Rivista Anarchica Online
L'imbarazzo dell'elemosina
di Franco La Cecla
La modernità è un'opera quasi perfetta di rimozione della povertà, del problema e delle
sue evidenze
Sta per uscire in libreria Non é cosa, vita affettiva degli
oggetti di Franco La Cecla: un libro steso a quattro mani
e - cosa del tutto originale - con due titoli. Il secondo titolo é Non siamo mai soli. Oggetti e
disegni e fa
riferimento al discorso di immagini che accompagna il testo di La Cecla e con cui Luca Vitone (il secondo
autore, appunto) ci dice di oggetti familiari in ambienti familiari dove, per l'appunto, non siamo mai soli grazie
anche alle cose. Il libro (pagine 128, lire 16.000) esce per i tipi di Elèuthera. Franco
La Cecla (Palermo 1950) insegna Sociologia delle relazioni interetniche presso la Facoltà di Lettere di
Palermo. Ha scritto, tra l'altro, Perdersi, l'uomo senza ambiente (Laterza 1988), Mente locale,
per
un'antropologia dell'abitare (Elèuthera 1993), Bambini per strada (Angeli 1995) e
Il Malinteso, antropologia
dell'incontro (Laterza 1997). Luca Vitone (Genova 1964) vive e lavora a Milano e dal
1987 espone in Italia e all'estero. Nel '97 ha curato
con altri artisti visivi, al Link di Bologna, un convegno sulle nuove ricerche artistiche italiane dal titolo
Come
spiegare a mia madre che ciò che faccio serve a qualcosa? Sul n. 237 (giugno '97) di "A" ha
presentato la
realizzazione, da lui curata a Roma la scorsa primavera, di un percorso storiografico alla ricerca dei luoghi
storici della memoria anarchica. Riproduciamo in queste pagine ampi stralci del capitolo
"L'elemosina", utilizzando immagini tratte qua e là dal
libro.
Fastidiosa perché rivelatrice L'avvento della modernità
potrebbe essere rappresentato come il tentativo, spesso riuscito, di farla finita con i
poveri e con la loro presenza nelle città. Nella storia delle città del XIX secolo la guerra alla
povertà è una guerra
ai poveri, perché essi scompaiano dalla vista, perché la loro presenza non turbi la nuova coscienza
igienica,
morale, ordinatrice che vuole rifondare la cittadinanza sulla base di una rigida selezione eugenica ed etica. La
nuova popolazione urbana deve rispondere a requisiti di appartenenza e di riconoscibilità: un domicilio,
una
famiglia ben distinta da altre, una nazionalità, uno status sociale chiaro, un salario o - successivamente
- la
dipendenza formale da qualche tipo di assistenza. I poveri, le masse di diseredati, gli immigrati, quelli senza fissa
dimora, coloro che sono sospesi tra vari nuclei familiari, quanti vivono per strada, tutti costoro devono essere
regolamentati o sparire. Prima che altri strumenti perfezionino il genocidio di coloro che non corrispondono ai
requisiti di un'identità o di una cittadinanza di qualità, sono questi poveri ad essere la massa su
cui si
sperimentano gli strumenti dello sterminio e della negazione. Le città che ci sono state tramandate
da questa trasformazione, le città del mondo europeo, sono il risultato di una
«pulizia» che ha reso gli spazi funzionali e monotoni, le folle omogenee e gli spostamenti non ingombrati dalla
vita di strada. I poveri sono diventati invisibili, deportati nei casermoni di periferia, o eliminati del tutto, avendo
la povertà scelto la strada della specializzazione geografica, il cosiddetto Terzo mondo, cioè il
luogo dove la
povertà è stata trasferita per consentire alle città del Primo mondo di avere un aspetto ed
un benessere omogeneo. Così le città europee di oggi e molte città dell'Occidente
consentono di non accorgersi, se non in rari casi, che
la povertà esiste, che essa spesso è alle porte delle stesse città del benessere. La
modernità è un'opera quasi
perfetta di rimozione della povertà, del problema e delle sue evidenze. L'elemosina è il resto di
questa rimozione.
