Rivista Anarchica Online
La necessità di essere altrove
di Cristina Valenti
Il teatro non è fatto solo di spettacoli, ma di storie ed incontri anche inaspettati. E sta ad attori e spettatori
insieme
farsi carico, a livello progettuale ed organizzativo, della sperimentazione di forme alternative, sempre più
indispensabili
Proponiamo un'ampia lettura della Trilogia del balarino, in
quanto ci pare che lo spettacolo consenta un duplice
sguardo: sulla vicenda per molti versi esemplare del giovane artista, e sul contesto (teatrale, sociale e culturale)
che le fa da sfondo e la determina. L'esperienza dell'Impasto è in qualche modo
paradigmatica: una storia fatta di coincidenze, incontri e anche
incidenti; l'impossibilità di trovare spazi in cui lavorare e quindi la necessità di inventarsene di
alternativi: da
qui le vicende eclatanti delle occupazioni a Bologna, ma anche la quotidianità meno esaltante di un
nomadismo
obbligato, alla ricerca di luoghi possibili. E' il percorso che emerge dall'Autobiografia
Ufficiale del gruppo, di
cui pubblichiamo alcuni estratti. I materiali che pubblichiamo sono stati scritti originariamente
per un quaderno della collana "Documenti", edito
dal Teatro di Leo-Spazio della Memoria, che ringraziamo.
La trilogia non descrive la vicenda artistica del balarino dall'apprendistato alla vita nell'arte. Non è
un Wilhelm
Meister delle nuove generazioni, perché il balarino non è un personaggio, ma piuttosto una
modalità dello
sguardo. Guardare il mondo (del teatro, ma non solo) dal punto di vista di un balarino impastato di lingua padana,
significa sperimentare la modalità narrativa dell'apologo, o della parabola. A partire dai personaggi del
tutto
verisimili (seppure altrettanto demenziali e stralunati) di questa "operina" così connotata sul piano
generazionale,
si aprono squarci di interpretazione, si adombra una realtà che ci riguarda al di là dei confini
generazionali e
regionali: anche se non abbiamo vent'anni e i nostri genitori non hanno prima propiziato e poi maledetto il nostro
volo in un dialetto reggiano imbastardito di mantovano. Le diverse incarnazioni del giovane artista aprono
un doppio sguardo: sui contenuti intimi (ideali ed etici) di
vicende biografiche in qualche modo esemplari, e su quelli più generali del contesto (teatrale, sociale,
culturale).
Il doppio livello impone alla narrazione l'andamento allegorico che è proprio dell'apologo. Esplicitandone
le
allusioni, potremmo ridefinire i brani della trilogia associandoli ad altrettante argomentazioni:
Skankrèr ovvero
la nascita negata del nuovo; Home balòm o della coazione a sperimentare;
Pamphlet, ovvero la mercificazione
delle arti. Primo andamento (arioso cantante). Il balarino rotola giù dal
grembo materno per adagiarsi sulla terra, altra
figura delle origini, e da lì è incitato ad alzarsi ("levat su balarèn"). Una sorta di rito
iniziatico che si trasforma
ben presto in esorcismo, per scongiurare gli sviluppi che si addensano su quella nascita: non sarà che quel
figlio
si metta a modellare a proprio modo l'impasto di cui è forgiato (fatto di terra padana, cultura patriarcale,
tradizioni
contadine) fino a plasmare un'esistenza scancherata? "Mo xa fet, se skankrèt?" (ma cosa fai, cosa
scancheri?)
è - come si legge nelle note di regia - "la frase tipica che le madri rivolgono ai figli piccoli intenti in
un'attività
pericolosa, rumorosa o sporcante"; e con questo lavoro gli attori dell'Impasto affermano di essersi voluti
vendicare "di tutti i giochi d'infanzia interrotti". Ma "scancherare" significa anche bestemmiare, imprecare, e
attorno alla scelta maledetta del figlio balarino ruota il vortice di anatemi della madre che si chiede cosa abbiano
mai fatto, proprio loro, per meritare un figlio del genere. "Povero balarèn - recita in dialetto la sua litania
blasfema - cosa vuoi sapere tu della vita? Povero disgraziato, che ti colpisse un fulmine, che ti colpisse un
accidente. E' meglio che muori, è meglio che muori adesso". Una maledizione recitata come una
preghiera: e un
paradosso che corrisponde al messaggio contenuto nella parabola generazionale dello spettacolo. Sul piano
biografico: l'universo claustrofobico della famiglia che, dopo aver benedetto il volo del figlio, ne maledisce il
gesto di indipendenza disconoscendolo. Sul piano del contesto: la biologia malata di un mondo che, in troppi casi,
uccide i propri figli non permettendo loro di essere protagonisti del proprio tempo. Chissà se i ragazzi
dell'Impasto hanno voluto mandare messaggi in questo senso anche al mondo del teatro, dove pure i "giochi
d'infanzia" stentano ad essere tollerati? In un recente spettacolo che di apologhi è pieno,
All'inferno (di Ravenna Teatro-Kismet Teatro
OperA-TamTeatromusi-ca), il sinistro quartetto dei Cavalieri, che si propongono come spregiudicati
rappresentanti del nuovo, si presenta con una specie di "siparietto", o prologo, che risulta particolarmente
inquietante proprio in quanto apparentemente posticcio. "Guardate - dice uno - è nato un trifoglio!...
