Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 28 nr. 243
marzo 1998


Rivista Anarchica Online

Dalle TAZ alla lotta contro il capitale globale
di Pietro Adamo

E' appena uscito "Millennium", ultimo libro di uno degli esponenti più noti (anche in Italia) e controversi dell'anarchismo statunitense

Hakim Bey - ovvero Peter Lamborn Wilson - è forse il più noto rappresentante di quel particolare underground americano in cui si intrecciano eredità controculturali, immaginario cyber e suggestioni anarchiche. Come Peter Lamborn Wilson e come editor di Autonomedia ha scritto e curato decine di volumi (in italiano si segnala l'antologia di fantascienza Strani attrattori, Shake); come Hakim Bey ha firmato l'ormai mitico Taz. Zone temporaneamente autonome (Shake), in cui l'ethos dell'anarchia si fonde creativamente con un linguaggio suggestivo che mette insieme situazionismo e teoria del caos, culture alternative e street tech, nomadismo psichico e neopaganesimo. L'hard core del testo sta nel nuovo approccio al problema del cambiamento: constatata l'illusorietà della versione tradizionale della rivoluzione come conquista del potere dei diseredati e atto di cesura nella storia, non resta che teorizzare una situazione di costante insurrezione, nel senso della ricerca di "zone temporaneamente autonome" dai valori dominanti in cui praticare la sovversione di tali valori e la sperimentazione di nuovi stili di vita, improntati da relazioni egualitarie e antigerarchiche. Spesso le argomentazioni del Bey - o, per meglio dire, il suo stile discorsivo - sono state fraintese. Più che rilevarne le novità concettuali - che si esplicano proprio sul livello della relazione tra il linguaggio della politica e il superamento degli ideali della tradizione di sinistra d'Occidente - si è cercato la "proposta concreta", "la nuova via per l'anarchismo rivoluzionario", eccetera, ponendosi proprio sul piano di cui Taz celebrava la dipartita. Negli ultimi anni, PLB si è concentrato maggiormente sui temi della "resistenza", mostrando nuove sfaccettature delle sue posizioni e abbandonando nel contempo la prospettiva forse più ricca dell'antagonismo esistenziale di Taz.
Ho incontrato Peter nei "sotterranei" della libreria "Utopia" nel corso della sua recente tournèe italiana, grazie all'interessamento dei compagni della Shake. Più che un'intervista generica, ho giudicato più interessante il tema dei rapporti del Bey con la tradizione anarchica. Nel corso del colloquio è spesso emerso il nome di Murray Boockhin, autore qualche tempo fa di un vispo volumetto - intitolato "Social Anarchism and Lifestyle Anarchism. An Unbridgeable Chasm" - in cui Hakim Bey e altri rappresentanti dell'anarchismo americano contemporaneo vengono lapidati come rappresentanti di una visione "piccolo borghese", "individualistica" e avversa alla costruzione di una reale politica d'"opposizione". Mi pare che la discussione, francamente polemica, delle idee e dell'attacco di Bookchin - direttamente pertinenti al tema di "quale anarchismo" - abbia permesso non solo di proiettare le posizioni di PLB in una dimensione più immediata, ma anche di comprendere al meglio il suo più profondo atteggiamento "politico".

P.A.

Chiunque legga i tuoi libri si rende conto della matrice pienamente anarchica di molte delle tue idee. Come ti poni rispetto alla tradizione e alle sue diverse anime (comunista, comunitaria, collettivista, individualista, eccetera)?
E come ti senti rispetto a questa tradizione? Ovviamente suppongo che tu sia disposto a definirti anarchico.

Certo che sono disposto a definirmi tale. Si tratta della mia tradizione; sono queste le idee in cui è radicato il mio lavoro. Io penso che svilupparsi e cambiare non significhi tradire le tradizioni, ma piuttosto salvarle. Ciò che ho cercato di fare è stato di rendere rilevanti le idee classiche dell'anarchismo in una nuova situazione. E dall'Ottantanove noi abbiamo una situazione ancora più nuova. Non c'è più ragione di continuare a combattere il comunismo, in particolare quello sovietico, perché si tratta solo di un fantasma. E noi non crediamo ai fantasmi, eccetto che nel senso forte di spooks in the air.