È il solo modo rimasto per renderci conto, episodicamente ma puntualmente, del fatto che il disagio
rimosso e
distante può apparire da un momento all'altro e riguardarci personalmente. L'elemosina aggira gli
escamotage
della politica, della religione e della militanza e appare ad un «tu» che non è difeso dal suo ruolo, dalla
buona
coscienza politica, e nemmeno dall'appartenenza ad un'associazione per l'assistenza ai «meno abbienti». La dama
di San Vincenzo o il militante dell'«Humanité» o il benestante con simpatie di destra incontrano
egualmente
qualcuno che fastidiosamente gli pulisce il vetro dell'auto, o la zingara che tende, pericolosamente, la
mano. L'imbarazzo dell'elemosina sta nel fatto che essa non è veramente controllabile (a meno che
non venga interdetta
del tutto), ha una struttura capillare che emerge dai pori e dalle fessure della vita quotidiana e si fa presente in
luoghi in cui non è prevista come attività. L'elemosina individuale non si rivolge all'istituzione,
alla chiesa, al
comune, alle dame di carità, ma al cittadino comune nella sua natura impersonale di passante. L'elemosina
è
fastidiosa e per questo è così rivelatrice. Essa produce una breccia anomala nella
quotidianità. Questo non significa, come vedremo nella seconda parte di questa riflessione, che la
relazione richiesta
dall'elemosina non rientri in un codice di relazioni interpersonali «consentite», ma soltanto che le regole
codificate vengono declinate di volta in volta a seconda del contesto e del faccia a faccia. La cosa «fastidiosa»
è questo tu per tu. L'essere interpellati come un tu fa sì che l'estraneità si manifesti troppo
vicina e come una
specie di ricatto. Il ricatto è morale, si tratta di scegliere se stare al gioco, con tutte le conseguenze:
ha senso dare a quest'uomo
o a questa donna dei soldi? Ne ha veramente bisogno? E poi perché dovrei darglieli io e non quello che
passa
dopo? Quanto è sincera la sua richiesta? In quale posizione sono io per dargli qualcosa? Faccio un gesto
corretto
politicamente, eticamente, un gesto giusto, o invece non permetto a costui o costei di continuare a mendicare?
Non è un male per la società nel suo insieme? Non potrebbe costui o costei andare a lavorare?
Oppure, se dò dei
soldi a questo bambino è chiaro che lui si farà ancora più sfruttare. O ancora, non
è meglio cambiare le condizioni
politiche che consentono all'elemosina di continuare ad esistere?
Ruoli sociali È questo il vero fastidio dell'elemosina, il metterci in una
situazione ambigua. Essa ci interpella personalmente,
ma non è detto che la risposta del dare sia quella giusta. Come non è sicuro che il non dare ci lasci
tranquilli.
Quelli che sostengono che si fa l'elemosina per mettersi l'anima in pace non sanno di cosa parlano. Forse sono
proprio quelli che danno che sono più nella trappola del dubbio di aver fatto male. L'elemosina costringe
nella
scelta disperante tra ipocrisia del dare e cinismo del rifiutare. Perché essa scatena tutta l'ambiguità
dell'accettazione dei ruoli sociali del benestante e del bisognoso. In fin dei conti, quanto mi posso riconoscere
nella mia normalità di benestante e quanto è marginale la
stereotipizzazione di questo elemosinante? Il mio dare rappresenta di per sé l'accettazione di una
condizione di
disparità, ma è anche vero che so in questo momento di avere più soldi di chi me li
chiede. E anche se non fosse
così - mettiamo che lui mi imbrogli e abbia più soldi di me - la differenza che gioca tra me e lui
è che lui chiede,
mentre io no. La sua richiesta postula comunque una risposta che mi imbarazza e mi costringe a rivedere quale
sia la mia posizione nella società. Anche il mio rifiuto mi stigmatizza in un ruolo preciso. Divento
il nichilista che non vede in quest'uomo che
tende la mano una persona ma uno stereotipo e lo inquadra nell'ovvio funzionamento del tutto. Cinicamente mi
rifiuto di dare qualcosa perché tanto non cambia nulla e poi perché io ho uno sguardo che
è superiore a questa
situazione. Mi rifiuto di prendere sul serio l'evenienza perché non è in questo momento che accade
davvero
qualcosa, ma nel momento che vorrò io o che vorrà il mondo se dovrà cambiare. Il mio
stato di freddezza e
indifferenza non mi fa cadere nella trappola della finzione. Quando vedo i poveri chiedere alla porta della
chiesa, quando vedo i bambini zingari mendicare, quando vedo
il cieco, lo storpio, l'handicappato su un angolo di marciapiede, quando vedo i barboni, le bag-ladies, mi viene
da pensare, nella logica del rifiuto, che costoro sono mendicanti «abituali». E allora, anche se così fosse,
cosa ho
risolto? La mia «coscienza» si sente più tranquilla di fronte ad un povero abituale piuttosto che di fronte
ad un
povero «estemporaneo»? E come faccio a riconoscerli? Sono indignato dalla recita che vedo: un padre
zingaro, ben messo e ben vestito, dorme (fa finta di dormire) su
una sedia sul marciapiede vicino alla chiesa della Madeleine a Parigi. Tiene sulle gambe un ragazzo, troppo
grande per essere un bambino, anche lui in salute, a quanto sembra. E anche lui fa finta di dormire. Una scodella
ai piedi mi interpella. Ma per chi mi hanno preso? Sono così stupido da cascarci? È chiaro
che loro sono dentro ad una parte, stanno
facendo la «bella statuina» della tipica «pietà» zingara. Ma all'interno di questa indignazione non
dovrei invece accettare il fatto che loro si mostrano secondo i canoni
consentiti per chiedere l'elemosina, secondo la «pietà» consentita a questo pezzo di secolo? Dovrei essere
più
contento se fossero «davvero» disperati? Bisogna dare l'elemosina solo ai disperati? Ma qual è il criterio
di verità
per capire se c'è una «autentica» situazione di bisogno? Sono autentici i poveri che hanno l'aria davvero
da pazzi
e non sanno nemmeno chiedere, sono autentici i tossici che denunciano in tutta la loro persona una
incapacità
aggressiva, non controllata, di chiedere?