A forza di annaffiare, è nato!". "Ammazzalo!", scatta un altro: e tutti, come un sol uomo, a schiacciare
sotto i
piedi il nuovo nato. Capita che le nuove nascite siano tanto invocate e propiziate quanto temute. E questo avviene
anche all'interno del sistema teatrale, sia per ragioni strutturali (legate alla conquista e conseguente difesa del
territorio da parte delle varie generazioni di artisti), sia per motivi più intimi, che albergano in qualche
modo nella
biologia degli individui. Parlando a un uditorio di giovani, in un convegno dedicato al nuovo teatro, un
organizzatore che negli anni settanta ha saputo individuare, sostenere e "sobillare" esperienze teatrali innovatrici
(ed ora giustamente annoverate nella "tradizione del nuovo"), diceva: attenzione a non aspettarvi di essere
riconosciuti da coloro (critici, studiosi, organizzatori) che hanno già riconosciuto e fiancheggiato altri
gruppi
prima di voi. Per loro, i rappresentanti del nuovo sono e resteranno quelli per i quali hanno sostenuto e continuano
a sostenere le proprie battaglie. Occorre - continuava - che ogni nuova generazione teatrale si conquisti i propri
referenti. Questo è uno dei paradossi del teatro: ad ogni fase fortemente innovativa fa seguito il
disconoscimento
delle nuove emergenze, le quali non vengono necessariamente ostacolate o boicottate, ma più
semplicemente non
sono viste. Quando poi il sistema teatrale vive una fase di chiusura come quella attuale, attraversata da logiche
di razionalizzazione "aziendalistica" degli investimenti, allora le condizioni strutturali si uniscono ai tratti
biologici della scansione generazionale con esiti particolarmente gravi per i più giovani. Anche di questo
parla
Skankrèr: di giovani artisti che si affacciano a un mondo teatrale dove "il nuovo c'è
già": è già riconosciuto dal
legislatore che regolamenta l'erogazione dei finanziamenti e anche dai meccanismi di adesione elettiva degli
spettatori (specialisti e non). Sull'atteggiamento distante e attonito del balarino scende bruscamente il buio
dello spettacolo, che sembra
concedere ben poco spazio alla speranza. Ma alla scarsa fiducia di potersi inserire, come hanno fatto le
generazioni precedenti, nelle pieghe del sistema teatrale riconosciuto, corrisponde la lucida e svagata
consapevolezza della necessità di essere altrove, per sperimentare qualcosa di radicalmente alternativo
al teatro
istituzionale. Di questo tratta la parabola successiva, Home balòm, Balliamo a
casa. Secondo andamento (recitativo tranquillo). Il piano del racconto è
ancora divaricato fra desiderio e realtà. Un
desiderio di teatro significativamente condiviso da attori e spettatori e una realtà squallidamente,
ridicolmente
inadeguata. Squallore e ridicolo non sono in alcun modo evitati o dissimulati: al contrario, sembrano essere accolti
come valori, in quanto costitutivi della sfasatura originale (e "tesoro" dell'esperienza). Il contrasto fra i due piani
è perciò maggiormente giocato sul registro della comicità, rispetto al primo brano della
trilogia. Il sogno di teatro consumato fra le pareti domestiche da una casalinga sembra realizzarsi grazie ad
una
provvidenziale vincita al "gratta e vinci": non così ricca da permettere alla donna l'acquisto di un teatro,
ma
sufficiente a consentirle di trasformare in teatro il proprio tinello, invitando dei ballerini a danzare per lei e per
poche decine di invitati. La signora è affascinata dal mondo del balletto classico e dalle sue storie, ma si
ritrova
ad ospitare due danzatori contemporanei dalle biografie artistiche piuttosto ruspanti. Marco ha inseguito seminari
e fidanzamenti da un capo all'altro di una geografia teatrale tutta padana, sostenuto da un sogno maturato sui libri
e infarcito di visioni personali, fra danza e agit prop, collettivi studenteschi e spazi autogestiti. Anna è
stata anche
a Parigi, dove ha studiato con un coreografo famoso, ma al ritorno non ha certo trovato condizioni di lavoro
più
favorevoli. Finiti i rispettivi racconti, i ballerini eseguono i loro pezzi di danza. Ma la signora, nel frattempo, si
è addormentata sulla sua poltrona e non li vede. Cosa vuole dirci, allora, l'apologo? Forse ci insegna
che quello di un teatro indipendente, autogestito ed
organizzato da chi lo ama realmente e ne sente una necessità persino insensata, non può essere
che un sogno?
