Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 27 nr. 235
aprile 1997


Rivista Anarchica Online

La necessità di essere altrove
di Cristina Valenti

Il teatro non è fatto solo di spettacoli, ma di storie ed incontri anche inaspettati. E sta ad attori e spettatori insieme farsi carico, a livello progettuale ed organizzativo, della sperimentazione di forme alternative, sempre più indispensabili

Proponiamo un'ampia lettura della Trilogia del balarino, in quanto ci pare che lo spettacolo consenta un duplice sguardo: sulla vicenda per molti versi esemplare del giovane artista, e sul contesto (teatrale, sociale e culturale) che le fa da sfondo e la determina.
L'esperienza dell'Impasto è in qualche modo paradigmatica: una storia fatta di coincidenze, incontri e anche incidenti; l'impossibilità di trovare spazi in cui lavorare e quindi la necessità di inventarsene di alternativi: da qui le vicende eclatanti delle occupazioni a Bologna, ma anche la quotidianità meno esaltante di un nomadismo obbligato, alla ricerca di luoghi possibili. E' il percorso che emerge dall'Autobiografia Ufficiale del gruppo, di cui pubblichiamo alcuni estratti.
I materiali che pubblichiamo sono stati scritti originariamente per un quaderno della collana "Documenti", edito dal Teatro di Leo-Spazio della Memoria, che ringraziamo.

La trilogia non descrive la vicenda artistica del balarino dall'apprendistato alla vita nell'arte. Non è un Wilhelm Meister delle nuove generazioni, perché il balarino non è un personaggio, ma piuttosto una modalità dello sguardo. Guardare il mondo (del teatro, ma non solo) dal punto di vista di un balarino impastato di lingua padana, significa sperimentare la modalità narrativa dell'apologo, o della parabola. A partire dai personaggi del tutto verisimili (seppure altrettanto demenziali e stralunati) di questa "operina" così connotata sul piano generazionale, si aprono squarci di interpretazione, si adombra una realtà che ci riguarda al di là dei confini generazionali e regionali: anche se non abbiamo vent'anni e i nostri genitori non hanno prima propiziato e poi maledetto il nostro volo in un dialetto reggiano imbastardito di mantovano.
Le diverse incarnazioni del giovane artista aprono un doppio sguardo: sui contenuti intimi (ideali ed etici) di vicende biografiche in qualche modo esemplari, e su quelli più generali del contesto (teatrale, sociale, culturale). Il doppio livello impone alla narrazione l'andamento allegorico che è proprio dell'apologo. Esplicitandone le allusioni, potremmo ridefinire i brani della trilogia associandoli ad altrettante argomentazioni: Skankrèr ovvero la nascita negata del nuovo; Home balòm o della coazione a sperimentare; Pamphlet, ovvero la mercificazione delle arti.
Primo andamento (arioso cantante). Il balarino rotola giù dal grembo materno per adagiarsi sulla terra, altra figura delle origini, e da lì è incitato ad alzarsi ("levat su balarèn"). Una sorta di rito iniziatico che si trasforma ben presto in esorcismo, per scongiurare gli sviluppi che si addensano su quella nascita: non sarà che quel figlio si metta a modellare a proprio modo l'impasto di cui è forgiato (fatto di terra padana, cultura patriarcale, tradizioni contadine) fino a plasmare un'esistenza scancherata? "Mo xa fet, se skankrèt?" (ma cosa fai, cosa scancheri?) è - come si legge nelle note di regia - "la frase tipica che le madri rivolgono ai figli piccoli intenti in un'attività pericolosa, rumorosa o sporcante"; e con questo lavoro gli attori dell'Impasto affermano di essersi voluti vendicare "di tutti i giochi d'infanzia interrotti". Ma "scancherare" significa anche bestemmiare, imprecare, e attorno alla scelta maledetta del figlio balarino ruota il vortice di anatemi della madre che si chiede cosa abbiano mai fatto, proprio loro, per meritare un figlio del genere. "Povero balarèn - recita in dialetto la sua litania blasfema - cosa vuoi sapere tu della vita? Povero disgraziato, che ti colpisse un fulmine, che ti colpisse un accidente. E' meglio che muori, è meglio che muori adesso". Una maledizione recitata come una preghiera: e un paradosso che corrisponde al messaggio contenuto nella parabola generazionale dello spettacolo. Sul piano biografico: l'universo claustrofobico della famiglia che, dopo aver benedetto il volo del figlio, ne maledisce il gesto di indipendenza disconoscendolo. Sul piano del contesto: la biologia malata di un mondo che, in troppi casi, uccide i propri figli non permettendo loro di essere protagonisti del proprio tempo. Chissà se i ragazzi dell'Impasto hanno voluto mandare messaggi in questo senso anche al mondo del teatro, dove pure i "giochi d'infanzia" stentano ad essere tollerati?
In un recente spettacolo che di apologhi è pieno, All'inferno (di Ravenna Teatro-Kismet Teatro OperA-TamTeatromusi-ca), il sinistro quartetto dei Cavalieri, che si propongono come spregiudicati rappresentanti del nuovo, si presenta con una specie di "siparietto", o prologo, che risulta particolarmente inquietante proprio in quanto apparentemente posticcio. "Guardate - dice uno - è nato un trifoglio!...