Povertà rimossa A tutte le considerazioni già fatte se ne
aggiunge una nuova. Non è insito nella natura di questo avvenimento,
anarchico e senza regole apparenti, che io debba discernere, quando qualcuno mi tende la mano, il discorso di
bisogno che lui o lei mi fa? Non c'è cioè una mia capacità di rispondere che è,
in primo luogo, l'intelligenza di
fronte ad un'altra intelligenza che sta chiedendo proprio a me e usa una strategia perché proprio io possa
essere
messo in causa? Nella strategia della domanda non c'è l'espressione di qualcosa che in quanto uomo o
donna non
può che chiamarmi a prendere posizione? L'elemosina sembra trasformare l'ingiustizia del mondo e della
società
in particolare, in un rapporto umano, in qualcosa in cui qualcosa dipende da me (da noi, dalla mia mano e dalla
tua) e da questo momento. Non importa la risposta, quello che importa è riconoscere che nella profonda
ingiustizia dell'economia come sistema, nella «globalizzazione», nella disumanizzazione atroce dello scambio
e del flusso della ricchezza e della scarsità, questo momento per quanto stereotipato e «falso» è
però l'emergere
della questione dell'ingiustizia sociale come questione personale. È vero che questo avviene nella
costellazione
della «pietà» consentita a questo nostro tempo (ogni tempo ha avuto una sua costellazione della
pietà), e che per
dimostrarsi bisognosi occorre entrare nell'anonimato a cui tutti i rapporti economici sono sottoposti nella nostra
società. Ma al di sotto di questa crosta sta a me riconoscere che accade qualcosa che mi interpella.
È - che io lo
voglia o meno - un momento di verità che mi obbliga a situarmi di fronte ad un altro essere
umano. Questa spaccatura, questo apparire del bubbone è oggi, alla fine del millennio, ancora un
segno di un resto della
povertà da noi rimossa e trasferita altrove. Ma la povertà, tenuta a bada e allontanata, sta tornando
alle porte e
all'in-terno delle città che ne avevano fatto piazza pulita. Sappiamo bene che lo «sterminio» della
povertà
compiuto nell'ultimo secolo a scala mondiale ha prodotto una povertà sterminata: centinaia di milioni di
individui
sradicati dai loro contesti di appoggio e di risorse, costretti a emigrare, a fuggire, a riparare altrove. Oggi le stesse
nostre «tranquille» città europee sono il luogo in cui il mondo ci chiede l'elemosina nel senso più
stretto di questa
dizione: nord-africani, albanesi, singalesi, indios, aborigeni di varie parti del mondo, nomadi nuovi e vecchi.
Questo mondo agli incroci che lava i vetri delle nostre macchine o appare con cartelli sgrammaticati che chiedono
aiuto, questo mondo costretto a travestirsi da mendicante che possiamo riconoscere come «attendibile», è
in
crescita. Anche in questo caso la risposta o il rifiuto chiamano in causa la coscienza della propria posizione, non
più nella scala sociale e nello status, ma nella collocazione geografica e nelle responsabilità:
questa risposta non
attende però che una giustizia più ampia o un sommovimento generale metta le cose a
posto. Interroga invece con tutta la sua ambiguità la nostra intelligenza, noi, qui, nel momento preciso
dell'incontro.
