Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 28 nr. 244
aprile 1998


Rivista Anarchica Online

La guerra continua
di Maria Matteo

Gli accordi di Hannan e Hussein hanno scongiurato lo scontro bellico. Con "altri" mezzi, però...

Quand'ero bambina ero convinta che il mondo attraversasse una lunga epoca di pace e che in gran parte del pianeta non vi fossero conflitti armati. In realtà, come avrei compreso solo più tardi, il paese in cui ero nata ed in cui vivevo era all'interno di uno dei due schieramenti che combattevano una strana guerra, quella che anche all'epoca veniva chiamata "guerra fredda". Era una guerra in cui due grandi blocchi politici, ideologici e militari si fronteggiavano per il dominio del pianeta. Sino all'89, anno fatidico che segnò la disgregazione di uno dei due blocchi, quello cosiddetto dei paesi del "socialismo reale" o, in termini più propriamente militari, del "patto di Varsavia", il panorama politico, sociale, culturale che avevo, avevamo, intorno non pareva potesse prescindere dal confronto mortale tra potenze che, se avessero deciso il pieno dispiegamento dei loro apparati bellici, avrebbero potuto causare un'ecatombe tale da condurre all'annientamento del pianeta stesso. Gli scenari possibili erano tanto terrificanti da indurre molti a ritenere che il timore delle conseguenze agisse da deterrente nei confronti delle tentazioni belliche delle due parti. In realtà il mancato scontro diretto tra Stati Uniti ed Alleanza Atlantica (cui aderiva ed aderisce l'Italia) ed Unione Sovietica e patto di Varsavia si espresse non soltanto in modo "freddo" ma anche, non secondariamente, in vari conflitti locali che vedevano i due contendenti più o meno direttamente coinvolti: Sud-est asiatico, Africa e Sudamerica sono stati teatro di guerre guerreggiate sanguinose e cruente. In realtà dopo la seconda guerra mondiale vi sono state guerre continue, che, come già era avvenuto nel corso del secondo conflitto mondiale, mietono vittime specie tra la popolazione civile.
La rapida decadenza del blocco che faceva capo all'Unione Sovietica ha presto mutato le modalità attraverso le quali si davano e si danno i conflitti. Sempre più spesso l'ombrello dell'ONU è stato aperto su operazioni militari più o meno esplicite in varie occasioni di crisi locale: ricordiamo a mero titolo di esempio la Bosnia, la Somalia, l'Irak. In ciascuna di queste occasioni, pur essendo del tutto evidente il diretto interesse dei paesi che materialmente si assumevano per conto delle Nazioni Unite il compito di intervenire, le azioni militari venivano presentate a seconda dei casi come operazioni di polizia internazionale o iniziative umanitarie. E' facile chiarire l'uso strumentale dei deliberati dell'ONU osservando come risultino del tutto inspiegabili con le ragioni dell'umanesimo o di quella strana cosa che va sotto la denominazione di diritto internazionale i motivi per cui viene deciso l'intervento in certi paesi ed in altri no. Perché l'ONU è intervenuta in Somalia e in Bosnia e invece resta alla finestra di fronte al dramma delle donne afgane e algerine o ai continui massacri e vessazioni cui la popolazione curda è sottoposta in Iran, Siria, Irak e Turchia?