A forza di annaffiare, è nato!". "Ammazzalo!", scatta un altro: e tutti, come un sol uomo, a schiacciare sotto i piedi il nuovo nato. Capita che le nuove nascite siano tanto invocate e propiziate quanto temute. E questo avviene anche all'interno del sistema teatrale, sia per ragioni strutturali (legate alla conquista e conseguente difesa del territorio da parte delle varie generazioni di artisti), sia per motivi più intimi, che albergano in qualche modo nella biologia degli individui. Parlando a un uditorio di giovani, in un convegno dedicato al nuovo teatro, un organizzatore che negli anni settanta ha saputo individuare, sostenere e "sobillare" esperienze teatrali innovatrici (ed ora giustamente annoverate nella "tradizione del nuovo"), diceva: attenzione a non aspettarvi di essere riconosciuti da coloro (critici, studiosi, organizzatori) che hanno già riconosciuto e fiancheggiato altri gruppi prima di voi. Per loro, i rappresentanti del nuovo sono e resteranno quelli per i quali hanno sostenuto e continuano a sostenere le proprie battaglie. Occorre - continuava - che ogni nuova generazione teatrale si conquisti i propri referenti. Questo è uno dei paradossi del teatro: ad ogni fase fortemente innovativa fa seguito il disconoscimento delle nuove emergenze, le quali non vengono necessariamente ostacolate o boicottate, ma più semplicemente non sono viste. Quando poi il sistema teatrale vive una fase di chiusura come quella attuale, attraversata da logiche di razionalizzazione "aziendalistica" degli investimenti, allora le condizioni strutturali si uniscono ai tratti biologici della scansione generazionale con esiti particolarmente gravi per i più giovani. Anche di questo parla Skankrèr: di giovani artisti che si affacciano a un mondo teatrale dove "il nuovo c'è già": è già riconosciuto dal legislatore che regolamenta l'erogazione dei finanziamenti e anche dai meccanismi di adesione elettiva degli spettatori (specialisti e non).
Sull'atteggiamento distante e attonito del balarino scende bruscamente il buio dello spettacolo, che sembra concedere ben poco spazio alla speranza. Ma alla scarsa fiducia di potersi inserire, come hanno fatto le generazioni precedenti, nelle pieghe del sistema teatrale riconosciuto, corrisponde la lucida e svagata consapevolezza della necessità di essere altrove, per sperimentare qualcosa di radicalmente alternativo al teatro istituzionale. Di questo tratta la parabola successiva, Home balòm, Balliamo a casa.
Secondo andamento (recitativo tranquillo). Il piano del racconto è ancora divaricato fra desiderio e realtà. Un desiderio di teatro significativamente condiviso da attori e spettatori e una realtà squallidamente, ridicolmente inadeguata. Squallore e ridicolo non sono in alcun modo evitati o dissimulati: al contrario, sembrano essere accolti come valori, in quanto costitutivi della sfasatura originale (e "tesoro" dell'esperienza). Il contrasto fra i due piani è perciò maggiormente giocato sul registro della comicità, rispetto al primo brano della trilogia.
Il sogno di teatro consumato fra le pareti domestiche da una casalinga sembra realizzarsi grazie ad una provvidenziale vincita al "gratta e vinci": non così ricca da permettere alla donna l'acquisto di un teatro, ma sufficiente a consentirle di trasformare in teatro il proprio tinello, invitando dei ballerini a danzare per lei e per poche decine di invitati. La signora è affascinata dal mondo del balletto classico e dalle sue storie, ma si ritrova ad ospitare due danzatori contemporanei dalle biografie artistiche piuttosto ruspanti. Marco ha inseguito seminari e fidanzamenti da un capo all'altro di una geografia teatrale tutta padana, sostenuto da un sogno maturato sui libri e infarcito di visioni personali, fra danza e agit prop, collettivi studenteschi e spazi autogestiti. Anna è stata anche a Parigi, dove ha studiato con un coreografo famoso, ma al ritorno non ha certo trovato condizioni di lavoro più favorevoli. Finiti i rispettivi racconti, i ballerini eseguono i loro pezzi di danza. Ma la signora, nel frattempo, si è addormentata sulla sua poltrona e non li vede.