Chiedere l'elemosina Un arabo cieco chiede l'elemosina nella metropolitana
di Parigi alla stazione Château-Rouge. Vestito della
djallaba bianca, con i piedi infilati nei sandali di plastica, la chiede in arabo. Del vasto pubblico che sale e scende
per le scale di accesso e di uscita del metrò solo alcuni capiscono l'arabo. Ciò implica che solo
gli arabi possono
rispondere alla richiesta del mendicante ed implica anche che egli forse non la gradisce da altri. In una antica
tradizione di marabout e di santi mendicanti egli si situa nella dignità di chi sceglie e non nella
umiliazione dell'essere scelto Nel suo chiedere è già insita una selezione. Questo
atteggiamento che nell'arabo aveugle è in qualche modo
codificato da un'appartenenza ad una comunità (in cui il mendicante è una figura sociale prevista
e richiesta dalla
necessità di verificare il livello comune della pietà) non è però un atteggiamento
riservato ai mendicanti arabi. I mendicanti, in generale, sono dei naturali selezionatori nella massa. Chi chiede
l'elemosina «sceglie» il suo
potenziale donatore. Nella caoticità della folla costui o costei si indirizzano ad una sezione, una fascia,
un
carattere sociale, generazionale o etnico. Questa evidenza resta nascosta dall'apparente anonimità del
chiedere
l'elemosina, esposta alla genericità del pubblico passante. I mendicanti, volutamente o no, indirizzano la
loro
richiesta a qualcuno di preciso, al perfetto donatore che può capire, essere mosso, immedesimarsi o
provare pietà,
solidarietà o rimorso, a qualcuno, comunque, che sa leggere i segni di cui l'elemosinante è
portatore. Da questo punto di vista, chiedere l'elemosina è un'attività che richiede una grande
sensibilità alla composizione
della società che ci si trova dinanzi. C'è un'intelligenza nel mendicare che fa sì che essa
non sia un'attività
casuale, ma una posizione, uno «stare» ben preciso in un luogo che corrisponde ad un angolo del contesto
sociale. C'è bisogno, nel mendicare, di una pratica e di una consuetudine. Nel Vangelo, in una
parabola, un'amministratore indegno che viene licenziato dice a se stesso: Che devo fare?
Di mendicare non sono capace. C'è una capacità di mendicare che fa sì che questa
non sia l'attività dell'ultimo dei disperati; certo anche costui
o costei si trovano a mendicare, a manifestare l'abisso della propria miseria, ma chi «decide» di mendicare
è già
un passo più avanti. Si situa in un livello di rappresentazione pubblica della propria miseria. Di essa fa
una cartina
di tornasole della società intorno. Si espone agli sguardi della folla, sapendo di diventare per essa una
messa in
scena dell'anomalia. Per questo, il passaggio dalla constatazione della propria miseria alla capacità
di chiedere è un passaggio sul
palcoscenico in cui l'individuo diventa una figura sociale del «fuori», non più connotata
«personalmente». Per
questo il passaggio all'elemosina implica uno spogliamento della storia personale per assumere, al posto di un
nome e cognome, la nicchia anonima della marginalità. Lo descrive molto bene nei suoi romanzi Paul
Auster, che racconta la «discesa» di colui che si lascia andare alla
deriva come una perdita (voluta o non) dei riferimenti conosciuti, genitori, amanti, parenti, amici (si acquistano
invece relazioni con i propri simili, con figure di margine e di strada), come un nascondersi in un angolo, ricavare
nel tran tran della società e nelle ripartizioni di ruolo e di relazione un luogo «fuori», un'assenza della
relazione,
il luogo di un dimenticatoio. Solo allora si diventa hobo, barboni, mendicanti. Si diventa cioè
«persone/nicchie», nel nascondimento di un
marciapiede o di uno scalino, sotto un ponte o un cavalcavia, o nella posizione contro il muro o all'angolo della
strada. È difficile chiedere l'elemosina in una situazione in cui si è conosciuti da tutti. Tale
figura di povero, un povero
a cui la comunità intera si riferisce come al proprio povero, è esistita nelle culture tradizionali
ed esiste ancora
in molte culture indigene. È il povero che rappresenta una condizione di scelta, o un destino paradossale
che
interroga l'intera comunità. Ancor oggi, nelle comunità nord-africane emigrate a Parigi, le figure
dei marabout
che vivono di oboli e che sono «installate» all'interno del quartiere, ad un angolo, sono figure della saggezza e
della vita santa, povera, dipendente dalla generosità altrui. Danno consigli, tengono le fila del reseau, delle
reti
di parenti e famiglie che accolgono i nuovi arrivati. La figura dell'elemosinante alla deriva è invece
una rappresentazione della modernità. Ci sono pagine dei
Quaderni di Malte Lauridis Brigge dove Rainer Maria Rilke «scopre» con angoscia e lucidità la terribile
evidenza
della miseria di Parigi, della città che stritola e umilia e costringe a terra coloro che non stanno o non
vogliono
stare alle regole.