Oppure ci dice che è una visione di cui inventarsi la praticabilità, spingendosi su un terreno di
sperimentazione
reale. Il piano di verisimiglianza del racconto è l'altra faccia della sua comicità demenziale. Le
storie dei due
danzatori, assolutamente lontane dai modelli di un regolare apprendistato nell'arte, sono però esemplari
di decine
di storie generazionali analoghe. E la metafora del teatro nel tinello adombra forse una realtà più
complessa e
qualche indicazione strategica. Insegna che il teatro non è fatto solo di spettacoli, ma di storie ed incontri
anche
inaspettati; che da questi incontri possono nascere soluzioni alternative al sistema vigente; che in assenza di una
casa ufficiale il teatro può entrare in "case" private e trasformarle in luoghi pubblici non istituzionali; che
la
sperimentazione di forme alternative avrà maggiore possibilità di successo se condivisa e presa
in carico, a livello
progettuale e organizzativo, da attori e spettatori insieme. In sintesi, l'apologo ci dice che per la nuova
generazione teatrale è necessario e vitale acquisire una mentalità di sperimentazione a tutto
campo, non solo sul
piano artistico, ma anche su quello materiale, delle forme di organizzazione e delle strategie di sopravvivenza;
perché l'esperienza della generazione teatrale precedente non è esattamente riproducibile nel
contesto attuale, ed
i territori già conquistati sono difficilmente dilatabili. Terzo andamento
(recitativo sostenuto). Pamphlet descrive in forma di libello i rischi di un teatro che non
commisuri con rigore le intenzioni agli strumenti, i progetti alla pratica. Seduta davanti a un microfono, in
una situazione che fa pensare a un set televisivo, una coreografa racconta la
sua esperienza in Bosnia, dove ha realizzato un progetto col sostegno dell'Unione Europea. Parla di contratti
miliardari e di una fitta serie di repliche strapagate. Sulle note di Webern e Rimskij-Korsakov, che risultano kitch
e trionfalistiche per contrasto, si sviluppano la partitura testuale della coreografa e quella fisica della danzatrice,
chiamata in causa e quindi violentemente bistrattata. Lo spettacolo esprime una forte disillusione verso la
possibilità di un'azione onestamente umanitaria del teatro, nel momento in cui questo si mette al servizio
di
logiche politiche ed egemoniche che lo trascendono. Ma la polemica rinuncia ai toni della denuncia gridata per
esprimersi piuttosto attraverso un sarcasmo sottile e irridente. I ragazzi dell'Impasto, che hanno lavorato in
passato con due attori bosniaci, dicono di avere appreso da loro questo sguardo che definiscono "postumo": non
irrigidito nella rabbia, ma capace di fotografare il ridicolo contenuto, come in questo caso, in certe manifestazioni
di smaccato colonialismo culturale. Così l'esibizione di filantropismo peloso della coreografa,
anziché bruciare
come un'offesa ancora aperta, può far già ridere, quasi fosse una storia vecchia, che continua a
riprodursi in
maschere televisive ormai attraversate da crepe grottesche. Lo sguardo del balarino padano è arrivato
in Bosnia e qui ha perso l'innocenza, i suoi piedi danzano fra le rovine,
ma il suo sogno di un teatro diverso, non asservito alle logiche del mercato né corrotto dalle lusinghe della
società
dello spettacolo, continua a volare alto. Nelle sue diverse incarnazioni, la scrittura fisica del balarino, impastata
di parole, danze, musiche e canti, ha descritto una necessità autentica e comune alle giovani generazioni:
di dar
corpo al proprio desiderio. Il corpo, la fisicità appartiene fino in fondo al teatro dell'Impasto. E un (triplo)
apologo
raccontato col corpo perde di supponenza, è costantemente riportato coi piedi per terra, e dalla terra
padana trae
umori sapidi e irriverenti.