Cosa vuole dirci, allora, l'apologo? Forse ci insegna che quello di un teatro indipendente, autogestito ed organizzato da chi lo ama realmente e ne sente una necessità persino insensata, non può essere che un sogno? Oppure ci dice che è una visione di cui inventarsi la praticabilità, spingendosi su un terreno di sperimentazione reale. Il piano di verisimiglianza del racconto è l'altra faccia della sua comicità demenziale. Le storie dei due danzatori, assolutamente lontane dai modelli di un regolare apprendistato nell'arte, sono però esemplari di decine di storie generazionali analoghe. E la metafora del teatro nel tinello adombra forse una realtà più complessa e qualche indicazione strategica. Insegna che il teatro non è fatto solo di spettacoli, ma di storie ed incontri anche inaspettati; che da questi incontri possono nascere soluzioni alternative al sistema vigente; che in assenza di una casa ufficiale il teatro può entrare in "case" private e trasformarle in luoghi pubblici non istituzionali; che la sperimentazione di forme alternative avrà maggiore possibilità di successo se condivisa e presa in carico, a livello progettuale e organizzativo, da attori e spettatori insieme. In sintesi, l'apologo ci dice che per la nuova generazione teatrale è necessario e vitale acquisire una mentalità di sperimentazione a tutto campo, non solo sul piano artistico, ma anche su quello materiale, delle forme di organizzazione e delle strategie di sopravvivenza; perché l'esperienza della generazione teatrale precedente non è esattamente riproducibile nel contesto attuale, ed i territori già conquistati sono difficilmente dilatabili.
Terzo andamento (recitativo sostenuto). Pamphlet descrive in forma di libello i rischi di un teatro che non commisuri con rigore le intenzioni agli strumenti, i progetti alla pratica.
Seduta davanti a un microfono, in una situazione che fa pensare a un set televisivo, una coreografa racconta la sua esperienza in Bosnia, dove ha realizzato un progetto col sostegno dell'Unione Europea. Parla di contratti miliardari e di una fitta serie di repliche strapagate. Sulle note di Webern e Rimskij-Korsakov, che risultano kitch e trionfalistiche per contrasto, si sviluppano la partitura testuale della coreografa e quella fisica della danzatrice, chiamata in causa e quindi violentemente bistrattata. Lo spettacolo esprime una forte disillusione verso la possibilità di un'azione onestamente umanitaria del teatro, nel momento in cui questo si mette al servizio di logiche politiche ed egemoniche che lo trascendono. Ma la polemica rinuncia ai toni della denuncia gridata per esprimersi piuttosto attraverso un sarcasmo sottile e irridente. I ragazzi dell'Impasto, che hanno lavorato in passato con due attori bosniaci, dicono di avere appreso da loro questo sguardo che definiscono "postumo": non irrigidito nella rabbia, ma capace di fotografare il ridicolo contenuto, come in questo caso, in certe manifestazioni di smaccato colonialismo culturale. Così l'esibizione di filantropismo peloso della coreografa, anziché bruciare come un'offesa ancora aperta, può far già ridere, quasi fosse una storia vecchia, che continua a riprodursi in maschere televisive ormai attraversate da crepe grottesche.
Lo sguardo del balarino padano è arrivato in Bosnia e qui ha perso l'innocenza, i suoi piedi danzano fra le rovine, ma il suo sogno di un teatro diverso, non asservito alle logiche del mercato né corrotto dalle lusinghe della società dello spettacolo, continua a volare alto. Nelle sue diverse incarnazioni, la scrittura fisica del balarino, impastata di parole, danze, musiche e canti, ha descritto una necessità autentica e comune alle giovani generazioni: di dar corpo al proprio desiderio. Il corpo, la fisicità appartiene fino in fondo al teatro dell'Impasto. E un (triplo) apologo raccontato col corpo perde di supponenza, è costantemente riportato coi piedi per terra, e dalla terra padana trae umori sapidi e irriverenti.