Allucinata assurdità Colui che si gioca la vita quotidiana sui
marciapiedi della città è una figura capovolta - forse ne è la faccia
nascosta - del flâneur simmeliano. Si trascina per la città senza meta come l'altro, ma non diventa
come il flâneur
un osservatore disincantato bensì uno spettacolo spersonalizzato. Non è necessario che la sua
storia sia da tutti
conosciuta (soprattutto se il suo essere alla deriva è una fuga da qualcosa), anzi è meglio di
no. Mentre il povero della comunità è qualcuno di cui tutti sanno la caduta in disgrazia, e se
ne raccontano la storia,
il povero urbano è qualcuno che deve mettere in scena la propria disgrazia, fisica, economica o spirituale,
in una
maniera a tutti evidente ed accessibile. Ma non la sua, bensì quella della città, la maniera
consentita per esprimere
la marginalità e il fuori. Di questo era cosciente Brecht, quando nell'Opera da Tre Soldi fa discutere gli
elemosinanti rispetto alla fortuna o meno di avere una «disgrazia visibile». Per Brecht gli elemosinanti sono degli
attori eccellenti per il teatro brechtiano proprio perché praticano l'estraneamento da se stessi per assumere
una
parte da recitare in maniera impersonale, stereotipata. C'è un momento, un giorno, in cui chi non ha
mai mendicato comincia a farlo, ed è un passaggio da una storia
personale, disperata o meno, all'accettazione per se stessi e gli altri della dimensione pubblica della propria
situazione (o del proprio dramma). Chi mendica è spersonalizzato, incarna l'eroe negativo di una tragedia
sociale.
In realtà, a prescindere dalla gravità del bisogno, chiedere l'elemosina è proprio un
dramma, anzi è il dramma
sociale quotidiano, cioè la messa in scena dello scompenso su cui si fonda il meccanismo di
accumulazione della
ricchezza urbana. In questo dramma tutta l'allucinata assurdità della città ci viene comunicata.
La vista del mendicare ci fa violenza,
ci mette in uno stato di disagio. Ci fa vivere nel malessere di qualcosa di profondamente stonato, nella
malvagità
e nell'ingiustizia di cui l'anonima aria delle città sembra essere portatrice. Dentro a questo dramma,
tornando a Brecht, c'è una recitazione ed una retorica, delle figure e dei ruoli fissi e,
come detto più sopra, un accordo tra la maniera consentita di chiedere e la maniera consentita di dare, un
accordo
sulla «pietà». La povertà messa in pubblico deve essere una povertà eloquente, parte di
una retorica della povertà
comprensibile. Ciò sembra in contraddizione con quanto detto sulla selettività del mendicare.
Ma il mendicare è sospeso tra la
rappresentazione pubblica (a tutti) del proprio stato di bisogno e la provocazione di una risposta da parte di una
specifica categoria di persone. Ciò non vuol dire che il mendicante non possa raggiungere altre fasce e
persone,
casualmente, ma guai a quel mendicante che non sa appellarsi ad una specifica sensibilità. Questa
retorica della mendicità, antica come il mondo, non ne è lo scandalo, la dimostrazione che la
mendicità
mette in atto un meccanismo di falsificazione delle identità. Al contrario, è la procedura che
consente alle diverse
identità di una società di diseguali di mettere in scena - ma solo a certe condizioni ed
episodicamente - le
disparità. Questo momento di contrattazione della verità economica (dura e sconvolgente) di una
società ha delle
procedure che in parte sono eredi di una storia di secoli, in parte vengono reinventate contestualmente.
Nuove pratiche Accanto al mendicante che seduto sul marciapiede mostra
senza parole il motivo per cui bisogna dargli
l'elemosina, il difetto o la mutilazione, lo stato lacero dei vestiti, o semplicemente la condizione (un cartello con
la scritta «disoccupato», «padre o madre di famiglia numerosa», «profugo» o addirittura «turista senza soldi»),
vi
sono nuove pratiche. C'è il povero vergognoso che nasconde il volto in città in cui esiste una
mitologia o un'etica del lavoro: ho visto
a Bologna zingari appoggiati ad un muro che mendicavano con il volto nascosto dal bavero e dal
cappello. C'è il mendicante in ginocchio, che esprime l'urgenza del bisogno e che nella posizione urta
la sensibilità di chi
passando non vuole vedere un gesto di tale umiliazione. È come se dicesse a tutti: guardate come mi avete
ridotto,
sono costretto ad umiliarmi pubblicamente. Nell'evoluzione di questa retorica l'importante è lo stereotipo.
La
posizione può essere mitigata con uno zaino su cui poggiare le gambe o il sedere, ma lo stereotipo della
«pietà»
deve essere riconoscibile. Questa retorica è adottata da chi ha bisogno di comunicare che il suo bisogno
è urgente,
ma anche episodico, legato ad una circostanza di deficienza improvvisa (è in viaggio, è di
passaggio, è stato
improvvisamente rovinato nelle poche risorse che aveva). C'è il mendicante con il cane. Questa
retorica ha più a che fare con l'idea pubblicitaria che basta avere un
bambino, un cane o una donna su una copertina che si riesce a vendere quello che c'è dentro.