L'Impasto Autobiografia ufficiale N° 1. Estratti. 1990 -
1997 Parte prima: Genova Michela e io ci siamo conosciuti nel
1990, alla scuola del Teatro Stabile di Genova, dentro un palazzo seicentesco
con scalone in marmo, fontana e stucchi bianchi nelle stanze. Era la sede della scuola: via del Campo n. 6 (ebbene
sì!), nei vicoli del porto. Io avevo già fatto teatro dialettale e Reggio Emilia, Michela quasi solo
danza, tra l'altro
a Parigi con Beatrice Libonati. Eravamo in qualche modo agli antipodi della nostra classe di allievi. La cosa
più
eclatante del primo anno di corso fu la mia partecipazione in un ruolo insignificante al saggio di fine anno: La
Fantesca di G.B. Della Porta. Io entravo a un certo punto con un enorme clistere di rame da propinare a un
malcapitato che cominciava a correre. [...] Parte seconda: Montalcino A
Montalcino eravamo andati per Carlo Cecchi. Come insegnante in quella borsa di studio per cui eravamo stati
accettati doveva esserci lui. Alla fine non ci fu. [...] Parte terza:
1993-1994 Nella tarda primavera del '93 cominciai il servizio civile a Reggiolo, un paesino tra
Mantova e Reggio. [...]
Michela incomincia a collaborare con il Centro Studi Danza Chorea di Bologna, dove si trasferisce.
[...] Parte quarta: 1994, "Regna un grande silenzio" [...] A marzo Michela viene
a sapere di un provino con un fantomatico regista bosniaco per uno spettacolo estivo.
Prendo una licenza breve e andiamo. [...] A Longiano, in quel giugno 94, misi in pratica per la prima volta in
maniera originale le tecniche del mestiere apprese a Genova. Lo devo a Nedzad Maksumic con cui ci scolavamo
litri di trebbiano durante le rituali cene post-prova ascoltando Radio Sarajevo. Anche per Michela quel lavoro fu
importantissimo; Nezdat le chiese di coreografare lunghe parti di spettacolo, ma il lavoro di scrittura fisica era
da farsi su corpi di attori. Parte quinta: L'Impasto Il nome lo scelsi io. Mea
culpa. Ma piacque anche a Michela. [...] Agli scettici chiesi qualche anno di tempo
perché il nome del gruppo cominciasse a diventare popolare. [...] Cominciammo a provare il primo
spettacolo
della compagnia: Occidentìte. [...] A ottobre ci trasferimmo a Bologna. All'inizia del mese
Occidentìte andò in
scena alla "Salara". Un quarto d'ora prima della prima replica, Michela si ruppe il piede sinistro cadendo da un
gradino cosparso di sale, parte della scenografia [...]. Parte sesta: 1996, Trilogia del
balarino [...] Conoscemmo Nina (Anna de Manincor) nella bolgia dell'Accademia
occupata. [Il Teatro dell'Accademia
di Belle Arti di Bologna, da sempre inattivo, è stato occupato nel novembre '95 da un coordinamento di
giovani
gruppi teatrali, fra i quali l'Impasto, che vi hanno realizzato, in particolare, una simbolica tre giorni di spettacoli
e feste. (N.d.R.)]. Fu soprattutto Michela a venire in contatto con lei per via della danza (Nina faceva
danza-contact). Anche Stefano (Questorio) lo conoscemmo all'Accademia, e anche Cristina Spadoni (la
ricordo col solito zaino,
anche alle due di notte). Otto (Marco Mercante) presentava le due serate vestito da donna, orrendamente peloso
e senza parrucca, con gli anfibi, tra gli apprezzamenti sboccati del pubblico a cui rispondeva con flemma
lombarda. Nei mesi successivi lavorarono diretti da Michela, in un laboratorio di teatro-danza sotto la curva degli
Ultras del Bologna, allo Stadio. [...] Il primo di loro a lavorare con noi fu Stefano. Preparammo una scena
di tre minuti per l'evento di Scandellara.