L'Impasto
Autobiografia ufficiale N° 1. Estratti. 1990 - 1997
Parte prima: Genova
Michela e io ci siamo conosciuti nel 1990, alla scuola del Teatro Stabile di Genova, dentro un palazzo seicentesco con scalone in marmo, fontana e stucchi bianchi nelle stanze. Era la sede della scuola: via del Campo n. 6 (ebbene sì!), nei vicoli del porto. Io avevo già fatto teatro dialettale e Reggio Emilia, Michela quasi solo danza, tra l'altro a Parigi con Beatrice Libonati. Eravamo in qualche modo agli antipodi della nostra classe di allievi. La cosa più eclatante del primo anno di corso fu la mia partecipazione in un ruolo insignificante al saggio di fine anno: La Fantesca di G.B. Della Porta. Io entravo a un certo punto con un enorme clistere di rame da propinare a un malcapitato che cominciava a correre. [...]
Parte seconda: Montalcino
A Montalcino eravamo andati per Carlo Cecchi. Come insegnante in quella borsa di studio per cui eravamo stati accettati doveva esserci lui. Alla fine non ci fu. [...]
Parte terza: 1993-1994
Nella tarda primavera del '93 cominciai il servizio civile a Reggiolo, un paesino tra Mantova e Reggio. [...] Michela incomincia a collaborare con il Centro Studi Danza Chorea di Bologna, dove si trasferisce. [...]
Parte quarta: 1994, "Regna un grande silenzio"
[...] A marzo Michela viene a sapere di un provino con un fantomatico regista bosniaco per uno spettacolo estivo. Prendo una licenza breve e andiamo. [...] A Longiano, in quel giugno 94, misi in pratica per la prima volta in maniera originale le tecniche del mestiere apprese a Genova. Lo devo a Nedzad Maksumic con cui ci scolavamo litri di trebbiano durante le rituali cene post-prova ascoltando Radio Sarajevo. Anche per Michela quel lavoro fu importantissimo; Nezdat le chiese di coreografare lunghe parti di spettacolo, ma il lavoro di scrittura fisica era da farsi su corpi di attori.
Parte quinta: L'Impasto
Il nome lo scelsi io. Mea culpa. Ma piacque anche a Michela. [...] Agli scettici chiesi qualche anno di tempo perché il nome del gruppo cominciasse a diventare popolare. [...] Cominciammo a provare il primo spettacolo della compagnia: Occidentìte. [...] A ottobre ci trasferimmo a Bologna. All'inizia del mese Occidentìte andò in scena alla "Salara". Un quarto d'ora prima della prima replica, Michela si ruppe il piede sinistro cadendo da un gradino cosparso di sale, parte della scenografia [...].
Parte sesta: 1996, Trilogia del balarino
[...] Conoscemmo Nina (Anna de Manincor) nella bolgia dell'Accademia occupata. [Il Teatro dell'Accademia di Belle Arti di Bologna, da sempre inattivo, è stato occupato nel novembre '95 da un coordinamento di giovani gruppi teatrali, fra i quali l'Impasto, che vi hanno realizzato, in particolare, una simbolica tre giorni di spettacoli e feste. (N.d.R.)]. Fu soprattutto Michela a venire in contatto con lei per via della danza (Nina faceva danza-contact).
Anche Stefano (Questorio) lo conoscemmo all'Accademia, e anche Cristina Spadoni (la ricordo col solito zaino, anche alle due di notte). Otto (Marco Mercante) presentava le due serate vestito da donna, orrendamente peloso e senza parrucca, con gli anfibi, tra gli apprezzamenti sboccati del pubblico a cui rispondeva con flemma lombarda. Nei mesi successivi lavorarono diretti da Michela, in un laboratorio di teatro-danza sotto la curva degli Ultras del Bologna, allo Stadio. [...]
Il primo di loro a lavorare con noi fu Stefano. Preparammo una scena di tre minuti per l'evento di Scandellara. [La scuola abbandonata di via Scandellara fu occupata dai "Teatranti Occupanti" all'inizio del '96, per un breve periodo, prima dello sgombero imposto (N.d.R.)]. Si svolgeva in un bagno, tra candele e piastrelle bianche, cinque spettatori per volta. Era la scena finale di Skankrèr: la skankerata e la morte. Quando si verificò la possibilità della due-giorni al Teatro di Leo, scrissi Skankrèr partendo dalla fine. [Il 14 e 15 aprile 1996, nell'ambito dell'Assemblea Permanente organizzata dal Teatro San Leonardo di Bologna, fu affidata al "Progetto Teatranti Occupanti" l'autogestione di due giorni di spettacoli. (N.d.R.)]. Lo provammo (ormai tutti lo sanno) in cinque giorni tra il Chorea, lo Specchio di Dioniso, il Teatro Ridotto, camera nostra ecc. Non fu semplice. [...]
Debuttò all'una di notte del 15/4/96, al Teatro di Leo. In maggio, sotto la spinta benevolmente coercitiva di Otto, Nina e Cristina, io e Michela ci trovammo a dirigerli in Home Balòm, in una settimana di prove allo Spazio A/lato, scrittura parlata e fisica in progress, alla tanztheater romagnolo, come un po' lo spettacolo, in fondo...
Fu in settembre che, forzàti dal mercato che voleva un'inesistente Trilogia di cui si era parlato a Santarcangelo (per la verità solo Otto ne aveva parlato) scrissi L'isola. Ebbe prove lunghissime, essendoci tutti e sei in scena. Lunghe e laboriose. Debuttò a Rimini, malino. A Livorno ci pensò il tecnico (Maio, mio fratello) ad affossarlo del tutto. Fu un bene. Se fosse andata benino l'avremmo rammendata chissà per quanto. Così invece, io e Michela decidemmo che non si sarebbe più fatta. L'isola fu soprattutto un mio errore di valutazione, una sopravvalutazione delle qualità mie e del resto del gruppo . [...]
Parte settima: 1997
Si trattava ora di scrivere una nuova "terza parte". L'idea me la suggerì Michela, una sera, nella nostra cucina "polacca", luce al neon e frigo Zoppas. Si trattava di riprendere un personaggio di un mio copione, ancora da mettere in scena, dal titolo Mundo Nero. Là c'era un carattere femminile molto forte, crudele, cinico, che parlava al microfono lascivamente. Con qualche ritocco nasceva un personaggio nuovo, una coreografa, destinato poi a distanziarsi molto dal suo modello. Ecco Pamphlet.