Effettivamente, il
cane comunica al passante che il bisogno è duplice: non solo il padrone necessita una mano, ma ne ha
bisogno
per sostentare il cane. Questa figura retorica si è allargata ad una categoria, quei punk-a-bestia che nati,
pare in
Germania, da gruppi di giovani che vivevano per strada e che avevano bisogno della protezione di un cane, si
è
diffusa a tutta l'Europa. Oggi lo stereotipo è impressionante. Il punk-a-bestia impersona la doppia parte
del rifiuto
della società e del mendicante. Egli, come punk, deve suscitare il disgusto del pubblico, con una tenuta
che è
ostentatamente sporca, ma anche squallida (colori, maglioni, scarpe e tipo di taglio dei capelli devono dire che
si è rivestito di tutti i rifiuti). Ma deve evitare che alla questua, in genere ag-gressiva nei modi, venga
opposto un
rifiuto. Il cane, o i cuccioli, e la situazione di squallore generale dovrebbero muovere le leve di una commozione
mista a sdegno. Chi fa loro l'elemosina è intrappolato più degli altri nel doppio vincolo di scoprire
il proprio
malessere sia nel dare che nel non dare: egli è comunque disprezzato dall'elemosinante. C'è
il giovane povero, benvestito, che fa presa su chi ha pena nel vedere qualcuno così perbene caduto in
disgrazia: nel metrò egli recita la parte di chi ha perso il lavoro e deve mantenersi pulito ed in ordine fino
ad una
nuova occasione. Chiederà un aiuto e chiederà, se qualcuno glielo offre (ma è ben raro
che ciò accada nel metrò),
un lavoro. C'è colui che racconta di essere appena uscito dal carcere, interpellando così un
pubblico preferenziale che non
vuole che egli vi faccia ritorno e che soprattutto non vuole problemi da uno che deve esservi finito per qualche
motivo. C'è chi, accostandovi per strada, vi dice che ha bisogno di medicine e di calmanti per un
grave esaurimento
nervoso. Vuole suscitare in voi l'urgenza e la paura che non siate proprio voi le vittime della sua carenza di
calmanti. C'è lo stereotipo della ragazza madre, con la drammaticità di una storia da
raccontare. La storia, nella
metropolitana di Parigi o in quella di Milano, è detta con la stessa tonalità, è fatta di
situazioni simili, perfino di
parole analoghe. La voce, la cadenza, sono sensibilmente artate. Lo sanno tutti. Ma è da questo
paradossale
fastidio della finzione in falsetto che nasce l'urgenza di sbarazzarsi di loro, di dargli qualcosa purché la
smettano.
Ciò non toglie che al di sotto di questa performance ci possa essere una reale situazione di
bisogno. C'è quello che entra nella metropolitana e fa finta di riconoscere qualcuno, chiamandolo per
nome o col nome
di un attore famoso. Rompe il vetro dell'anonimità, giocando proprio sul carattere invasivo dell'elemosina.
Non
ha bisogno di chiedere. È la sua invadenza che presuppone che egli abbia bisogno. Molti altri questuanti,
davanti
ai ristoranti o ai locali pubblici, si muovono con la stessa retorica. Si tratta di invadere l'attenzione altrui, con uno
spettacolo che deve essere deludente, minimo: il sordomuto che tenta un numero di prestidigitazione o che fa finta
di molestare i clienti con delle maniere un po' troppo familiari, o il tipo strano che canta ossessivamente male
sempre la stessa strofa. L'importante anche qui è che si imponga la presenza e che parli da sola: visto che
sono
qui e che mi hai notato, dammi qualcosa.
