propri fondamenti. Non di federalismo, quanto di processo federalistico diviene, anche a questo proposito, utile trattare.
Un progressivo smantellamento delle strutture statali, che non implichi camuffamento a livello regionale o territoriale, appare quanto mai possibile e attuale. Quanto mai umanamente necessario.

Massimo Annibale Rossi