[La scuola abbandonata di via Scandellara fu occupata dai "Teatranti Occupanti" all'inizio del '96, per un breve
periodo, prima dello sgombero imposto (N.d.R.)]. Si svolgeva in un bagno, tra candele e piastrelle bianche,
cinque spettatori per volta. Era la scena finale di Skankrèr: la skankerata e la morte. Quando
si verificò la
possibilità della due-giorni al Teatro di Leo, scrissi Skankrèr partendo dalla fine.
[Il 14 e 15 aprile 1996,
nell'ambito dell'Assemblea Permanente organizzata dal Teatro San Leonardo di Bologna, fu affidata al "Progetto
Teatranti Occupanti" l'autogestione di due giorni di spettacoli. (N.d.R.)]. Lo provammo (ormai tutti lo sanno) in
cinque giorni tra il Chorea, lo Specchio di Dioniso, il Teatro Ridotto, camera nostra ecc. Non fu semplice.
[...] Debuttò all'una di notte del 15/4/96, al Teatro di Leo. In maggio, sotto la spinta benevolmente
coercitiva di Otto,
Nina e Cristina, io e Michela ci trovammo a dirigerli in Home Balòm, in una settimana di
prove allo Spazio
A/lato, scrittura parlata e fisica in progress, alla tanztheater romagnolo, come un po' lo spettacolo, in
fondo... Fu in settembre che, forzàti dal mercato che voleva un'inesistente Trilogia di cui si era parlato
a Santarcangelo
(per la verità solo Otto ne aveva parlato) scrissi L'isola. Ebbe prove lunghissime, essendoci
tutti e sei in scena.
Lunghe e laboriose. Debuttò a Rimini, malino. A Livorno ci pensò il tecnico (Maio, mio fratello)
ad affossarlo
del tutto. Fu un bene. Se fosse andata benino l'avremmo rammendata chissà per quanto. Così
invece, io e Michela
decidemmo che non si sarebbe più fatta. L'isola fu soprattutto un mio errore di valutazione,
una sopravvalutazione
delle qualità mie e del resto del gruppo . [...] Parte settima: 1997 Si
trattava ora di scrivere una nuova "terza parte". L'idea me la suggerì Michela, una sera, nella nostra cucina
"polacca", luce al neon e frigo Zoppas. Si trattava di riprendere un personaggio di un mio copione, ancora da
mettere in scena, dal titolo Mundo Nero. Là c'era un carattere femminile molto forte,
crudele, cinico, che parlava
al microfono lascivamente. Con qualche ritocco nasceva un personaggio nuovo, una coreografa, destinato poi a
distanziarsi molto dal suo modello. Ecco Pamphlet.
Alessandro Berti
L'involucro tragico teorie
disordinate di una non-teorica (frammenti) Il danzatore è un involucro tragico, è
la forma eccessiva (ma non la polpa) della mia immagine della realtà. [...] Quando penso a tutta la
danza che ho studiato e che ho visto fare dai maestri e la confronto con quella che
faccio mi sento una traditrice: mi hanno insegnato ad andare in profondità e l'ho fatto, studiando il mio
movimento, ma ho trovato la mia "profondità" in una danza schiacciata, che stranamente trova il suo
senso
riaffiorando in superficie. Una danza bidimensionale, fatta di figurine esili, ritagliate dalla carta dei giornali...una
rivoluzione di manichini sghembi. [...] Danza che non lascia illusioni, che deforma i corpi, risposta nervosa
a una insofferenza esistenziale, danza
di figure che hanno perso il loro privilegio e non trovano più un loro posto, si accontentano, si adattano,
subiscono
senza rivoltarsi, non hanno da proporre che un ideale estetico senza polpa, non possono che perdere la battaglia
con il mondo che è vivo, fatto da persone che agiscono...
Michela Lucenti
Trilogia del balarino opera per parole danza
e canti di Alessandro Berti e Michela Lucenti
Parte prima
Skankrèr o la famiglia dell'artista
personaggi e interpreti: balarino maledèt: Stefano Questorio; bagassa religiosa: Michela Lucenti;
kankarèr: Alessandro Berti
testo e regia: Alessandro Berti
scrittura fisica: Michela Lucenti
Parte seconda
Home balòm - l'artista in tournée
corpi e storie: Anna de Manincor e Marco Mercante; mecenata: Cristina Spadoni
scritture e regia: Alessandro Berti
scrittura fisica: Michela Lucenti
Parte terza
Pamphlet
personaggi e interpreti: la coreografa: Michela Lucenti; Jojo, la ballerina: Anna de Manincor
testo e regia: Alessandro Berti
scrittura fisica e scelta delle musiche: Michela Lucenti
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