Bambini e zingari C'è poi la categoria dei bambini, che non hanno mai
bisogno o quasi di parlare: per il solo fatto che sono lì di
fronte a voi e che chiedono, voi siete in colpa. Potete cercare di parlagli, le signore possono coccolarli, ma rimane
la presenza più inquietante, autorevole e indipendente. Quella costellazione di identità
nomadi (e non) che chiamiamo pigramente zingari appartiene ad una categoria
della presenza. La loro sola presenza fa mettere mano al portafoglio, per controllare che sia al suo posto, ma visto
che ci si ha la mano sopra, per levarseli di torno con qualche soldo. In più la presenza zingara gioca su
una
strategia della vergogna simile a quella dei punk-a-bestia, ma più sottile. La strategia che fa dire al
passante: ma
non si vergogna?, dove comportamento, abbigliamento e status morale vengono riassunti in un'identità
riconoscibile a prima vista. È impressionante come questa identità non abbia bisogno, soprattutto
oggi, di essere
particolarmente lacera o sporca: è una divisa, un costume riconoscibile tra mille, che li fa individuare
come
irriducibilmente diversi. Cosa ci fa capire che sono zingari? La faccia furba o le doppie gonne a fiori (sovrapposte
con ostentata noncuranza), le collane, il fazzoletto e soprattutto le scarpe aperte, basse o zoccoli, e le calze
colorate a fasce (anch'esse indossate con un'ostentata trasandatezza)? Oggi sta accadendo che gli zingari e i loro
bambini vadano in giro in maniera più decente (se no non li lascerebbero entrare nel metrò),
perfino con
maglioncini Benetton. Ma gli elementi evidenziatori della differenza rimangono le calzature e l'assortimento delle
vesti - a cui si aggiungono certo i tratti contadini e slavi, sebbene non sempre - ma anche i denti d'oro, persino
nei giovani, ed i capelli ricci e incolti. Gli zingari mantengono da secoli le strategie più complesse
del teatro della marginalità, ma anche una grande
capacità di riadattamento delle stesse. Oggi può capitare di vedere donne rom che questuano in
cambio di un
servizio «folclorico» che non è più la lettura della mano, ma un canto o dei passi di danza (un
recupero del passato
o un assimilarsi agli artisti questuanti per far dimenticare l'ag-gressività della propria differenza?). I
polacchi (singalesi, marocchini, pakistani ecc.) lavavetri, i venditori senegalesi di accendini e cassette musicali,
i venditori di fiori «riciclati» nei ristoranti, rientrano nella categoria mendicanti o no? Per certi versi sì,
quando
il loro bisogno viene lasciato più evidente del loro servizio. Il lavaggio di un tergicristallo non merita il
compenso
che viene richiesto, ma è un gesto simbolico che vi dice: piuttosto che chiedere l'elemosina, faccio questo;
se
avessi di meglio, farei altro. Questa figura è costruita su un'intuizione geniale. Il luogo in cui
più fortemente si percepisce l'ingiustizia tra chi
ha e chi non ha è il semaforo o il ristorante. In prossimità del primo, chi ha la macchina non
può negare di avere
un bene e di un certo rilievo. Nel secondo, è innegabile che si hanno i mezzi per il cibo superfluo. In
questi luoghi i poveri del mondo bussano non a voi, ma alle auto stesse o al ristorante, mettendo entrambi i
luoghi nella condizione di simboleggiare l'ingiustizia planetaria. Io ti pulisco il vetro e ciò significa anche
che
sai che questa è un'evidente umiliazione per me. Mi rapporto con una cosa che ti appartiene e non con
te. Come
se ti pulissi le scarpe, né più né meno. Nel balletto che sempre di più avviene
intorno al tergicristallo, tra le resistenze dell'autista e le insistenze,
invadenti, del lavavetri, c'è un margine che può essere consentito perché i lavavetri sono
a piedi e indifesi: gli
autisti stanno dentro le auto e possono schizzare via. C'è anche l'evidenza fisica di una situazione di
disparità. Nel caso dei «fiorai» da ristorante i fiori devono sembrare riciclati, perché il
servizio che vi si offre non è se non
quello di consentirvi di non avere sensi di colpa nel mangiare in un ristorante, con la persona che amate o che vi
piace. Il fatto che l'elemosinante si introduca con un fiore tra voi due significa che intanto ha capito che vi
darà
fastidio con la sua sola presenza, e per questo la lascia latente sotto la copertura di un fiore, che «in altri contesti»
è un omaggio galante. L'omaggio che fate alla dama è l'elemosina, non il fiore, è
cioè la dimostrazione del fatto
che il vostro cuore non è insensibile o, se rifiutate, la dimostrazione che non vi lasciate intimidire di fronte
a lei. E poi i musicanti. Qui la questione è spinosa. Perché nella nostra società non
sappiamo che valore dare all'arte:
essa è senza valore, cioè non solo è offensivo sapere «quanto vale», ma anche negare che
ne abbia uno. Questo
significa che di fronte ad un sassofonista che vi rifà Desafinado, anche in maniera stonata, o di fronte ad
un
vibrante trio zigano, ad una chitarra acustica che riporta agli anni '70 o ad un complesso di indios che suona la
musica andina nel metrò, non sappiamo che pesci pigliare. Non sembra più elemosina.
Perché quello che loro
fanno non lo fanno solo per voi, ma lo fanno anche perché posseggono un'arte. Voi al massimo gli
consentite di
continuare ad esercitarla. Non è un'elemosina, è un premio, una prebenda, una mancia, un
incoraggiamento.
