Rivista Anarchica Online
La guerra continua
di Maria Matteo
Gli accordi di Hannan e Hussein hanno scongiurato lo scontro bellico. Con "altri" mezzi, però...
Quand'ero bambina ero convinta che il mondo attraversasse una lunga epoca di pace
e che in gran parte del
pianeta non vi fossero conflitti armati. In realtà, come avrei compreso solo più tardi, il paese in
cui ero nata ed
in cui vivevo era all'interno di uno dei due schieramenti che combattevano una strana guerra, quella che anche
all'epoca veniva chiamata "guerra fredda". Era una guerra in cui due grandi blocchi politici, ideologici e militari
si fronteggiavano per il dominio del pianeta. Sino all'89, anno fatidico che segnò la disgregazione di uno
dei due
blocchi, quello cosiddetto dei paesi del "socialismo reale" o, in termini più propriamente militari, del
"patto di
Varsavia", il panorama politico, sociale, culturale che avevo, avevamo, intorno non pareva potesse prescindere
dal confronto mortale tra potenze che, se avessero deciso il pieno dispiegamento dei loro apparati bellici,
avrebbero potuto causare un'ecatombe tale da condurre all'annientamento del pianeta stesso. Gli scenari possibili
erano tanto terrificanti da indurre molti a ritenere che il timore delle conseguenze agisse da deterrente nei
confronti delle tentazioni belliche delle due parti. In realtà il mancato scontro diretto tra Stati Uniti ed
Alleanza
Atlantica (cui aderiva ed aderisce l'Italia) ed Unione Sovietica e patto di Varsavia si espresse non soltanto in
modo "freddo" ma anche, non secondariamente, in vari conflitti locali che vedevano i due contendenti più
o meno
direttamente coinvolti: Sud-est asiatico, Africa e Sudamerica sono stati teatro di guerre guerreggiate sanguinose
e cruente. In realtà dopo la seconda guerra mondiale vi sono state guerre continue, che, come già
era avvenuto
nel corso del secondo conflitto mondiale, mietono vittime specie tra la popolazione civile. La rapida
decadenza del blocco che faceva capo all'Unione Sovietica ha presto mutato le modalità attraverso le
quali si davano e si danno i conflitti. Sempre più spesso l'ombrello dell'ONU è stato aperto su
operazioni militari
più o meno esplicite in varie occasioni di crisi locale: ricordiamo a mero titolo di esempio la Bosnia, la
Somalia,
l'Irak. In ciascuna di queste occasioni, pur essendo del tutto evidente il diretto interesse dei paesi che
materialmente si assumevano per conto delle Nazioni Unite il compito di intervenire, le azioni militari venivano
presentate a seconda dei casi come operazioni di polizia internazionale o iniziative umanitarie. E' facile chiarire
l'uso strumentale dei deliberati dell'ONU osservando come risultino del tutto inspiegabili con le ragioni
dell'umanesimo o di quella strana cosa che va sotto la denominazione di diritto internazionale i motivi per cui
viene deciso l'intervento in certi paesi ed in altri no. Perché l'ONU è intervenuta in Somalia e in
Bosnia e invece
resta alla finestra di fronte al dramma delle donne afgane e algerine o ai continui massacri e vessazioni cui la
popolazione curda è sottoposta in Iran, Siria, Irak e Turchia?
Galassia pacifista Contestualmente si è, almeno in parte, venuto
modificando l'atteggiamento della variegata e complessa galassia
in cui si articolano i movimenti pacifisti nei paesi occidentali ed in particolare nel nostro. Solo sette anni orsono
i movimenti che in Italia si svilupparono in opposizione alla guerra del golfo e che, almeno nella fase iniziale
raccolsero adesioni numericamente non del tutto disprezzabili, erano ancora pesantemente attraversati da
mitologie terzomondiste che impedivano una presa di distanza nei confronti dell'imperialismo irakeno
paragonabile alla condanna delle mire americane sulla regione. In occasione della recente crisi tra Stati Uniti ed
Irak è apparso con tutta evidenza come tali posizioni abbiano ormai ben poco peso. Nel contempo tuttavia
si è
assistito al rarefarsi numerico dei movimenti pacifisti, la cui presenza specifica, anche in occasione della recente
crisi tra Stati Uniti ed Irak, assume ormai una valenza puramente residuale. Anche nelle località in cui
la minaccia
di un nuovo conflitto nel golfo ha dato luogo a manifestazioni di piazza significative, la maggior parte dei
partecipanti si sono radunati intorno agli striscioni ed alle bandiere delle organizzazioni politiche, dei centri
sociali, dei sindacati di base, mentre decisamente minoritario è stato l'apporto delle associazioni pacifiste
in senso
stretto. In qualche modo la fine di un certo pacifismo si è tradotta nel venir meno di movimenti pacifisti
con
un'ampia base di consenso. A Torino nel '91 le varie aggregazioni pacifiste furono tra le principali animatrici
delle iniziative che in città si opposero alla guerra: due mesi fa non rappresentavano che un'esile
minoranza. L'ultima crisi tra Stati Uniti e Irak, che per un po' è parsa riaprire gli scenari della guerra
che all'inizio di questi
anni '90 si è combattuta nel Golfo Persico, ci ha riportato dinanzi agli occhi le immagini di una guerra
che in
realtà non si è mai conclusa, una guerra la cui principale vittima è stata la popolazione
civile. Quando, nel febbraio del '91, le truppe americane interruppero la loro avanzata verso Baghdad e venne
proclamato l'embargo economico verso l'Irak, divenne del tutto chiaro che, nonostante la retorica che aveva
preceduto, accompagnato e seguito le operazioni nel golfo persico, il novello Saladino Saddam Hussein certo non
era tra gli obbiettivi reali dell'operazione "Tempesta nel deserto". Spodestare con la forza Hussein avrebbe
significato allora e, probabilmente, ancora oggi, dare forza alle opposizioni sciite filoiraniane ed a quelle curde.