Galassia pacifista
Contestualmente si è, almeno in parte, venuto modificando l'atteggiamento della variegata e complessa galassia in cui si articolano i movimenti pacifisti nei paesi occidentali ed in particolare nel nostro. Solo sette anni orsono i movimenti che in Italia si svilupparono in opposizione alla guerra del golfo e che, almeno nella fase iniziale raccolsero adesioni numericamente non del tutto disprezzabili, erano ancora pesantemente attraversati da mitologie terzomondiste che impedivano una presa di distanza nei confronti dell'imperialismo irakeno paragonabile alla condanna delle mire americane sulla regione. In occasione della recente crisi tra Stati Uniti ed Irak è apparso con tutta evidenza come tali posizioni abbiano ormai ben poco peso. Nel contempo tuttavia si è assistito al rarefarsi numerico dei movimenti pacifisti, la cui presenza specifica, anche in occasione della recente crisi tra Stati Uniti ed Irak, assume ormai una valenza puramente residuale. Anche nelle località in cui la minaccia di un nuovo conflitto nel golfo ha dato luogo a manifestazioni di piazza significative, la maggior parte dei partecipanti si sono radunati intorno agli striscioni ed alle bandiere delle organizzazioni politiche, dei centri sociali, dei sindacati di base, mentre decisamente minoritario è stato l'apporto delle associazioni pacifiste in senso stretto. In qualche modo la fine di un certo pacifismo si è tradotta nel venir meno di movimenti pacifisti con un'ampia base di consenso. A Torino nel '91 le varie aggregazioni pacifiste furono tra le principali animatrici delle iniziative che in città si opposero alla guerra: due mesi fa non rappresentavano che un'esile minoranza.
L'ultima crisi tra Stati Uniti e Irak, che per un po' è parsa riaprire gli scenari della guerra che all'inizio di questi anni '90 si è combattuta nel Golfo Persico, ci ha riportato dinanzi agli occhi le immagini di una guerra che in realtà non si è mai conclusa, una guerra la cui principale vittima è stata la popolazione civile.
Quando, nel febbraio del '91, le truppe americane interruppero la loro avanzata verso Baghdad e venne proclamato l'embargo economico verso l'Irak, divenne del tutto chiaro che, nonostante la retorica che aveva preceduto, accompagnato e seguito le operazioni nel golfo persico, il novello Saladino Saddam Hussein certo non era tra gli obbiettivi reali dell'operazione "Tempesta nel deserto". Spodestare con la forza Hussein avrebbe significato allora e, probabilmente, ancora oggi, dare forza alle opposizioni sciite filoiraniane ed a quelle curde. Non è certo casuale che parecchi curdi irakeni, che nel '91 si schierarono a favore dell'intervento militare delle forze dell'ONU in Irak, sperando che ne potesse derivare un miglioramento per le condizioni di vita dei curdi in quel paese, nel corso della recente crisi abbiano preferito adottare posizioni pacifiste. Sette anni orsono, interrompendo la loro avanzata ormai inarrestabile verso Baghdad, gli americani consentirono al dittatore irakeno di soffocare nel sangue le rivolte degli sciiti e dei curdi, rispettivamente al sud ed al nord del paese. Il tutto con buona pace di chi in Europa esercitava le fini arti della dialettica per decidere chi tra i due contendenti fosse il meno peggiore.
Può apparire paradossale che la politica estera americana degli ultimi anni abbia di fatto favorito e fors'anche consolidato il regime di quel Saddam Hussein che all'opinione pubblica statunitense in particolare ed a quella occidentale in generale era indicato come un nemico pericoloso non solo per gli interessi americani ma anche e soprattutto per i valori di democratica, civile e pacifica convivenza tra i popoli dei quali l'ONU mira a farsi garante. Se tuttavia si esamina più da vicino la questione, il paradosso non è che apparente: non sempre è utile annientare un nemico, poiché in certi casi può essere di grn lunga più produttivo tenerlo sotto tiro senza distruggerlo.

Petrolio e sesso
Gli Stati Uniti, le cui necessità di approvvigionamento petrolifero dipendono per un buon cinquanta per cento dalle importazioni, e che da sempre mirano a garantirsi il controllo dello sfruttamento delle risorse petrolifere, hanno grande interesse a mantenere sotto pressione l'Irak, senza tuttavia compromettere i delicati equilibri del medio oriente. Non dimentichiamo inoltre la pressione indiretta sui paesi europei il cui bisogno di risorse petrolifere non è certo minore di quello statunitense. Non è certo un caso che l'unico paese europeo schieratosi in modo netto a fianco degli americani sia stata la Gran Bretagna, ossia l'unico paese che ha riserve petrolifere proprie nonché la necessità di mantenere alto il prezzo del greggio per sostenere il petrolio del mare del nord i cui costi estrattivi sono più alti di quelli del medio oriente.
I mezzi di comunicazione hanno insistito parecchio nell'indicare quale fattore principale del rapido accentuarsi delle tensioni tra Stati Uniti ed Irak la necessità del presidente americano di far rapidamente dimenticare lo scandalo sexygate. Non si può certo escludere che esigenze di politica interna abbiano contribuito ad accelerare i tempi della crisi. In molti ricorderanno che la dittatura argentina, nel tentativo di salvare il proprio potere, scatenò una guerra con la Gran Bretagna per il possesso di un piccolo arcipelago nella Terra del Fuoco, un pugno di isolette scarsamente abitate in un territorio poco ospitale: gli inglesi le chiamano Falkland, gli argentini Malvinas.
Resta il fatto che, sebbene negli Stati Uniti il comportamento sessuale dei politici sia tanto importante da condizionarne la carriera, tuttavia il solo sexygate non può giustificare che si siano fatti rullare in modo tanto minaccioso i tamburi di guerra. Un elemento che non può aver mancato di pesare è la crescente richiesta di finanziamenti da parte degli apparati militari, desiderosi di aggiornare gli armamenti. Il Pentagono calcola che nuove armi e più sofisticati strumenti di comunicazione avrebbero necessità di un investimento di trecentocinquanta miliardi di dollari. E' ovvio che per il Pentagono una guerricciola ogni tanto è il modo migliore sia per sperimentare nuove tecnologie sia per convincere l'opinione pubblica della necessità di nuovi investimenti nel campo degli armamenti.
Gli accordi tra Hannan ed Hussein paiono aver al momento scongiurato la ripresa del conflitto tra gli eserciti. Sarà tuttavia bene non dimenticare che sette anni orsono la guerra guerreggiata fece duecentomila vittime, negli anni successivi, la denutrizione e la mancanza di medicinali hanno mietuto altri ottocentomila morti tra la popolazione civile.
Così oggi come già nel '91, spentisi i riflettori sullo spettacolo bellico, la guerra continua. Con "altri" mezzi.