Sai, in Italia ci sono ancora un sacco di fantasmi. Noi li affrontiamo tutti i giorni.

No, forse tu hai anche visto qualche fantasma, ma non del genere che intendo io. Per quanto riguarda questi, affrontarli non significa restarne spaventati a morte. Ora noi ci troviamo in un mondo, un mondo mentale, ancora fondato sulla divisione tra il comunismo sovietico da un lato, e dall'altro ... non so come vuoi chiamarlo, la grande civiltà occidentale. Si può anche pensare che l'anarchismo sia la quintessenza di questa civiltà, ma io non la penso così. Io credo che la tradizione anarchica sia antitetica a essa, che il progetto resti quello di andare oltre la civiltà occidentale. Mi ricordo un aneddoto su Gandhi. Quando Mountbatten gli chiese cosa pensasse della civiltà occidentale, Gandhi rispose che come idea gli sembrava davvero ottima. Se davvero esistesse qualcosa che potremmo chiamare civiltà occidentale, forse potremmo sostenerla. Il cosiddetto comportamento razionale, la gentilezza verso i deboli, la solidarietà sociale, la cultura, l'arte, eccetera: indubbiamente tutte cose meravigliose, ma non le abbiamo mai avute. E quindi che cosa mai dovremmo sostenere?

Ancora un'altra domanda sulla tradizione. In TAZ hai citato Stephen Pearl Andrews e in Millennium Lysander Spooner, due dei grandi pensatori anarchici dell'Ottocento. Suppongo che tu conosca i grandi pensatori dell'anarchismo americano ottocentesco: Andrews, Spooner, Josiah Warren, Benjamin Tucker, ...

Si tratta secondo me di figure particolarmente interessanti. Quando ho ricominciato a interessarmi di anarchismo dopo molti anni, si è trattato fondamentalmente della scuola individualista, di quella filosofica americana e di quella tedesca. Infatti appartengo alla MacKay Society, un'organizzazione che è un ramo della tedesca Mackay Gesellschaft. Non è più attiva. Ma sono sempre stato affascinato dalle idee di questa tradizione e da essa ho preso le mie idee.

A proposito di etichette e tradizioni, l'anno scorso Murray Bookchin si è soffermato sul contrasto tra lifestyle anarchism e social anarchism. Secondo lui tu sei uno dei principali esponenti del lifestyle anarchism. Come ti senti a proposito?

Nessuno usa il termine lifestyle anarchism se non come insulto. Potremmo chiamarlo anarchismo del terzo tipo, intendendo non individualista, non comunista, ma una terza posizione. Noi siamo sempre stati - se posso permettermi di dire noi - contro l'ideale del lifestyle. Non ho mai usato queste termine nei miei scritti. Per me comprende fashion, ma non life. Di fatto, ha scelto il termine più insultante che è riuscito a pensare. Ma è arrivato sin troppo tardi. Se c'è mai stata una cosa del genere, riguarda gli anni ottanta. Oggi è finita. Si è soltanto reso ridicolo, mettendosi ad ammazzare i morti. Devi ricordare che nessuna di queste persone ha mai attaccato Murray Bookchin... Beh, a dire la verità non lo so, parlo solo per me stesso...

In passato è stato attaccato da Fifth Estate.

Lo hanno criticato, certo. Io non l'ho mai fatto. Non mi interessava. Lui ha avuto alcune buone idee negli anni sessanta e settanta. Poi non ha fatto altro che lamentarsi. È un appassionato difensore della civiltà occidentale, i greci, l'agorà...

È un autore classico...

Tetro, e opprimente. La sua comprensione dell'antropologia e delle strutture tribali non autoritarie è sbagliata. Non ha letto alcuni testi fondamentali sull'argomento. In generale il suo libro non ha avuto sostenitori. Mettendo poi la sua foto in copertina è sembrato un vero khomeinista... il grande vecchio... il papa... Io credo che di fondo l'argomento sia piuttosto noioso ed è per questo motivo che non mi sono preso il fastidio di rispondergli.
Perché dobbiamo sempre stare a combattere le vecchie fottute battaglie? Non è come se stessimo combattendo nella Guerra civile spagnola. Mi chiedo perché dobbiamo stare a discutere cose che erano già morte negli anni Sessanta e Settanta.