Non è certo casuale che parecchi curdi irakeni, che nel '91 si schierarono a favore dell'intervento militare
delle
forze dell'ONU in Irak, sperando che ne potesse derivare un miglioramento per le condizioni di vita dei curdi in
quel paese, nel corso della recente crisi abbiano preferito adottare posizioni pacifiste. Sette anni orsono,
interrompendo la loro avanzata ormai inarrestabile verso Baghdad, gli americani consentirono al dittatore irakeno
di soffocare nel sangue le rivolte degli sciiti e dei curdi, rispettivamente al sud ed al nord del paese. Il tutto con
buona pace di chi in Europa esercitava le fini arti della dialettica per decidere chi tra i due contendenti fosse il
meno peggiore. Può apparire paradossale che la politica estera americana degli ultimi anni abbia di
fatto favorito e fors'anche
consolidato il regime di quel Saddam Hussein che all'opinione pubblica statunitense in particolare ed a quella
occidentale in generale era indicato come un nemico pericoloso non solo per gli interessi americani ma anche e
soprattutto per i valori di democratica, civile e pacifica convivenza tra i popoli dei quali l'ONU mira a farsi
garante. Se tuttavia si esamina più da vicino la questione, il paradosso non è che apparente: non
sempre è utile
annientare un nemico, poiché in certi casi può essere di grn lunga più produttivo tenerlo
sotto tiro senza
distruggerlo.
Petrolio e sesso Gli Stati Uniti, le cui necessità di approvvigionamento
petrolifero dipendono per un buon cinquanta per cento
dalle importazioni, e che da sempre mirano a garantirsi il controllo dello sfruttamento delle risorse petrolifere,
hanno grande interesse a mantenere sotto pressione l'Irak, senza tuttavia compromettere i delicati equilibri del
medio oriente. Non dimentichiamo inoltre la pressione indiretta sui paesi europei il cui bisogno di risorse
petrolifere non è certo minore di quello statunitense. Non è certo un caso che l'unico paese
europeo schieratosi
in modo netto a fianco degli americani sia stata la Gran Bretagna, ossia l'unico paese che ha riserve petrolifere
proprie nonché la necessità di mantenere alto il prezzo del greggio per sostenere il petrolio del
mare del nord i
cui costi estrattivi sono più alti di quelli del medio oriente. I mezzi di comunicazione hanno insistito
parecchio nell'indicare quale fattore principale del rapido accentuarsi
delle tensioni tra Stati Uniti ed Irak la necessità del presidente americano di far rapidamente dimenticare
lo
scandalo sexygate. Non si può certo escludere che esigenze di politica interna abbiano contribuito ad
accelerare
i tempi della crisi. In molti ricorderanno che la dittatura argentina, nel tentativo di salvare il proprio potere,
scatenò una guerra con la Gran Bretagna per il possesso di un piccolo arcipelago nella Terra del Fuoco,
un pugno
di isolette scarsamente abitate in un territorio poco ospitale: gli inglesi le chiamano Falkland, gli argentini
Malvinas. Resta il fatto che, sebbene negli Stati Uniti il comportamento sessuale dei politici sia tanto
importante da
condizionarne la carriera, tuttavia il solo sexygate non può giustificare che si siano fatti rullare in modo
tanto
minaccioso i tamburi di guerra. Un elemento che non può aver mancato di pesare è la crescente
richiesta di
finanziamenti da parte degli apparati militari, desiderosi di aggiornare gli armamenti. Il Pentagono calcola che
nuove armi e più sofisticati strumenti di comunicazione avrebbero necessità di un investimento
di
trecentocinquanta miliardi di dollari. E' ovvio che per il Pentagono una guerricciola ogni tanto è il modo
migliore
sia per sperimentare nuove tecnologie sia per convincere l'opinione pubblica della necessità di nuovi
investimenti
nel campo degli armamenti. Gli accordi tra Hannan ed Hussein paiono aver al momento scongiurato la ripresa
del conflitto tra gli eserciti. Sarà
tuttavia bene non dimenticare che sette anni orsono la guerra guerreggiata fece duecentomila vittime, negli anni
successivi, la denutrizione e la mancanza di medicinali hanno mietuto altri ottocentomila morti tra la popolazione
civile. Così oggi come già nel '91, spentisi i riflettori sullo spettacolo bellico, la guerra
continua. Con "altri" mezzi.
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