Duecento biglietti da mille Infine ci sono i casi di invenzione da zero in cui,
più che nelle figure stereotipate di cui abbiamo parlato, si capisce
che c'è un'intelligenza al lavoro che ha capito come le questioni economiche attraversino la nostra
coscienza
contemporanea: come delle cesure e delle falle. Il caso più straordinario che mi è capitato di
riscontrare è quello
di un giapponese, vestito con un completo grigio da impiegato, che su un treno tra Parma e Bologna girava per
gli scompartimenti chiedendo con un cartello che gli venissero dati dei soldi perché gli era stato rubato
il biglietto
di ritorno in Giappone. In mano aveva una mazzetta ben spessa di biglietti da mille lire, almeno duecento e li
andava continuamente contando, senza nemmeno guardare le persone a cui stava proponendo la colletta. Inutile
dire che quasi tutti lo aiutavano con almeno mille lire. Il suo gioco era efficace perché non si è
mai visto in Italia
un giapponese bisognoso, e si basava anche sullo sdegno suscitato dalla vista di un turista giapponese derubato
presumibilmente dal «solito» italiano («dobbiamo sempre farci riconoscere»), lo sdegno per un Paese che non
merita il turismo. Siamo ancora di fronte ad un caso di elemosina, o siamo passati ad un altro campo? Credo
che si tratti di una
nuova categoria, quella che gioca con le ambiguità e le fratture della nostra coscienza economica
quotidiana. La globalizzazione qui aveva la sua parte, perché per dare bisognava sapere cosa è
il Giappone economicamente
rispetto a noi. Nulla di più coagente per un cuore sensibile della vista di una persona normale e benestante
ridotta,
per la cattiveria pubblica, a mendicare. Darle molti soldi significava restaurarla nella normalità che a lei
ci
accomunava. L'elenco qui offerto potrebbe continuare all'infinito. Ma ci sono alcune costanti che vale la pena
di rilevare.
Intanto c'è una maniera di mendicare che gioca sulla presenza ed una che gioca sull'assenza: ci emoziona
la vista
di un difetto o di una carenza, di una differenza evidente o di uno stato di pericolo imminente per quella persona
(per i bambini, per i vecchi soli, ecc.); o vogliamo sbarazzarci di un'irruzione ingombrante, questuanti, zingari,
elemosinanti ossessivi, provocandone l'assenza. Queste due categorie fondamentali sono declinate in figure
di varia intensità: la presenza può essere giocata dal
grado zero del «sono qui», al fastidio dell'insistenza, fino all'ostentazione della gamba mancante. E per l'assenza
il discorso è analogo: si va dall'impercettibile voglia di levarsi di torno il lavavetri all'insostenibile
necessità di
sfuggire al questuante ossessivo. Ci sono categorie intermedie e sono quelle che «offrono un servizio che
assomiglia a un favore». Queste si
pongono nel limbo di una zona di ambigua utilità. Si va dal posteggiatore a cui lasciate le chiavi per
la vostra auto in doppia fila all'extracomunitario che vi attende
per cambiare i soldi ma anche per rifornirvi al self-service notturno della stazione di benzina. A lui pagate il
vantaggio dell'essere serviti anche se siete in un self-service, ridando così, in qualche modo, un aspetto
economico
ad un servizio friendly che l'automazione ha eliminato. A volte in questa categoria sta il lavavetri, il venditore
di accendini e di fazzolettini. Ma può anche succedervi
di chiedere un'informazione ad un elemosinante abituale (rispetto ad una strada che lui deve conoscere visto che
è sempre lì). Se, avuta l'informazione, volete dargli dei soldi, lui si rifiuta, perché non
rientra nella relazione di
pietà che vi proponeva (mi è successo vicino al metrò Cordusio, a Milano). Questa
zona intermedia cresce nella misura in cui si amplia la fascia ambigua dell'economia. Scompaiono lavori
che una volta esistevano, scompare soprattutto il lavoro consistente nello «stare fermi da qualche parte», i
bigliettai, i guardiani, i portieri. In questa zona entrano i nuovi questuanti e si pongono a metà tra
l'elemosina e
la mancia. Ma le tre categorie nel loro insieme hanno a che fare con il fatto che la città come luogo
in cui stare fermi per
strada non esiste quasi più. Gli elemosinanti sono persone/luoghi, e sono a volte le uniche presenze
costanti,
nell'arco di una giornata, in una strada o a volte in un'area di più isolati. Il loro vero lavoro è
questo: è la fatica dello stare, dell'attendere e del ripetersi. Tra una hostess dell'Alitalia, un commesso
del McDonald o una telefonista di un servizio pubblico ed un
elemosinante che ripete migliaia di volte al giorno la stessa formula di richiesta non c'è poi una grande
differenza.
Si tratta di una fatica spossante, cioè la fatica della ossessiva ripetizione di un ruolo, di parole e di
tonalità sempre
uguali. Gli elemosinanti della metropoli prendono su di sé anche questa assurdità, diventano
macchine della pietà
dietro la cui facciata si nasconde a volte in maniera totale qualcosa che sta a noi scoprire come volto e come
mito.
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