Alessandro Berti

L'involucro tragico
teorie disordinate di una non-teorica (frammenti)
Il danzatore è un involucro tragico, è la forma eccessiva (ma non la polpa) della mia immagine della realtà.
[...] Quando penso a tutta la danza che ho studiato e che ho visto fare dai maestri e la confronto con quella che faccio mi sento una traditrice: mi hanno insegnato ad andare in profondità e l'ho fatto, studiando il mio movimento, ma ho trovato la mia "profondità" in una danza schiacciata, che stranamente trova il suo senso riaffiorando in superficie. Una danza bidimensionale, fatta di figurine esili, ritagliate dalla carta dei giornali...una rivoluzione di manichini sghembi.
[...] Danza che non lascia illusioni, che deforma i corpi, risposta nervosa a una insofferenza esistenziale, danza di figure che hanno perso il loro privilegio e non trovano più un loro posto, si accontentano, si adattano, subiscono senza rivoltarsi, non hanno da proporre che un ideale estetico senza polpa, non possono che perdere la battaglia con il mondo che è vivo, fatto da persone che agiscono...

Michela Lucenti

Trilogia del balarino
opera per parole danza e canti di Alessandro Berti e Michela Lucenti

Parte prima
Skankrèr o la famiglia dell'artista
personaggi e interpreti: balarino maledèt: Stefano Questorio; bagassa religiosa: Michela Lucenti; kankarèr: Alessandro Berti
testo e regia: Alessandro Berti
scrittura fisica: Michela Lucenti

Parte seconda
Home balòm - l'artista in tournée
corpi e storie: Anna de Manincor e Marco Mercante; mecenata: Cristina Spadoni
scritture e regia: Alessandro Berti
scrittura fisica: Michela Lucenti

Parte terza
Pamphlet
personaggi e interpreti: la coreografa: Michela Lucenti; Jojo, la ballerina: Anna de Manincor
testo e regia: Alessandro Berti
scrittura fisica e scelta delle musiche: Michela Lucenti