Verso la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta il termine lifestyle anarchism - o qualcosa che gli corrispondeva - veniva usato per descrivere gli anarchici più vicini alla controcultura. Secondo me Bookchin usa il termine in un senso particolare, che accomuna tutti i suoi nemici: nel senso che tutti loro sono contro un certo tipo di rivoluzione politica, o, per meglio dire, contro una rivoluzione condotta con i mezzi della politica tradizionale. Ho sempre pensato che i tuoi scritti esprimessero direttamente proprio questa posizione, e in questa accezione fossero proprio lifestyle anarchism: un progetto di rivoluzione nella vita di tutti i giorni, nel modo in cui viviamo la nostra vita quotidiana.

Ho capito. Rivoluzione nella vita quotidiana: questo è un termine più interessante. Associato con i situazionisti, suppongo. Non ha niente a che fare con lo style.

In italiano il termine, inteso come "stile di vita", potrebbe avere connotazioni meno negative.

In inglese - non so in italiano - il termine style significa fashion, fad. Questo è il motivo per cui io non l'ho mai usato, eccetto che in negativo. In quanto all'argomento della rivoluzione politica, certo, c'è una forte critica del concetto old fashioned della rivoluzione politica, in particolare dal punto di vista anarchico, ovvero un'insistenza sull'assoluta futilità di tale concetto, che si presenta quasi come un grosso peso che bisogna continuare a portare. L'idealismo spagnolo era una grande cosa negli anni Trenta, ma per noi oggi non è rilevante. Non c'è mai stata una rivoluzione e in un certo senso non ci sarà mai.

Ma forse noi non vogliamo davvero una rivoluzione nel senso classico, una rivoluzione come quella francese, con il suo Terrore e tutti i suoi mali. Noi vogliamo qualcosa d'altro.

Io sono disposto a usare il termine "rivoluzione" ora, dopo l'Ottantanove, ma quando lo faccio non impiego connotazioni ideologiche o strategiche. Ora per me la rivoluzione è qualcosa che deve emergere organicamente dalla situazione, e non dalla mente di qualche ideologo o da qualche specifica tradizione, per quanto meravigliosa essa possa essere. Le tradizioni sono cose utili come basi, ma non come pesi da trasportare.

Pensi che nel mondo underground americano, fatto di riviste, zines, eccetera, l'anarchismo sia ancora vivo e abbia qualcosa da dire?

Le zines sono state un fenomeno degli anni Ottanta. Più o meno dal 1983 circa al 1989 circa. Certo, ci sono ancora centinaia di zines in giro, ma stanno continuando a ripetere la stessa roba. Nulla di interessante, ormai. Ciò che è stato interessante a un certo punto è che sono migrate su Internet e per qualche anno, diciamo dal 1991 sin circa al 1994, Internet è stato un luogo in cui era possibile trovare lo stesso tipo di creatività e di eccitazione delle precedenti zines. Ora Internet sta per esser chiusa dal capitale e sta diventando impossibile considerarlo un medium adatto per lavorare. Io penso che in questo momento ci troviamo di fronte a una crisi mediale nell'anarchismo. Non abbiamo media che siano adeguati a ciò che vogliamo fare. L'editoria autonoma è stata davvero molto eccitante e progressiva negli anni Ottanta; ma all'inizio dei Novanta lo è stata di meno. In questi ultimi tempi si parla di multimedia perché questo grazioso termine copre tutto ciò su cui si può mettere le mani. Può essere radio non commerciale, soft publishing, piccola editoria, i percorsi Internet ancora esistenti, ma il fatto è che l'estensione di questo selvaggio spettro di differenti tipi di media è in un certo senso un segno di crisi. Ed è una crisi che riflette la più generale crisi iniziata 1991 con il collasso della sinistra, che ha coinvolto anche i presupposti ideologici dell'anarchismo stesso. Non possiamo dissociarcene sostenendo di non aver mai fatto veramente parte di quella sinistra, perché in un certo senso storico lo siamo invece stati. Il mostro sovietico, imploso come un Ragnarok, un Gotterdammerung, si è portato dietro nella distruzione lo stesso anarchismo, perché quest'ultimo ha cominciato a definire sé stesso quasi esclusivamente in opposizione al comunismo sovietico, per lo meno a partire dal 1921. Quando la Goldman e Berkman lasciarono gli Stati Uniti trasferendosi in Russia, il comunismo è divenuto il maggior nemico dell'anarchismo.

Io penso che ancor oggi il maggior nemico dell'anarchismo sia qualcosa che noi abbiamo qui in Europa. Molti gruppi in Italia usano il termine "statalismo", che sta a significare l'azione che passa per lo stato, un atteggiamento per cui si è politicamente presenti attraverso lo stato.

Ma a partire dal 1991 lo stato stesso si sta spegnendo. L'idea dello stato-nazione...

Eppure è lo stato-nazione a essere in crisi, non lo stato.

Ma sta diventando solo un joke a fronte del capitale globale. E la crisi che sta affrontando l'anarchismo dovrà culminare in un confronto con il capitale globale. E a questo noi anarchici, parlando in generale, dal punto di vista intellettuale non ci siamo mai preparati. Per noi il capitalismo è sempre stato un agente dello stato, e lo stato restava il maggior nemico. Ora siamo in una situazione in cui il nostro maggior nemico sono le nostre illusioni, e la battaglia va combattuta contro una nuova forza globale mondiale, il capitalismo globale, o pancapitalismo, più fluido del capitale ...

In Italia usiamo il termine "mondializzazione".

Lo si può tradurre come "globalizzazione". Potrebbe esser questo il più interessante compito che l'anarchismo debba affrontare ora, non queste stupidaggini e questi arrovellamenti su chi sia il "vero" anarchico. Abbiamo una totale ritualizzazione su coloro da cui abbiamo tratto ispirazione. Non si possono seguire i classici punto per punto, virgola per virgola. Bakunin e Réclus erano rilevanti nella seconda metà dell'Ottocento. Non si può seguire punto per punto, virgola per virgola, Malatesta, o anche Emma Goldman, che erano rilevanti alla loro epoca. Sono sicuro che se potessero ricomparire oggi, nel nostro mondo, Emma direbbe "Lasciate perdere tutto quello che ho scritto". Era importante lo spirito, non le opere.

L'importanza di diventare leggendari

Personaggio originale nel panorama controculturale contemporaneo, Hakim Bey è diventato in breve tempo una sorta di "cattiva" coscienza degli attivisti della scena mondiale. Di formazione anarchico-libertaria, con i suoi decisi attacchi antitecnologici a favore di rapporti non-mediati, cioè non filtrati dai media, è paradossalmente il critico radicale più famoso su Internet e sulle riviste del settore.
Esperto conoscitore dei flussi informativi per i suoi studi sul situazionismo, ha saputo "cavalcare" l'onda del grosso boom del "cyberpunk" senza farsi travolgere dal successo. Infatti, continua a stampare i suoi libri con la formula del no copyright, rinunciando quindi a lauti guadagni, e a farsi vedere il meno possibile in situazioni "ufficilai" che puntualmente e con rigore diserta in nome della tattica della "non-visibilità".
Pubblicato in tutto il mondo, deve probabilmente la sua grande diffusione alla sua profonda conoscenza delle culture d'opposizione che ha saputo organizzare e inquadrare nel concetto di "TAZ", le zone temporaneamente autonome, termine oggi molto usato dagli attivisti più radicali fino ad arrivare agli organizzatori di rave e feste clandestine. La sua forza sta nell'evocazione simbolica di comportamenti e concetti cari alla cultura anarchica e controculturale, come la "festa", il "viaggio", la "sfida al potere", spesso con sfumature neo-romantiche e con una retorica letteraria di rara potenza, probabilmente dovuta alla sua frequentazione di personaggi quali Allen Ginsberg, Burroughs, Timothy Leary e al periodo di insegnamento presso il Naropa Institute.
Bey, che rilancia come strategia politica l'importanza di diventare "leggendari" attraverso i nostri comportamenti, al fine di stimolare l'immaginazione delle persone che ci circondano, può a buona ragione essere considerato l'erede della beat generation, con una consapevolezza maggiore rispetto ai vecchi antieroi degli anni passati e sicuramente lanciato verso il nuovo millennio. Proprio nella sua grande autonomia intellettuale e nei suoi "mix" di passato e futuro, di tecnologico e anti-tecnologico risiede il suo fascino

Ermanno "Gomma" Guarnieri